Frank
Zappa era americano, ma non solo. Portava con sé le origini siciliane del padre, un po' di
sangue francese e un altro po' di italiano, da parte di madre. Sangue misto, meticcio, favolosamente
meticcio. Vi chiederete cosa c'entri il sangue misto con la musica. Beh, forse molto, forse poco, ma nel dubbio è una buona informazione. Può esserlo anche pensando alla sua personalità, al suo modo di essere così geniale, creativo e severo, contradditorio e coerente con le sue stesse contraddizioni, appassionato e passionale. Dire che Zappa fosse un meticcio musicale è riduttivo. Zappa era, è e sarà sempre molto più di questo; per la musica e non solo. Ispirato, nel senso più alto del termine. È difficile scrivere di lui, era Tanto con una T enorme ed io "...non ho alcuna convinzione per come è
intesa dalla gente del mio secolo. [...] Solo i briganti sono
convinti - di che? - di dover riuscire. Così riescono. [...].
Tuttavia ho qualche convinzione, in senso più elevato, e che non può
essere capita dalla gente del mio tempo" (Charles, quanto lo
adoro). In effetti, ci sarebbero una miriade di cose da dire. So che molti
di coloro che leggeranno sapranno benissimo di chi si parla, ma so
anche che, purtroppo, tantissime persone non ne avranno la minima idea. È successo e continua a succedere per molti grandi del passato, di un tempo definito lontano, ma che a dire il vero non lo è così tanto (a volte sì, ok, ma
l'arte non può essere storicizzata. "Non per come lo intendono
gli uomini del nostro tempo"). Qualcuno potrebbe averlo sentito
nominare molte volte senza pensare a chi fosse e a cosa facesse,
potrebbero aver visto il suo volto - una faccia che ti rimane nel
cervello a vita quando la vedi - senza sapere
nulla di lui. La cosa triste è proprio questa: in Italia c'è
una non cultura così diffusa da far star male chi la musica la ama,
la vive, sa come funzionano le cose e perché. C'è un enorme buco, lasciato lì a ingoiare strascichi di curiosità e sete perduta, ammalata, deturpata. Pur essendo un dato di
fatto che è così, che tanta gente se ne frega e non si pone il
problema, come non se lo pone per la mancanza di rispetto assoluta
per l'arte tutta, è più forte di me; è una cosa che non riesco ad accettare e continuerò a sognare che le cose cambino e che
anche piccole gocce in un oceano di persone, a loro modo, possano riuscire a rivoluzionare tutto. Sto divagando? In verità, no. Frank ha lottato parecchio per la musica e non "solo" per quella. È stato musica d'ogni sorta, purché buona. Un po' come nella ben nota frase di Einstein. Frank era parole, testi diretti, crudi fino allo stremo. Era arte nell'arte, dentro al mondo e fuori dal mondo; solo che, per chi non lo conosce, questa frase può sembrare insensata. Chitarrista, compositore,
interprete, produttore discografico, direttore d'orchestra e
arrangiatore. Un genio della musica, passato dal cantautorato rock al rock blues fino al rock più contaminato, tanto che per alcuni "puritani" del genere era persino troppo; ha suonato e composto musica rock, jazz, fusion, classica e classica sperimentale. È passato, in compagnia della sua musica in mezzo al cabaret, per giungere alla satira, poiché i suoi testi sono sempre stati onesti, viscerali, crudi dicevo, come una bistecca rosso vivo. Era volontariamente esagerato, tanto diretto da non essere immediatamente colto da gran parte del
pubblico del suo tempo (...) e, come spesso accade, compreso perlopiù in seguito. Non era facile Frank, ma quale genio potrebbe esserlo? Frank Zappa è stato un perenne funambolo; un funambolo spericolato e consapevole che si spostava avanti e indietro e saltellava di qui e di là s'una bella corda posizionata il più possibile ad alta quota. Immaginatelo: lui che cammina, beato, sulla corda meravigliosa del
teatro dell'assurdo e del jazz, iper protagonista e iper creativo. Era come se danzasse attorno a un fuoco camminando sulla sua folle corda. Volontariamente e incantevolmente folle. Professionalmente impeccabile,
preparatissimo, contaminato nelle ispirazioni da miriadi di sfumature
e riferimenti diversi. Geniale. Un aneddoto che mi ha colpito nella sua storia, l'ho trovato in un articolo che parlava di un concerto tenutosi nel 1982, nel quale fece installare un, allora ancora poco diffuso, megaschermo. Sullo stesso fu proiettata una partita di calcio e la sua
spiegazione al pubblico, prima di iniziare una delle sue epiche performance fu semplicissima: "Chi non capisce
un tubo della musica che faccio, può tranquillamente guardarsi le
partite... così non ha buttato i soldi del biglietto". "Does
Humor Belong in Music?". Oh, si che può. Zappa ne era un maestro
e questo è il titolo di un suo live album e di un tour, con
grandiosi musicisti al seguito naturalmente, del quale vi propongo sotto un
video. In particolare, qui si tratta dello storico "Live At The
Pier" e del brano "Keep it greasey". Dopo un minuto e
trenta secondi dall'inizio, sul finire di "Bobby
Brown" e collegando simpaticamente i due pezzi, Frank Zappa
annuncia: " Watch me now because the name of this song is "Keep
it greasey" ". Si tratta di un brano che fa parte di un concept
album suddiviso in tre atti, pubblicato nel '79 e che narra le
avventure e le disavventure del protagonista Joe. Nel caso di "Keep
it greasey", Joe è prigione da un po' e Zappa ne narra le
disavventure. Come parlare di una realtà terribile, trasmettere un
messaggio forte e riderci sopra? Presto detto: "Keep it
greasey".
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venerdì 18 ottobre 2024
Frank Zappa: il funambolo danzante attorno a un fuoco (2024 review)
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teatro dell'assurdo
mercoledì 11 dicembre 2019
Il Trio Bobo: Faso, Meyer, Menconi
Il Trio Bobo è un’esplosione di
energia, espressività, passione e livello musicale altissimo. Non a caso è
composto da tre dei musicisti più bravi d’Italia, vale a dire Christian Meyer
(batteria), Faso (basso) e Alessio Menconi (chitarra). Come già molti di voi
sapranno si tratta della sezione ritmica di Elio e Le Storie Tese unita ad uno
dei chitarristi più bravi del jazz italiano (e chitarrista di Paolo Conte).
Vederli dal vivo è una goduria. Li vedi sorridenti, allegri, liberi e mi
ricordano un po’ degli atleti che fanno numeri di grande difficoltà con il viso
rilassato e gioioso, facendo comprendere che quel che fanno, pur se difficile,
è per loro di una naturalezza infinita. È ovvio che quando si parla di
musicisti di questo calibro si rimane a bocca aperta. Io in particolare ero
allibita da Christian, avevo la mascella autonoma, viveva di vita propria.
Naturalmente anche per Faso e Alessio, ma amando particolarmente lo strumento,
vedere un batterista come Christian Meyer suonare a pochi metri e stare ad
osservare, con una certa conoscenza dello strumento, quello che fa… non può che
suscitare questo effetto. Faso e Alessio comunque, sono – come dire – "bestioline da palcoscenico" e chi li ha potuti ascoltare e vedere anche in altre
occasioni lo sa, non c’è molto da spiegare. Questo Trio sta suscitando sempre
più successo tra il pubblico e non è solo per la musica straordinaria,
coinvolgente e originale che creano – anche se è fondamentale – ma anche, credo
io, per la capacità che i tre hanno di coinvolgere ed interagire con le persone
che hanno di fronte. È un continuo scambio, di musica, emozioni ed allegria e
alla fine del concerto non si può fare a meno di acquistare almeno uno dei loro
album. Per questa chiacchierata con loro, per la prima volta da quando
esiste Il cammino, ho voluto coinvolgere anche i lettori e chi era interessato
a fare domande ha mandato un messaggio privato sulla pagina Facebook, scoprendo
in anteprima di chi si trattasse. Tra queste domande, le selezionate sono state
inserite nell’intervista che potete leggere qui sotto.
Allora “gggiòvani”, raccontate a chi
ancora non lo sapesse come è nato e cosa combina il Trio Bobo... aneddoti
particolari da raccontare a riguardo?
Alessio: Il trio
nasce 17 anni fa, quando ci siamo riuniti quasi per caso per fare due concerti
nei quai abbiamo suonato cover jazz/rock. Da lì ci siamo trovati bene in tutti
i sensi ed abbiamo deciso di proseguire scrivendo musica nostra.
Chris: Io pensavo
che avremmo dovuto avere un nome tipo “Power Trio” e Faso ci ha convinti che Trio
Bobo fosse il nome giusto. Aveva ragione Faso e ho dovuto rivedere tutte le mie
convinzioni di titolista farlocco.
Avete pubblicato tre album,
accolti con grande energia da tutti, con live pieni di entusiasmo da parte del
pubblico più svariato... e ora? state già lavorando a un nuovo album?
Faso: Abbiamo pubblicato “Trio Bobo” nel 2005, “Pepper Games” nel 2016 e “Sensurround” nel 2019. Il primo album però è poco noto perché ha avuto diffusione molto limitata.
Alessio: Magari
al quarto ci lavoreremo il prossimo anno!
Chris: Fare un cd
richiede molto tempo e oggi siamo schiacciati da un mondo veloce, perciò le due
cose coincidono poco, ma noi teniamo duro!
Faso: Nel trio
confluiscono i gusti musicali e le passioni di tutti e tre i componenti, che
coprono uno specchio abbastanza ampio di generi musicali: rock, blues, jazz,
progressive, dance ’70, pop, afro, musica brasiliana, soul. Va da sé che le
nostre composizioni contengono tante spezie diverse e posso quindi incuriosire
ed essere apprezzate da un pubblico eterogeneo.
Christian, come sai - visto
l'amico/idolo in comune (Gianni Cazzola, re dello swing italiano, n.d.r.) - ho
una predilezione per i batteristi anche se è ovvio che in quanto appassionata
fino all'osso di musica amo ogni grande musicista, però cavolo, vederti suonare
è praticamente un viaggio e sembra che il viaggio lo stia facendo anche tu.
Mettendo la frase tra virgolette, "sei più tu a "tenere il
controllo" - se così si può dire - su quello che fai o è più la
musica che trascina te"? Un po' come dire... chi è che "comanda"
di più?
Chris: Quando un batterista suona con dei bravi musicisti vi
è una sorta di traino musicale che ti facilita il compito di sostenere il
gruppo. Io
tendenzialmente, sul palco entro in una fase molto selvaggia e libera. Naturalmente
non spengo il cervello e cerco anche di non esagerare con imposizioni ritmiche,
bensì di rispettare gli spazi degli altri musicisti. Sicuramente il
batterista ha la potenzialità di rendere un gruppo più o meno interessante. Come?
grazie alle dinamiche, alle pause o ai colori che decide di utilizzare. Il
batterista può o non può suggerire scenari ritmici immediati e stimolanti.
Ora, per la prima
volta nella storia del blog, vi riporto alcune domande da parte del pubblico.
La prima domanda è di Arianna Capirossi che chiede: qual è la parte che
preferite del vostro lavoro? la composizione, l'esibizione live, l'incisione…?
Alessio: Io
preferisco suonare dal vivo.
Faso: Anche io
preferisco suonare dal vivo, però non nascondo che lavorare sull’arrangiamento
di un brano in studio non mi dispiace affatto.
Chris: Concordo
con i miei amici musicisti. Dal vivo hai adrenalina e contatto con il pubblico, in studio puoi ragionare e divertirti in un altro modo.
La seconda è di Alain Morandi (un
grande musicista tra l'altro, n.d.r.): qual è la scintilla che ha innescato la
miccia per dar vita a questo trio? e a chi vi siete ispirati?
Alessio: Abbiamo
diverse influenze, alcune in comune e altre no ed è forse per questo che nasce un
sound particolare ed originale.
Faso: Concordo
con Alessio e aggiungo solo una cosa: come ispirazione sull’approccio dal vivo
di sicuro ci ispiriamo - con grande umiltà - ai Weather Report, che dicevano di
essere “sempre in solo, mai in solo”, vale a dire “improvvisare si, ma in modo
misurato”.
Chris: Concordo e
aggiungo che suonare in trio ti permette di prendere direzioni musicali diverse
mentre sei live sul palco. Il trio è un divertimento.
La terza e ultima domanda dei lettori
è di Sergio Gritti, cantautore: quando si è musicisti affermati si ha la
possibilità e la capacità di suonare un po' tutti i generi musicali, ma mi
sembra che spesso capiti che alcuni musicisti suonino generi non proprio
consoni ai loro gusti musicali, a volte per questioni di mercato, di richiesta.
Che ne pensate?
Alessio: A volte
non tutti hanno la possibilità di suonare la propria musica o semplicemente non
hanno abbastanza “motivazione”, quindi molti musicisti si ritrovano a suonare
musica che non amano semplicemente per lavoro.
Faso: Se di
lavoro fai il musicista devi tenere conto che non sempre suonerai la musica
che preferisci. Anche perché se fai troppo il difficile diventa complicato
mantenersi! Mi reputo molto fortunato ad aver suonato per 30 anni con gli
Elio e le Storie Tese e da oltre 15 anni con il Trio Bobo, non capita a tutti
in Italia.
Chris: Infatti
noi siamo fortunati perché suoniamo la nostra musica. Ecco perché ci vedete
sorridenti sul palco!!!
Chiudo io, con una mia domanda di
rito. Di che colore è il Trio Bobo?
Alessio: Giallo.
Faso: Giallo
limone.
Chris: Giallo
canarino.
Grazie ragazzi e voi che leggete, andate a sentirli da
vivo!!!
Link:
giovedì 2 marzo 2017
Gianni Cazzola, la quercia swing
Gianni
Cazzola. Ecco. Dire Gianni Cazzola è come dire "jazz", è come dire "swing". Se non lo conoscete, ve lo
presento io (giovani e non, siate furbi, accorrete). Quando io e mio
marito lo abbiamo incontrato è stato incredibile. Sentivo in me un
subbuglio emozionale ascoltandolo parlare e pensando a quanto ha
fatto questo artista, quest'uomo, nella sua vita. È un uomo gentile,
molto dolce e ha il fare saggio di chi ha visto il mondo e conosce
la vita e, più di tutto, la musica. Settantanove anni di carica,
grinta, voglia di suonare, suonare e suonare ancora; di gioire e far
gioire attraverso la musa. Per rendere un po' l'idea di chi sia, per chi non lo
conoscesse, questo batterista è citato nell'enciclopedia Treccani
"Tra i musicisti di alto livello espressi dal jazz italiano" e lo presenta così: "Mr. Cazzola è più di un musicista: è un pezzo della storia
del jazz. I suoi tamburi hanno sostenuto, suonato e corroborato i più
grandi jazzisti che il globo abbia ospitato". Per citarne alcuni, beh, si parla di Billie Holiday, Art Farmer, Johnny Griffin, Clark
Terry, Dexter Gordon, Gerry Mulligan, Tommy Lee Flanagan e molti
altri padri del jazz internazionale; artisti italiani quali Gianni
Basso, Renato Sellani, Giorgio Azzolini, Guido Manusardi e l'elenco è
lungo, molto lungo. Si è cimentato anche nel pop, con Mina e
l'Orchestra di Augusto Martelli. Non credo di dover scrivere molto
altro, perché penso che già quel che ho scritto possa rendere
l'idea della sua grandezza. Sentire e vedere suonare Gianni Cazzola,
per un amante della musica, è come ammirare le radici di
un'imponente quercia, per un amante della natura. Chiacchierare con
lui, direi che è una forma di poesia. Alza la cornetta e si
preoccupa subito di sapere come sto, ci facciamo due risate e
iniziamo a parlare...
Gianni...
come ti sei avvicinato alla musica? Ricordi una scena, un momento
particolare di te bambino, ragazzino, in cui hai pensato per la prima
volta che non avresti mai potuto farne a meno?
"Io
mi sono avvicinato alla musica... e alla batteria chiaramente,
vedendo mio fratello. Lui era un dilettante, un autodidatta e suonava
nelle orchestrine da ballo in Emilia, negli anni '50. Siamo nati in
campagna, vicino a Bologna - e stavamo in questa tipica casa in mezzo
alla natura nella quale lui, in una stanza, teneva la batteria ed io
vedendola ne rimasi subito fulminato, fin dalla prima volta. Così
nacque la passione. Forse capii che quella era la mia storia e doveva
andare così... Vidi questa stupenda batteria verde, era di una marca
che ora non c'è più - Super Alberti si chiamava - ed era molto
bella, grande; allora usavano le batterie grandi. Quando lui andava a
lavorare io mi fiondavo nella stanza e suonavo. "Picchiavo"
più che altro. Inizialmente così, un po' senza senso, poi ho capito
- anzi, mi hanno fatto capire - che avrei potuto suonarla veramente.
Ero piccolino all'inizio, avevo nove anni. Sono un autodidatta
completo, non ho mai studiato con nessuno, dunque sono proprio un
musicista della strada... ho imparato ascoltando gli altri."
Cosa
ti ha portato ad amare in particolare jazz e swing?
"Eh
sai, in casa in quel periodo avevamo un vecchio grammofono e mio
fratello aveva i V-Disk, "I dischi della vittoria" della
seconda guerra mondiale. In quei album c'erano tutti i grandi: Duke
Ellington, Louis Amstrong, Gene Krupa, che al tempo era il mio
idolo... e a me piaceva un sacco quella musica; mi piaceva il ritmo,
mi piacevano le melodie, dunque il jazz mi è entrato nel sangue fin
da allora e poi la passione è cresciuta nel tempo..."
Hai
suonato con tanti grandi, ma essendo io particolarmente affezionata a
Billie Holiday... ("Ehhh... una bella passione", aggiunge
teneramente), ti chiedo... come la ricordi? Come vi siete incontrati?
"Beh,
io suonavo in un club di Milano nel 1958, con un mitico quintetto,
famosissimo, che si chiamava "Basso Valdambrini Quintet"*
e con loro stavo iniziando la mia carriera; abbiamo suonato
tantissimi anni insieme. Avevo iniziato l'anno prima con Franco
Cerri, poi fui scritturato da loro e, quell'anno, suonammo in questo
club che si chiamava "Taverna messicana". Era frequentato
da tutti i musicisti perché era un club fantastico, in cui si
suonava jazz. E una sera... la vidi entrare: vidi questa donna
stupenda scendere le scale con la sua pelliccia meravigliosa e
(ride)... si sedette vicino a noi. Era lì per ascoltare la musica,
la sera prima era stata in un famoso teatro di Milano - "Lo
smeraldo" - e lei era molto... triste; però là, quella sera,
avevamo degli amici comuni e pensarono che avrebbe potuto farle
piacere se l'avessero portata da noi e così... dopo un po' cantò con noi, tre
pezzi. Era una donna dolcissima. Alla fine la ringraziai, lei mi
carezzò la schiena e mi disse "Yeah baby...", con la sua
voce roca... un'emozione molto bella..."
*Nato
nel 1950 da Gianni Basso - sassofonista, direttore d'orchestra e
compositore - e Oscar Valdambrini – trombettista tra i massimi
esponenti del jazz italiano, il quintetto fu esteso talvolta fino a
un ottetto, a seconda delle esigenze. I componenti dello
straordinario progetto si esibirono in tutta Italia e all'estero,
collaborando con molti dei grandi del jazz italiano. Da Dino Piana e
Mario Pezzotta (trombonisti) a Glauco Masetti e Attilio Donadio
(sax), Gianni Cazzola – appunto – alla batteria e Renato Sellani
(al pianoforte) - ndr.
Gianni,
come spiegheresti la musica a una persona che ipoteticamente non sa
cosa sia?
"Ah
beh, questo è un bel casino! (ride) Non è per niente facile
risponderti! La musica si percepisce, si sente, non si può spiegare.
Come un swing, come fai a spiegarlo? è una cosa che hai o non
hai, non la studi. Siccome ha il swing lo ha studiato... no, no..."
Lo
so, ma te l' ho fatta a posta questa domanda, ero curiosa di sentire
cosa avresti risposto tu! ah ah!
"Eh
davvero, è un po' dura rispondere qui, ah ah..."
Ellade
Bandini, visto che ne abbiamo parlato quando ci siamo visti... Come
ti dissi lo adoro, è un musicista incredibile e una persona
dolcissima...
"Beh,
è un fratello per me, lo sai. Ci vediamo spesso, si, si..."
Come
vi siete avvicinati voi due?
"All'inizio
è lui che si è avvicinato a me. Lui ha otto/nove anni in meno di me
e mi seguiva, mi veniva ad ascoltare in giro. Dov'ero io, lui
arrivava. Mi ha sempre seguito perché ha sempre amato il mio modo di
suonare. E io pure ho amato il suo, molto. Lui è veramente un
grande... nel senso che oltre a suonare bene il jazz, è il
batterista più completo che io conosca, anche nella musica più
commerciale per dirti. Ha suonato con tutti i più grandi come ben
sai".
Altra
domanda abbastanza classica, ma vista la tua grande esperienza non
è fattibile che manchi. Cosa dovrebbe tenere sempre presente un
musicista emergente, secondo te?
"Ascoltare. Ascoltare con umiltà i vecchi musicisti, ascoltare la tradizione. Oggi ci sono troppi musicisti che... magari suonano anche bene, ma suonano "la moda". Non conoscono nemmeno, magari, certi batteristi, trombettisti, sassofonisti... perché oggi è cambiata la storia, non è più come prima. Prima era un ascoltarci continuo, adesso se la tirano pure."
E
a volte sono pure delle schiappe e pensano di essere chissà chi...
ne ho beccati a bizzeffe così – (commento io, ridendo per... non
piangere?)
"Esatto!!!
ah ah ah! è proprio così!"
E
invece guarda caso, di solito i più grandi hanno anche un'umiltà
pazzesca. Come dico sempre, se un artista perde l'umiltà...
"Ah
si, manca tutto, perde tutto."
Ecco,
una domanda che mi è venuta adesso. Visto che inizialmente ti veniva
un po' da ridere perché in tutti questi anni, più o meno, ti hanno
fatto sempre le stesse domande. C'è una domanda che magari avresti
voluto ti venisse posta, ma non te l'hanno fatta? e se si dammi la
risposta! ah ah!
"Ehh non mi viene (ride, in maniera dolcissima). Piuttosto, parliamo di
questa cosa, a cui tengo molto. Ho creato, anzi non io perché è un'idea
del grande Sandro Gibellini, un gruppo sulle musiche di Fats Waller
che si chiama "Fatsology": è una delle cose più belle che
io abbia fatto negli ultimi trentacinque anni di carriera. La
formazione comprende appunto Sandro Gibellini alla chitarra, Alfredo
Ferrari al clarinetto, Marco Bianchi al vibrafono, Roberto Piccolo al
contrabbasso, io alla batteria e Alan Farrington alla voce. Questo è
davvero un bellissimo progetto; saremo anche all'Umbria Jazz, tra le
altre cose."
Com'è
la tua anima Gianni?
"Tre
volte jazz e cinque volte swing..."
Concludo
con la mia domanda "canone". Dimmi, di che colore sei....
"Eh...
il colore, beh, rosso blu! sono del Bologna! (ride di gusto) Però
il mio colore preferito è il verde, fin da piccolo ho sempre amato
questo colore. Forse perché sono nato in campagna e ho sempre visto
un sacco di verde, che ne so, ah ah!"
Gianni, il primo sulla destra, con Billie Holiday e il Basso Valdambrini Quintet |
O
forse, ho pensato poi io, anche perché la prima batteria con la
quale ha iniziato era... verde?
Grazie
Gianni... e come dici sempre tu: "Un grande abbraccio swing"...
Gianni Cazzola, Nico Menci, Paolo Benedettini, "Aloner Together", "Smell Swingin' " 2016
"Gianni Cazzola's 4et", live in Jazz Club Torino, 2015
Gianni Cazzola in "Basso Valdambrini Quintet", "Mitigati", 1960
domenica 11 gennaio 2015
George Gershwin: la genialità innata
George
Gershwin nasce a Brooklyn nel settembre del 1898. Fin dal quando era
piccolo, a soli dieci anni, comincia a mostrare interesse per la
musica, inziando a suonare il pianoforte senza aver mai studiato
musica, seguendo solo ciò che l'istinto lo portava a fare. Così è
nato il suo genio musicale, da quel momento, in cui ha deciso di
provare a premere quei tasti bianchi e neri che così tanto lo
affascinavano. Forse era rimasto affascinato dal tentativo della
sorella Francis di avere una carriera musicale. Frances aveva
cominciato a guadagnare qualche soldo con il canto e il ballo, ma
lasciò dopo non molto, perché al tempo ancora non era ben accetto
che una donna, sposata, si dedicasse ad attività creative e
ricreative. Fatto sta che il piccolo Gershwin, da quel momento,
inizia a diventare... il grande Gershwin. La musica di Gershwin è
conosciuta a milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Molte
persone ascoltano un pezzo, ne restano incantati e magari non sanno
che è suo e... magari non sanno che quel tal pezzo, reinterpretato
come è spesso accaduto da miriadi di eccellenti artisti, è proprio
suo, viene dal suo genio, perché di genio si tratta. Gershwin
affermò che gli piaceva pensare alla musica come a una scienza
emozionale; Gershwin compose, nella sua testa, la grande e
famosissima “Rapsody in Blue” (1924), mentre ascoltava i ritmi e
i rumori metallici del treno che lo stava portando a Boston. Quando
la consegnò ai suoi collaboratori e colleghi, per lui ancora
incompiuta, tutti si misero a lavoro e Ferde Grofé, compositore e
orchestratore, si occupò subito dell'orchestrazione del brano.
Lui... lui che voleva ultimarla, perfezionarla, immaginate il
momento, tutti a lavoro perché l'opera fosse orchestrata al meglio e
lui ancora lì, a ritoccare, a rivedere, a perfezionare. Il direttore
d'orchestra, Paul Whiteman, a cui Gershwin aveva consegnato l'opera
al suo arrivo però aveva dato il via alle prove e rimase allibito
quando comprese che Gershwin avrebbe voluto migliorarla
ulteriormente. Si domandava come avrebbe potuto, migliorare qualcosa
di già così grandioso. L'opera dunque rimase come era stata
consegnata al direttore ed è tuttora quella che la sua mente aveva
composto, dall'inizio alla fine, durante un viaggio in treno per
Boston. Riuscite a immaginare quel momento? Io ci provo, con tutte le
forze, cerco di immaginare cosa gli passasse per la testa, sul treno,
sceso dal treno, mentre si affannava per ritoccare il brano ed
ultimarlo per come lo voleva lui. Quel momento, in cui i rumori
metallici gli hanno dato l'ispirazione per creare un capolavoro di
tale portata. Meraviglioso. Semplicemente meraviglioso. Andiamo
avanti però... Gershwin che spazia dalla musica colta al jazz, fino
al blues e al musical e Gershwin che diventa l'iniziatore, del
musical americano. Gershwin che non nasce George, bensì Jacob e
nasce da due emigrati ebrei: il padre, Moishe, cambiò il suo nome in
Morris Gershwin qualche tempo dopo essere emigrato da San Pietroburgo
e quattro anni più tardi conobbe Rose Bruskin, ebrea russa, che
sposò e con la quale diede vita a quattro figli, tra i quali Jacop,
appunto. Il nome, Jacob, lo cambiò quando divenne un musicista
professionista (chissà perché? Era già un bel nome Jacob, forse a
lui non "suonava" bene). Ha scritto la maggior parte delle
sue opere vocali e teatrali in collaborazione con il fratello
maggiore e paroliere Ira Gershwin. Gershwin... che nel 1928, nel
periodo europeo, compone “Un americano a Parigi”, Gershwin che
nel 1935 compone il musical “Porgy and Bess”... ed è qui, in
realtà, che volevo arrivare. “Porgy and Bess” ebbe un grande
successo, ma fu inizlamente percepita dalla comunità nera del tempo
come un'opera offensiva, addirittura razzista. La descrizione della
vita degli afro-americani che nell'opera appariva, non piacque per
niente alle Black Panters in lotta per i diritti dei loro fratelli,
ma fu tutta una grossa incomprensione sostanzialmente. Gershwin si
era ispirato nella composizione dei brani per il musical a pezzi
spiritual quali “All My Trials”, che negli anni '50 e '60 divenne
uno degli inni dei movimenti di protesta; e si ispirò anche alla sua
esperienza artistico-musicale così complessa, una fusione di
tradizione operistica dell'Est europa, musica afro-americana, musica
ebrea russa. “Summer time” - una ninna nanna che Clara, uno dei
personaggi della celebre opera teatrale, canta al suo bambino - fu
ispirata per esempio da diversi brani e sonorità: il sopra citato
“All My Trials,” “Sometime I Feel Like a Motherless Child”
(un brano che risale ai tempi della schiavitù, tempi in cui era
pratica comune vendere i figli degli schiavi) e.... ninne nanne
appunto: si parla in particolare di una ninna nanna russa e di
un'altra ninna nanna, quest'ultima di origine ucraina. "Porgy
and Bess" fu tratto dal racconto “Porgy” di Edwin DuBose
Heyward, paroliere anch'esso dei testi insieme ad Ira. "Summertime"
è certamente uno dei brani più famosi dell'intera opera e la cosa
fenomenale non è solo che è stata interpretata da grandi talenti
dela musica quali Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Billie Holiday,
Chet Baker e Mahalia Jackson... Fu proprio Billie Holiday a portarla
in classifica per la prima volta con la sua versione del 1936, ma ciò
che risulta essere grandioso... è che la potenza di questo brano ha
portato al concetto per il quale, al di la' dell'intento o del
significato iniziale, un brano musicale possa assumere significati
altrettanto grandiosi anche in epoche successive, molto più recenti
e in riferimento a fatti storici completamente diversi. Parlo qui di
Janis Joplin... che la urlava, con rabbia, al mondo intero, mentre la
guerra del Vietnam esasperava i popoli coinvolti. La gridava al
mondo, appena dopo l'assassinio di Martin Luther King e Kennedy,
quando americani bianchi e neri, insieme, si scontravano la polizia
in segno di protesta, mentre gli agenti del tempo intossicavano i
manifestanti con il gas Mace sotto le telecamere di tutto il globo,
mentre c'erano arresti per l'assalto alla Convenzione Democratica di
Chicago, mentre i leader della protesta – in particolare - furono
arrestati con le accuse pesantissime di incitazione alla violenza e
cospirazione e assolti, quattro anni dopo, con la motivazione che
erano stati violati i diritti di difesa. Summertime è stata tradotta
in molte lingue ed anche in italiano dai Dalton – anche se a parer
mio in questa versione perde purtroppo tutta la sua potenza e il
significato del testo è parer mio violato e svuotato (con tutto il
rispetto per i Dalton... di questi utlimi, se vi interessa sapere chi
sono – vi segnalo un brano interessante. "Idea d'infinito",
quello si che è un bel pezzo). Gershwin compose più di settecento
brani, fino a che nel 1937 comiciò ad avvertire i sintomi di un
tumore al cervello che lo portò alla morte lo stesso anno, dopo
essersi accasciato al suolo sul set di The Glodwin Follies, un film
del 1938 di cui stava curando le musiche. Morì al Cedars of Lebanon
Hospital a seguito di un intervento di unrgenza. Pochi mesi dopo, il
suo idolo, Joseph Maurice Ravel (compositore del celebre "Boléro,
per intenderci), morì anchesso, durante un intervento simile al
cervello. "Summertime". Vi propongo qui la versione
originale di Jacob (mi piace poterli chiamare con il loro nome), la
versione di Ella Fitzgerald e infine, la versione di Janis Joplin.
Buon ascolto... e buona lettura della traduzione - scritta poco fa -
che spero renda giustizia all'intensità del testo originale.
Summertime
(Estate)
Estate...
e la vita è semplice,
i pesci saltano
e il cotone è alto.
Tuo padre è ricco,
Tua madre ti guarda con amore,
quindi silenzio, piccolino,
non piangere.
Uno di questi giorni
Ti sveglierai cantando,
poi spiegherai le ali
e ti guadagnerai il cielo.
Fino a quella mattina però,
nulla potrà farti del male,
con la tua mamma... e il tuo papà.
e la vita è semplice,
i pesci saltano
e il cotone è alto.
Tuo padre è ricco,
Tua madre ti guarda con amore,
quindi silenzio, piccolino,
non piangere.
Uno di questi giorni
Ti sveglierai cantando,
poi spiegherai le ali
e ti guadagnerai il cielo.
Fino a quella mattina però,
nulla potrà farti del male,
con la tua mamma... e il tuo papà.
sabato 3 gennaio 2015
Billie Holiday: "Desiderando... sulla Luna"
Billie
Holiday, 1915/1959. Stavo pensando alla tragicità della sua vita.
Stavo pensando a quanto tutte le sue terribili tragedie si
sentissero, nella sua voce. Nel 2009 Adriano Mazzoletti (giornalista,
scrittore, conduttore radiofonico, produttore discografico
considerato uno dei padri della diffusione della musica jazz in
Italia - che comunque in Italia era giunto già nel primo decennio
del novecento ed ha continuato ad essere presente, negli anni '20 e
'30) scrisse che "...si imponeva per la sua voce intensamente
drammatica, per la capacità di "volare" sul tempo e per
l'emozione che sapeva trasmettere anche su testi a volte banali...".
Stasera stavo ascoltando "I Wished on the Moon" un pezzo
composto da Ralph Raiger (pianista e compositore nato a New York nel
1901 e morto prematuramente in un incidente aereo nel 1942) con un
testo scritto da Dorothy Parker (scrittrice di racconti brevi, poeta,
critica, autrice satirica - nata nel New Jersey nel 1893 pubbicò il
suo primo racconto breve su "Vanity Fair" nel 1914. Morì a
New York, nel 1967). Il pezzo fu inciso per la prima volta da Ruth
Etting, una cantante/attrice attiva soprattutto negli anni '20 e '30
e fu proprio questo pezzo uno dei brani fondamentali all'inizio della
sua carriera poiché arrivò così al grande pubblico. Reinterpretò
"I Wished on the Moon" con l'accompagnamento del pianista
Teddy Wilson nello stesso anno in cui lo stesso era stato inciso per
la prima volta. Prima di quel momento Billie aveva inciso due dischi
dopo essere stata notata dal produttore che l'ha lanciata, Jhon
Hammond, ma entrambi erano passati inosservati. Hammond però
continuò a credere in lei e le procurò un contratto con Wilson
appunto, per l'incisione di alcuni pezzi con etichetta Brunswick.
Torniamo però un attimo alle vicende della sua vita, giusto per
rendere l'idea a chi non la conosce così a fondo o per nulla. Il suo
vero nome era Eleanora Fagan. Eleanora nacque dall'incontro amoroso
tra il sedicenne Clarence Holiday (suonatore di banjo) e la
tredicenne Sadie Fagan (ballerina di fila). Suo padre non si occupò
quasi mai di lei e fin dall'infanzia si trovò lontana dalla madre
che l'aveva affidata alla cugina (a Baltimora) mentre lei lavorava a
New York come domestica. A dieci anni fu stuprata e in seguito
tentarono di violentarla altre volte. Ancora piccola raggiunse la
madre a New York e cominciò a prostituirsi in un bordello
clandestino di Harlem e arrotondava pulendo gli ingressi delle case
nel quartiere, compeso l'ingresso del bordello. Alla proprietaria del
bordello però non faceva pagare e in cambio lei gli lasciava
ascoltare i dischi di Louis Amstrong e Bessie Smith sul fonografo del
salotto. Quando le autorità scoprirono il bordello, Eleanora fu
arrestata e condannata a quattro mesi di carcere. Uscita dalla
prigione, per evitare di tornare alla prostituzione, iniziò a
cercare lavoro come ballerina nei locali notturni. Non sapeva
ballare, ma fu immediatamente assunta da un locale quando la
sentirono cantare. Fu così che iniziò, all'età di 15 anni. Dopo
non molto le colleghe del locale iniziarono a chiamarla "Lady"
dunque "Signora" perché rifiutava le mance solitamente
infilate dai clienti tra le cosce delle donne che si esibivano. A
diciotto anni, Hammond la notò ed iniziò la vera e propria carriera
musicale. Le sue pene però non finirono qui e anche se musicalmente
la sua carriera prese il volo, ebbe ancora da affontare due matrimoni
brevi e turbolenti e il colpo avuto con la morte della madre. In quel
momento iniziarono i problemi con la droga e l'alcool e nel 1959, a
soli 44 anni, morì per le complicazioni dovute alla cerrosi epatica.
La Holiday (il suo nome d'arte nasce dal nome d'arte del padre
musicista noto come "Holiday" e dalla stima nutrita per
l'attrice Billie Dove) incise altre versioni di "I Wished on the
Moon", tra le quali la seconda versione del 1957, introdotta
nell'album "Songs for Distingué Lovers". Ascoltando la
prima versione del '35 e la seconda del '57 anche un orecchio poco
intenditore percepisce immediatamente quanto siano diverse. E'
diversa la musica ma ciò che colpisce di più è l'interpretazione
che Lady Holiday ha dato al testo... Ascoltando la versione del '35
si sente un dolore disperato, l'affanno, il respiro che c'è e che
manca... Nella versione del '57 invece - questo è ciò che sento io
nell'ascoltarle ovviamente - sembra quasi che la Holiday prenda in
giro il suo dolore, è talmente esausta che nella sua voce si sente
un dolore a cui lei sembra sputare in faccia, quasi come se oramai
non avesse più speranze di essere veramente felice. Chissà, forse è
questo che l'ha portata alla morte... a un certo punto era talmente
esausta che si è rassegnata a soffrire sempre, il dolore già
terribile è diventato anche autodistruzione e lì, Eleanora, è
morta definitivamente... anni prima della sua morte fisica. E dopo
queste riflessioni, mentre penso a tutto quel dolore, a tutto... quel
... dolore... vi propongo l'ascolto delle due versioni del pezzo e
una mia traduzione (non letterale, sarebbe troppo scontato) del testo
di "I Wished on the Moon", testo che - per come lo
interpreto io - le si appiccica addosso come se fosse stato scritto
per lei.
"I Wished on the Moon" - "Desideravo sulla Luna"
Esprimevo desideri alla luna, per qualcosa che non ho mai conosciuto...
Desideravo sulla luna... per più di quanto io abbia mai conosciuto...
Una rosa più dolce, un cielo più morbido,
un aprile in cui i giorni smettono di danzare via...
Esprimevo desideri alle stelle,
che mi gettassero giù un fascio di luce o due.
Le pregai, chiedendo loro... un sogno o due.
Ho cercato ogni bellezza, tutto si è avverato...
Esprimevo desideri alla luna, per voi.
Esprimevo desideri alla luna, per qualcosa che non ho mai conosciuto...
Desideravo sulla luna... per più di quanto io abbia mai conosciuto...
Una rosa più dolce, un cielo più morbido,
un aprile in cui i giorni smettono di danzare via...
Esprimevo desideri alle stelle,
che mi gettassero giù un fascio di luce o due.
Le pregai, chiedendo loro... un sogno o due.
Ho cercato ogni bellezza, tutto si è avverato...
Esprimevo desideri alla luna. Per voi.
mercoledì 2 luglio 2014
Laura Campisi: quando una voce jazz prende il volo a New York
Laura
Campisi. Molti di voi ancora non la conosceranno e d'altronde lo
scopo di queste mie presentazioni è proprio quello di mettere in
risalto artisti italiani eccezionali ma conosciuti solo in parte e
che meritano, meritano molto di più. Laura è una cantautrice
italiana eccezionale, nata nella bella Sicilia nel 1984 e immersa
nella musica, nel vero senso della parola, fin dalla tenera età. I
suoi genitori portavano in giro per la Sicilia brani della tradizione
regionale antica, facendo al tempo stesso un lavoro di raccolta e
selezione delle composizioni tipiche di ogni paese in cui si
trovavano ad esibirsi. E' inevitabile dunque che l'avvicinamento di
Laura alla musica sia stato naturale e immediato. “Sono cresciuta
con grandi cantate, chitarre e controcanti improvvisati, tra la
musica tradizionale e quella dei vari cantautori italiani” dice e
aggiunge: “Fu mio padre che, notando questa mia passione, mi chiese
un giorno “Ti piacerebbe studiare canto?”. Io risposi di sì
senza nemmeno pensarci, come se fosse stata la cosa più naturale da
farsi.” Nel 2011 Laura si trasferisce a New York, con la più
assoluta spontaneità, dopo aver portato avanti vari progetti in
Italia e dopo aver terminato la sua formazione: una laurea in
Discipline della Musica, anni di Masterclass e corsi di
perfezionamento – tra i quali il “Nuoro Jazz” e il “Roma
Jazz's Cool” (con i nomi più illustri del Jazz) - e dopo aver
partecipato e vinto diversi concorsi - da solista e da band leader
dei “Lalla Into The Garden”; tra gli altri spiccano la vittoria
al “Lucca Jazz Donna 2009” e al “Bianca d' Aponte 2010”- il
primo è un concorso Jazz al femminile e il secondo un festival che
si tiene ad Aversa dove, lo stesso anno, Laura riceve anche il Premio
per la Migliore Interpretazione. Vive attualmente a Brooklyn a cui è
arrivata dopo essersi resa conto di aver bisogno di nuovi stimoli,
nuovi spazi e possibilità concrete per la sua crescita e la sua
creatività. Resta naturalmente legata la suo paese, alla musica
italiana e ovviamente ai suoi cari: “In Italia cerco di tornare due
volte all’anno, per vedere la famiglia e gli amici, ma anche per
tenere vive le relazioni artistiche con i colleghi e la scena
musicale italiana.” Basta ascoltare la sua voce, il suo stile, la
sua interpretazione, per aver voglia di approfondire la sua storia,
per aver voglia di scoprire la sua musica.
Allora
Laura... è difficile decidere da dove partire con te, hai una
miriade di progetti alle spalle e in corso... Direi di parlare
principalmente del progetto che stai realizzando ora (a fine articolo
potrete leggere altre info e un sunto degli altri progetti, ndr). Si tratta della
lavorazione del tuo primo album ufficiale a quanto ho letto sul sito,
anche se in realtà non è il primo album che incidi. Raccontaci un
po' di cosa si tratta, come si intitolerà, le collaborazioni e, già
che ci siamo, dicci per quando è prevista l'uscita dell'album.
La
storia di questo album è un racconto ancora in fase di scrittura.
Non so ancora quando uscirà e se verrà pubblicato da un’etichetta
o se sarà invece un’auto produzione dalla A alla Z. Al momento
comunque, io ne sono stata la produttrice esecutiva ed artistica, con
l’aiuto fondamentale di un generoso deus ex machina dietro
le quinte e naturalmente degli stupendi musicisti che hanno
collaborato. È infatti una soddisfazione nonché un privilegio aver
raccolto una squadra davvero d’eccezione per un progetto direi poco
usuale: un doppio trio (due bassi e due batterie) ad accompagnare una
voce. Il gruppo è composto da Gregory Hutchinson (celebre musicista
americano) alla batteria, Ameen Saleem al contrabbasso (mio carissimo
amico, americano di Washington DC e membro fisso del Roy Hargrove
Quintet e Big Band), Gianluca Renzi (ciociaro trapiantato a New York)
al basso elettrico e al contrabbasso e il mio concittadino espatriato
a Londra Flavio Li Vigni, alla batteria. Non mancano anche due
stupendi special guests: Giovanni Falzone alla tromba e Vincent
Herring al sax. Il repertorio è una miscela di pezzi riletti e
reinterpretati dalla tradizione jazzistica, rock e più in generale
“moderna” con mie composizioni in lingua inglese. La band si è
andata formando pian piano, dapprima nella mia mente per poi
diventare reale, come un bel puzzle. La disponibilità e la
professionalità di ognuno dei ragazzi che hanno preso a cuore il
progetto ognuno a proprio modo, ha reso quest’esperienza unica. Ho
imparato tantissimo da ognuno di loro, e sto imparando molto anche da
me stessa; dagli errori commessi imparo a rialzarmi ogni volta e ad
inventarmi e reinventarmi sotto luci e ruoli diversi.
Premettendo
che la tua voce è jazz, è vibrazione pura e lo è anche quando non
stai cantando una canzone dalle evidenti sonorità jazz dal mio punto
di vista, sul tuo sito si trovano pezzi in cui l'anima jazz si
percepisce fin dalle prime note, proprio perché come accennavo le
caratteristiche del jazz sono ben percepibili, ma si possono
ascoltare anche pezzi più legati alla musica cantautorale italiana,
pur se affrescata da un tocco alternativo e ho potuto ascoltare anche
un delizioso pezzo in dialetto siciliano... Tu come come ti vedi?
come ti senti? Più vicina al jazz in ogni caso o... come dire... una
miscela di stili?
Diciamo
che non sento la necessità di definirmi e credo sarebbe anche un
compito abbastanza arduo... Sono nata col Jazz ma sono sempre stata
attratta da tutta la buona musica e in ogni fase della mia esperienza
artistica fino ad oggi posso ritrovare le influenze non solo di
quello che ho studiato e cantato, ma anche di quello che ho
ascoltato, ballato, fischiettato. Per ciò sì, mi sento più una
miscela di stili. Questo vale sia per ciò che canto che per ciò che
scrivo. Anzi, è proprio nella scrittura che i vari stili e generi
hanno totale libertà di confluire creando contaminazioni.
E
come ti sei innamorata del jazz? in che contesto lo hai scoperto?
Al
Jazz sono arrivata quasi per caso: la scuola di canto che ho
frequentato a Palermo per vari anni era una scuola di musica Jazz ed
è così che mi sono avvicinata a quel genere; prima solo durante le
lezioni, poi sempre di più nei miei ascolti di piacere e nella vita
quotidiana. Anche se quando ho cominciato a studiarlo, a tredici
anni, non lo ascoltavo ancora, nel cantarlo ho sentito da subito una
profonda affinità, un senso di appartenenza, come uno specchio nel
quale riconoscermi.
I
testi dei tuoi pezzi li hai sempre scritti tu e sono poetici,
accurati, colmi di emozione. Ciò che si percepisce è la volontà di
trovare la parola giusta per ogni secondo per poi interpretarla per
come quella singola parola va interpretata e vestita. Questa è la
mia impressione insomma. La stesura dei tuoi testi è sempre stata un
atto spontaneo, istintivo, fin da quando hai iniziato a cantare e
magari ancora non avevi un gruppo o c'è stato un momento in
particolare che, come dire, "ti ha dato il La"?
In
realtà ho cominciato a scrivere molti anni dopo aver cominciato a
cantare. La scrittura è arrivata per caso, senza bussare, è sempre
stato un atto istintivo e, come tale, spesso repentino ma anche poco
costante. Ci sono stati naturalmente periodi in cui ho scritto di più
e periodi in cui non ho scritto, momenti in cui era difficile mettere
insieme le idee e altri in cui la scrittura ha invece rappresentato
un vero e proprio strumento di chiarezza e guarigione ed è così
tutt'ora.
E
scrivi "solo" testi di canzoni o ti dedichi anche alla
scrittura in generale?
Delle
mie canzoni scrivo tutto, sia la musica (melodia e armonia) che i
testi, ma mi è anche capitato di scrivere testi per pezzi già
esistenti o di tradurre e, per meglio dire, creare liriche italiane
su canzoni pre-esistenti in inglese. Ho scritto versioni in italiano
per due brani di Tom Waits (“San Diego Serenade” e “Long way
home”) e per lo standard jazz “Never will I marry” e creato
testi su pezzi strumentali come “Nardis” (Miles Davis e Bill
Evans), “Naima” (John Coltrane), Torre Ligny (Salvatore
Bonafede), “Mirella” (della pianista romana, da molti anni a New
York, Patrizia Scascitelli – brano che, con il mio testo originale,
è parte della colonna sonora del documentario sul Jazz del regista
Gianluca Bozzo “Walnut Street Station”, di recente presentato in
Italia). Mi piacerebbe molto provare l’esperienza della scrittura a
quattro mani, collaborare con altri cantautori e musicisti, magari
anche ritrovarmi a dover scrivere la musica su un testo
pre-esistente.
Oltre
alla musica qual è la disciplina artistica che più ti attrae?
Amo
leggere e mi attrae l’ipotesi di scrivere, sono affascinata dal
mondo del giornalismo, soprattutto della critica. Ho la sensazione
che prima o poi mi ritroverò a scrivere dei racconti o un romanzo.
D’altra parte anche le canzoni sono racconti a modo loro e sarebbe
stupendo potermi ritagliare del tempo per cimentarmi in qualcosa di
tanto nuovo per me.
La
mia amata e spesso utilizzata richiesta finale. Dimmi tu ora, quello
che ti passa per la testa per concludere...
Naturalmente
un ringraziamento a te per questa opportunità di raccontare qualcosa
di me e per costruire un ponte in più con la scena italiana, dalla
quale manco – se non per brevi tratti – da quasi tre anni ormai
(quattro se si considera la prima volta che mi sono innamorata di New
York). Spero di trovare sempre più opportunità per portare la mia
musica dove sono nata e dove mi sono fatta le ossa, come spero che
l’Italia presto si risollevi da un momento tragico non soltanto per
la musica e l’arte, ma per tutti. Quello che sento di dire in
conclusione è che è bello avere due cuori, uno qui e uno là.
Laura
Campisi... Ora qualcosa in più di lei lo sapete, ma credetemi non
basta... Potrete leggere di seguito, come promesso, il sunto dei suoi
principali progetti, ma soprattutto... entrate nel suo sito e andate
a ascoltare la sua musica, le sue composizioni, la sua voce
incredibile.
Grazie
a te Laura, ti auguro il meglio del meglio e che il mondo della
musica ti scopra davvero come meriti, all'estero come in Italia.
Link:
Performance
e collaborazioni:
Laura
ha suonato con varie formazioni musicali in tutta Europa e America e
continua a produrre una vasta gamma di musica: dal jazz al folk e al
rhythm&blues sino alla tradizionale musica siciliana e
mediterranea. Scrive canzoni in inglese, italiano, siciliano e canta
in italiano, inglese, spagnolo, portoghese, francesce, siciliano e
napoletano. Da segnalare tra le performance internazionali e
nazionali il tour italiano a Gennaio 2014, con il "Back Home
Trio" (special guest l'internazionale sassofonista Gianni Gebbia), ma
anche quello del Gennaio 2013, con il "Laura Campisi Roma
Quartet" e ancora, un'apparizione nel documentario del registra
Nello Correale nel film documentario "La voce di Rosa"
ottenuta grazie al suo ruolo attivo nella diffusione della musica e
della cultura siciliana nel mondo. E poi New York, con il tour
avviato nell'inverno 2010, il primo posto al al "Bianca d'Aponte
Award" e al "Lucca Jazz Award" e una performance,
assolutamente da sottolineare, all'Ambasciata italiana a Lisbona per
la Festa della Repubblica. Nel 2008 un tour a Parigi e una serata
anche al "Langau Jazz Festival" nel 2004, in Svizzera. Nel
2014 Laura appare anche nel film documentario dedicato alla scena
jazz amercana e italiana intitolato "Walnut Street Station",
del regista italiano Gianluca Bozzo. Si esibisce regolarmente con il
bassista Ameen Saleem ed ha suonato con numerosi musicisti affermati
a livello internazionale: Jon Davis, Tommy Campbell, Saul Rubin, Paul
Jeffrey, Salvatore Bonafede, Gianluca Renzi, Fabio Morgera, Christos
Rafalides and Gianpaolo Casati, per nominarne alcuni. Laura si sta
anche cimentando in una collaborazione con la comunità culturale
pakistana a New York, suonando con musicisti del luogo e mescolando
così le sonorità tipiche della cultura pakistana con il jazz e la
musica italiana, sperimentando tra l'altro le tradizionali
composizioni in sanskrito e la musica Panjabi. Di recentissimo avvio
anche un gruppo al femminile ("The Shook Ones") di genere completamente diverso,
un'esperienza punk rock. Si è esibita in molti prestigiosi locali e
luoghi di New York, tra i quali "The Kitano", il "Bar
Next Door", il "Zeb's", la "New York University",
il "Westchester Italian Cultural Center" e l' "Italian
American Museum" nonché al "Lincoln Center’s Avery
Fisher Hall", con un bel pubblico di tremila persone, in
compagnia della SGI Youth Ensemble.
Progetti:
"Vedrai
Vedrai" Luigi Tenco & More:
Un
progetto che parte dalla selezione dei pezzi più intimi del grande
Luigi Tenco e passa per gli altri grandi cantautori italiani, da
Fabrizio DeAndrè a Sergio Endrigo sino a Ivano Fossati. Miscelando
con i suoi musicisti il cantautorato italiano con le sonorità jazz,
Laura traduce pezzi italiani in inglese, senza rinunciare però a
qualche assaggio in siciliano e napoletano. Un viaggio musicale
arricchito da pezzi firmati proprio da lei.
"Overseas
Quartet":
Quattro
musicisti, tutti nati a Palermo e un dialogo musicale. Questo è il
"quartetto d'oltreoceano", un progetto nato nell'inverno di
quest'anno dalla riunion di Laura Campisi con il bassista Gabrio
Bevilacqua e che sarà presentato al pubblico, con molta probabilità,
proprio quest'estate. Ed è così che Laura ha incontrato anche
Marcello Pellittieri, anche lui stabilitosi a New York, batterista e
insegnante al Berklee College of Music. I tre, con l'arrivo del
pianista Mauro Schiavone, diventano appunto un quartetto e propongono
un repertorio sofisticato, che spazia dagli standard jazz ai classici
italiani e americani, fino a composizioni proprie, portando al
pubblico la propria, a dir poco unica, voce.
"Face & Bass":
Un
duo, voce e contrabbasso, un incontro musicale che Laura ha sempre
amato e che l'accompagna sin dai suoi inizi in Sicilia. Con il suo
caro amico e bassista affermato Ameen Saleem, propone un divertente,
scintillante, repertorio. Unendo sensualità e ironia, intimità e
scalanatura, questo duo mostra contagiosa allegria e la bellezza di
un dialogo musicale basato sull'ascolto reciproco e la vera
interazione.
"Lalla
Into The Garden": E' il primo progetto cantautorale di
Laura Campisi. Iniziato nel 2009 nella sua terra d'origine come
sestetto (voce, due chitarre, violoncello, fisarmonica e
percussioni), si trasformò negli anni continuando a mutare nella
tipologia di strumenti e nelle sonorità sperimentate. Il nocciolo
però è sempre stato lo stesso: i pezzi in italiano di Laura
Campisi, alcuni dei quali l'hanno portata a vincere diversi premi
nazionali e internazionali.
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