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mercoledì 13 giugno 2018

La storia di "Over the Rainbow"


"Oltre l'arcobaleno", "Over the Rainbow", nota anche con il titolo di "Somewhere Over the Rainbow" è una canzone di Harold Arlen, considerato tra i più grandi compositori del suo genere nel ventesimo secolo. Sono tante le composizioni che ha scritto, ma certamente "Over the Rainbow" è una delle più note. È stata scritta a metà degli anni trenta, quando Arlen si sposò e passò molto tempo in California scrivendo per i musical di Hollywood. In quegli anni iniziò la sua collaborazione con il paroliere Yip Garburg e nel '38 vennero chiamati dalla Metro-Goldwin-Mayer per comporre le canzoni per "Il Mago di Oz". Tra queste, anche la magica "Over the Rainbow" che valse loro l'Accademy Award per la migliore canzone originale. Fu Judy Garland (attrice, cantante e ballerina statunitense) che interpretò il ruolo della protagonista (Dorothy Gale). Questo pezzo ha sempre avuto un enorme successo e non c'è da stupirsi d'altronde. Nel 1981, questo brano ha vinto il Grammy Hall of Fame Award e miriadi sono gli interpreti che l'hanno riproposta dagli anni della sua nascita ad oggi (si contano circa 650 cover/arrangiamenti da altrettanti artisti di generi anche completamente diversi tra loro). Una nota da segnalare è che il pezzo presenta una spiccata somiglianza con l'intermezzo noto come "Il sogno di Ratcliff" di Pietro Mascagni (1895). Di seguito la versione originale e fiabesca interpretata da Judy Garland e la dolcissima versione del 1993 di Israel Kamakawiwo'ole (musicista statunitense nativo delle Hawaii) con traduzione dell'eccezionale testo.



"Da qualche parte, al di là dell'arcobaleno,
c'è un posto di cui ho sentito parlare, 
una volta, in una ninna nanna.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno,
volano uccelli blu e i sogni che fai,
i sogni, diventano davvero realtà.
Un giorno o l'altro esprimerò un desiderio s'una stella
e mi sveglierò dove le nuvole già saranno lontane dietro di me.
Un luogo dove i problemi si sciolgono come gocce di limone.
Ecco dove mi troverai.
Da qualche parte, sopra l'arcobaleno, volano uccelli blu
e i sogni che hai il coraggio di fare, diventano realtà.
Perchè? perché io non posso?  [volare come loro].
Vedo verdi alberi ed anche rose rosse
che sbocciano per me e per te.
E penso tra me e me: "Che meravigioso mondo".
Vedo cieli blu e bianche nuvole,
la luminosità del giorno, mi piace la notte
e penso tra me e me: "Che meraviglioso mondo",
I colori dell'arcobaleno, così belli nel cielo,
sono anche sui volti di quelli che passano.
Vedo amici stringermi le mani dicendo: "Come fai?";
dicono davvero, che io ti amo.
Sento i bambini piangere e li guardo crescere:
impareranno molto più di quanto noi sapremo.
E penso tra me e me: "Che meraviglioso mondo".
Un giorno esprimerò un desiderio s'una stella:
svegliati dove le nuvole sono lontane dietro di me,
dove i problemi si sciolgono come gocce di limone,
(molto) in alto sopra la cima del comignolo.
E' lì che mi troverai.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno, molto in alto,
(dove) il sogno che hai il coraggio di fare (diventa realtà).
Perché? Oh, perché io non posso?"

lunedì 23 aprile 2018

Eradius: the winner is Music


Eradius. Li ho scoperti al Vinyl. Sono in due, ma quando li senti suonare la loro performance ti travolge, ti ribalta come se fossero in quattro o cinque, come a dire: “Poco importano i numeri, nel rock la matematica può anche essere un’opinione”. Questo è quel che viene da pensare quando ascolti un duo del genere. Richard, al basso e alla voce (Londra, 1994) e Edoardo (Verona, 1991) sono a dir poco esaltanti. Il loro è un rock parecchio contaminato, si sentono le influenze raccolte negli anni da entrambi i musicisti. Si sentono e si amalgamano, ma al tempo stesso “spiazzano” piacevolmente all’interno dei pezzi e passando da un pezzo all’altro. I loro riferimenti sono i Rage Against The Machine e i Tool, mentre per la formazione si sono ispirati ai britannici Royal Blood, ma in realtà vanno anche oltre al rock e all’interno del genere le influenze sono davvero numerose. Un ottimo batterista, Edoardo, di quelli che in gergo si dice “hanno un bel tiro” e un bassista/cantante a dir poco fenomenale, Richard appunto. Richard ha una voce potente e versatile e suona l’amato basso divinamente, sia a livello tecnico che per l’espressività e l’originalità con la quale si approccia allo strumento. Una potenza. Senti un basso, ma quel basso non fa “solo” da basso e insieme, questi due, hanno un bel po’ da dire. Giusto per dare a Cesare quel che è di Cesare, riporto di seguito anche i premi vinti dalla band: primi classificati al Vicenza Rock Contest 2017, primi classificati al Krenkan Rock SMA Contest 2017, secondi al Tregnago Rock Contest 2017, finalisti all’Obbiettivo Bluesin 2017 e di nuovo primi al Festivalier Contest 2017. Insomma, i ragazzi si danno da fare e girano un sacco e considerando da quanto tempo sono una band, direi che sono belli carichi. Il 26 febbraio 2018 è uscito il loro primo album (“Eradius”), preceduto dall’uscita del singolo “Democrazy” e seguito dal singolo “Medusa”. Dodici brani ben assestati che sembrano dire: “Siamo arrivati e non potrete fare a meno di notarci”.




Ragazzi, a me il nome Eradius dice “Era di luce”, per associazione abbastanza ovvia. In realtà cosa significa? Da dove nasce questo nome?

Il nome è un rebus, e non vogliamo ancora divulgare il suo significato ci dispiace. Possiamo dire che un attento osservatore può intuirlo e diciamo che, al di là del significato, vuole anche rappresentare la multi-etnicità della band. Speriamo di aver fatto ancora più confusione nella mente dei lettori!

Come vi siete incontrati? Quando esattamente avete formato la band?

Noi ci siamo conosciuti grazie alla musica, abbiamo iniziato a suonare insieme in un trio cover rockabilly/blues ancora attivo, i Triple Rock, assieme a un chitarrista, Ray, che salutiamo con affetto. Ci teniamo sempre a citare i Triple Rock perché è stata e continuerà ad essere, la fonte economica che ci ha permesso di finanziare il progetto Eradius, quindi abbiamo pagato con la musica per creare altra musica. L'idea di cominciare a scrivere canzoni originali quindi ci arrivò scoprendoci affini come gusti musicali e soprattutto come idea generale del mestiere, saturi dopo anni di formazioni cover di qualsiasi genere. L'idea del duo ci è venuta un po' grazie all'ascesa dei Royal Blood, un po' perché non volevamo rischiare di perdere troppo tempo per trovare un terzo o un quarto elemento che avesse le nostre stesse idee e motivazioni. E quindi ufficiosamente ci siamo rintanati in sala prove per comporre la nostra musica durante l'estate 2016.

La vostra formazione musicale e le vostre influenze?

E: mi sono approcciato alla musica cercando di emulare goffamente al piano mio nonno, per poi iniziare con la propedeutica a casa dei miei zii, anche loro musicisti. Dopo di che ho iniziato lo studio della batteria nella scuola della banda del mio quartiere, per arrivare a laurearmi alla triennale jazz del Conservatorio L. Campiani di Mantova. Sono cresciuto ascoltando e suonando di tutto, dalle marcette alle colonne sonore, dal jazz al metal, dal blues al funk e tuttora nel comporre mi lascio influenzare da tutti questi diversi stili.

R: ascoltando le cassette dei miei ho conosciuto gruppi storici come Pink Floyd e Police e all'età di quattro anni ho iniziato a studiare pianoforte a Londra, fino ai dodici anni. Poi a quell’età, in Italia, mi sono avvicinato al basso elettrico e ho iniziato a esplorare tutto ciò che gli anni '90 avevano da offrire; in particolar modo Tool e Rage Against The Machine. Anche io ho intrapreso il triennio jazz al Conservatorio di Verona, mai terminato perché risultava impossibile conciliare studio, lavoro e live. Con il quattro corde in mano ho suonato in diverse formazioni rock/blues prima di incontrare Edo nei Triple Rock e con lui ho iniziato a prendere seriamente il canto, andando a lezioni e approfondendo la tecnica vocale.

Qual è stata la più grande soddisfazione che avete avuto fino ad ora e qual è il vostro grande sogno?

Sicuramente aver vinto diversi contest ci ha dato la forza e la consapevolezza che quello che era nato un po' per sfogo personale funzionava e meritava di essere portato avanti, ma probabilmente la più grande soddisfazione finora ci arriva dalla risposta del pubblico quando viene ad ascoltarci live o quando ascolta il nostro disco. L'orgoglio che emerge è pari a quello di un genitore nei confronti del proprio figlio. Adesso il nostro grande sogno è di portare “Eradius” oltralpe, e misurarci col pubblico europeo e, chissà, forse un giorno anche più lontano!

Richard, per chi non ha mai sentito i vostri pezzi: quali sono le tematiche, le ispirazioni, le aspirazioni, gli intenti, se ci sono – dei tuoi testi?

Premetto che la stesura dei testi è condivisa da entrambi - la maggior parte delle volte, infatti, il testo nasce in italiano da Edo e poi io lo traduco cercando di adattarlo alla parte strumentale. Sebbene complesso a parole, in questo modo abbiamo trovato una quadra molto più pratica del previsto. Detto ciò, i testi di “Eradius” sono per lo più di protesta, denunciando tutto ciò che ci sembra sbagliato nella nostra società. Parliamo di ambiente, politica, web, religione, dipendenze, senza però cadere nella propaganda. In altre parole non abbiamo voluto metterci altezzosamente in cattedra spiegando come si dovrebbe fare, ma semplicemente dicendo “Ehi, lo vedi che così non va bene?”. Parliamo anche di relazioni (“Medusa” e “Black Queen”) e un pezzo (“Desert”) è dedicato agli artisti che hanno contribuito a questo album, come grafici e disegnatori; in particolare a Enrico “Berta” Bertagnoli - autore del logo - e Tom Colbie, autore della copertina.

Come immaginate il vostro futuro e come quello dell’umanità?

Speriamo di continuare a suonare con la stessa passione di adesso, divertendoci e facendo divertire chi ci ascolta. Per quanto riguarda l'umanità, speriamo che vada sempre in meglio invece di peggiorare. In generale non guasterebbero più empatia e meno prosciutti sugli occhi.

Qual è la cosa più bella del mondo per voi?

L'arte in tutte le sue forme, pensiamo sia l'esternazione più concreta che l'essere umano ha a disposizione.

Chi è/chi sono la persona/le persone che più vi hanno insegnato qualcosa durante il vostro cammino artistico e non?

I nostri insegnanti in primis, i musicisti con cui abbiamo condiviso i palchi, gli artisti che siamo andati a vedere dal vivo, i fonici e i tecnici, il pubblico...il nostro produttore Tommaso Canazza! A nostro avviso un artista non ha mai finito di imparare e dovrebbe essere in grado di imparare sempre qualcosa dalle persone che incontra o dalle situazioni in cui si trova, anche laddove queste siano negative o controproducenti. Inoltre ci sono state persone che durante il nostro percorso ci hanno sostenuto e aiutato, come amici e familiari e in particolar modo Emanuele, che con il suo marchio Atropine ci veste e ci tifa come un ultras!!

In cosa credete?

R: Credo nella meritocrazia e nella musica come veicolo di sentimenti ed emozioni.
E: Credo nella forza individuale. Ognuno di noi ha l'energia necessaria per raggiungere qualsiasi obbiettivo, il resto sono scuse.

Colori. Di che colore è la vostra musica? e voi?

R: grigio
E: blu

-        And the winner is…?

Music.

Music, concordo. The winner is always music. Thanks ragazzi!

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giovedì 1 marzo 2018

L'omicidio Joplin



Janis, la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis, quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se ballava libera sul palco, ma giù dal palco poi era un'altra storia. Janis, intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con lei non c’entrava niente anche se in modo diverso rispetto alla città che la circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o forse, si, forse solo per carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno, ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere dentro di se la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro, come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni – scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato, storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta “abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano. Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno di questo gruppo di casinisti ed era proprio lei la più caotica. Non aveva nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo, facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta. Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università però iniziò a cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus). Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande intelligenza, si illuminò di fronte a lui la sua mente brillante, nascosta sotto strati di trascuratezza e tutto ciò lo fece innamorare. Si fermarono anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore, finalmente arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito dopo Chet la portò ad esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale – con quattro brani cantati a cappella – ricevette un’ovazione esplosiva da parte del pubblico, racimolando anche qualche soldo. Janis iniziò poi una relazione con una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet, con il quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk, che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers, con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo, i Big Brothers, cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi leggendario, l’ “Avalon Ballroom”  e fu lì che Janis iniziò ad esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother & The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò, Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad aumentare, poiché ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce della giovane artista. Nel ’67 infine ebbero la loro grande occasione. Si esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì, di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo, partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero sentire e ad un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per prendere strade diverse e lei decise di continuare come solista. Nel ’69 iniziò a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues, ma il loro concerto a Memphis fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli, proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star, realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo ed anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più, sempre di più, perché la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a qualcuno, per lei, c’era qualcosa di sbagliato in quel che faceva. Una cosa assurda naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock. Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di se. Di ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e dopo la puntata, si diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe anche la modella ed attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol e la loro cameriera, per quanto possa sembrare strano a dirsi, fu la futura Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi con i Big Brother, che nonostante tutto la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti). L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea completamente fuori di testa, senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di “Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70, Janis morì di overdose, a soli ventisette anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei brani, “Buried Alive”. Si, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico, la sua musica, restò nell’eternità.

Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa e la sua musica è rimasta nella storia e nella storia resterà per sempre, eppure anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha saputo ribellarsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a ribellarsi nel modo giusto, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde, per un buio dal quale non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità, con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il futuro sia creato dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - meraviglioso oceano chiamato mondo.


"E ogni volta ripetevo a me stessa che non potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue braccia, lo canto ancora una volta."