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venerdì 31 luglio 2020

Tutto il superfluo

la spiaggia di the beach

Non credevo di trovare così tanta gente al mio arrivo o forse sì. In realtà non sapevo bene cosa aspettarmi. È così che succede quando una spiaggia, per assurdo, diventa famosa con un film hollywoodiano. Io ero lì per trovare ispirazione, come se andare in giro per il globo potesse farmi superare quel blocco che avevo. Ero un illuso o… forse no. Era un contesto felice e triste al tempo stesso. Pensavo al libro che tanto avevo adorato e che avevo divorato in tre giorni e pensavo al film che in adolescenza mi aveva fatto sognare. L’arte serve anche a questo, a far sognare, ma a volte è come un ossimoro. In questo caso lo era certamente. La spiaggia di Garland non era un luogo reale in cui l’uomo avrebbe messo i suoi sporchi piedi; quella scelta per il film – invece – lo era eccome. Un locale mi disse che non era poi così affollata, che ero stato fortunato, ma si lamentava, preoccupatissimo per le sue sorti. Ora mi sentivo in colpa per esserci andato. Provai a distarmi leggendo un libro, poi mi immersi in quelle acque meravigliose. “Non dovevano farlo” – pensai sott'acqua – “e io non dovrei essere qui”. Scrivere un libro non danneggia un luogo incontaminato, girarci un film si. La cosa più assurda era che avevano scelto davvero un posto che prima non era in pericolo e che adesso, per colpa nostra, lo era. Morale, etica, falsa morale, falsa etica. Il regista era stato bravissimo, non c’è dubbio, anche se come spesso accade i film tratti da un libro non sono all’altezza degli stessi. Sono sincero, davvero, avevo amato quel film, ma adesso la consapevolezza era diversa. Lo era? Ero lì e non dovevo esserci. Era diversa, certo, ma non abbastanza. A mia difesa posso solo dire che volutamente non usai la crema solare, per non lasciare la mia putredine in acqua. Il risultato fu ovviamente una scottatura, ma mi stava bene. Non dovevo essere lì. Un’area protetta, lo è per un motivo. A pensare che un tempo tutta la terra era così incontaminata, il cuore mi si stringeva in una morsa. Mi sentivo troppo in colpa per restare oltre. Mi alzai dopo solo due ore dal mio arrivo e raccolsi le mie cianfrusaglie stando attento a non lasciare nulla di strano in giro. Tornai a Phuket e mi diressi verso la città vecchia, a Thalang Road. Gli edifici sino – portoghesi accompagnavano i miei dubbi: “Forse un’idea ce l’ho”, pensai. Mi sedetti per una pausa a bere qualcosa, in silenzio e solo come sempre. Pensavo a coloro che vedevano in me un maestro nonostante la relativamente giovane età. “Chissà perché…”, mi dicevo. Lei apparse all’improvviso, inaspettata come la forza dei miei sensi di colpa su quella spiaggia paradisiaca. Immaginai il blocco di marmo dal quale sarei partito e al tempo stesso cercai di fissare nella mia testa confusa ogni dettaglio del suo corpo, del suo viso, del suo vestito leggero. Si sedette al tavolino di fronte al mio, ordinò da bere facendosi aria con un volantino e notò che la stavo guardando. Mi sorrise, ma non ebbi il coraggio di rivolgerle la parola. Era troppo, troppo bella per me. Certamente non lo sarebbe stata per tutti, ma per me era incantevole, tanto da togliermi l’abilità della parola.

Tornato a Roma, nel caos, la prima cosa che feci fu cercarla. Andai nel mio laboratorio, scelsi il blocco di marmo migliore e cominciai a togliere tutto quel superfluo che la divideva da me. Vedevo nei miei occhi il colore dei suoi capelli, di un rosso che mi pareva non aver mai visto prima. Vedevo le sfumature delle sue labbra, carnose e dolci. Vedevo la fantasia del suo vestito estivo, blu con dei fiorellini bianchi e l’ambra dorata della sua pelle che al ricordo mi sembrava brillare. Percepivo a ogni colpo di scalpello l’adagio del tessuto sulla sua pelle e mi sembrò di baciarla quando delineato il suo naso imperfetto e grandioso, mi trovai a ripulire la polvere dal suo viso. Era perfetta, l’avevo trovata o… forse no.