Frank
Zappa era americano, ma non solo. Portava con sé le origini siciliane del padre, un po' di
sangue francese e un altro po' di italiano, da parte di madre. Sangue misto, meticcio, favolosamente
meticcio. Vi chiederete cosa c'entri il sangue misto con la musica. Beh, forse molto, forse poco, ma nel dubbio è una buona informazione. Può esserlo anche pensando alla sua personalità, al suo modo di essere così geniale, creativo e severo, contradditorio e coerente con le sue stesse contraddizioni, appassionato e passionale. Dire che Zappa fosse un meticcio musicale è riduttivo. Zappa era, è e sarà sempre molto più di questo; per la musica e non solo. Ispirato, nel senso più alto del termine. È difficile scrivere di lui, era Tanto con una T enorme ed io "...non ho alcuna convinzione per come è
intesa dalla gente del mio secolo. [...] Solo i briganti sono
convinti - di che? - di dover riuscire. Così riescono. [...].
Tuttavia ho qualche convinzione, in senso più elevato, e che non può
essere capita dalla gente del mio tempo" (Charles, quanto lo
adoro). In effetti, ci sarebbero una miriade di cose da dire. So che molti
di coloro che leggeranno sapranno benissimo di chi si parla, ma so
anche che, purtroppo, tantissime persone non ne avranno la minima idea. È successo e continua a succedere per molti grandi del passato, di un tempo definito lontano, ma che a dire il vero non lo è così tanto (a volte sì, ok, ma
l'arte non può essere storicizzata. "Non per come lo intendono
gli uomini del nostro tempo"). Qualcuno potrebbe averlo sentito
nominare molte volte senza pensare a chi fosse e a cosa facesse,
potrebbero aver visto il suo volto - una faccia che ti rimane nel
cervello a vita quando la vedi - senza sapere
nulla di lui. La cosa triste è proprio questa: in Italia c'è
una non cultura così diffusa da far star male chi la musica la ama,
la vive, sa come funzionano le cose e perché. C'è un enorme buco, lasciato lì a ingoiare strascichi di curiosità e sete perduta, ammalata, deturpata. Pur essendo un dato di
fatto che è così, che tanta gente se ne frega e non si pone il
problema, come non se lo pone per la mancanza di rispetto assoluta
per l'arte tutta, è più forte di me; è una cosa che non riesco ad accettare e continuerò a sognare che le cose cambino e che
anche piccole gocce in un oceano di persone, a loro modo, possano riuscire a rivoluzionare tutto. Sto divagando? In verità, no. Frank ha lottato parecchio per la musica e non "solo" per quella. È stato musica d'ogni sorta, purché buona. Un po' come nella ben nota frase di Einstein. Frank era parole, testi diretti, crudi fino allo stremo. Era arte nell'arte, dentro al mondo e fuori dal mondo; solo che, per chi non lo conosce, questa frase può sembrare insensata. Chitarrista, compositore,
interprete, produttore discografico, direttore d'orchestra e
arrangiatore. Un genio della musica, passato dal cantautorato rock al rock blues fino al rock più contaminato, tanto che per alcuni "puritani" del genere era persino troppo; ha suonato e composto musica rock, jazz, fusion, classica e classica sperimentale. È passato, in compagnia della sua musica in mezzo al cabaret, per giungere alla satira, poiché i suoi testi sono sempre stati onesti, viscerali, crudi dicevo, come una bistecca rosso vivo. Era volontariamente esagerato, tanto diretto da non essere immediatamente colto da gran parte del
pubblico del suo tempo (...) e, come spesso accade, compreso perlopiù in seguito. Non era facile Frank, ma quale genio potrebbe esserlo? Frank Zappa è stato un perenne funambolo; un funambolo spericolato e consapevole che si spostava avanti e indietro e saltellava di qui e di là s'una bella corda posizionata il più possibile ad alta quota. Immaginatelo: lui che cammina, beato, sulla corda meravigliosa del
teatro dell'assurdo e del jazz, iper protagonista e iper creativo. Era come se danzasse attorno a un fuoco camminando sulla sua folle corda. Volontariamente e incantevolmente folle. Professionalmente impeccabile,
preparatissimo, contaminato nelle ispirazioni da miriadi di sfumature
e riferimenti diversi. Geniale. Un aneddoto che mi ha colpito nella sua storia, l'ho trovato in un articolo che parlava di un concerto tenutosi nel 1982, nel quale fece installare un, allora ancora poco diffuso, megaschermo. Sullo stesso fu proiettata una partita di calcio e la sua
spiegazione al pubblico, prima di iniziare una delle sue epiche performance fu semplicissima: "Chi non capisce
un tubo della musica che faccio, può tranquillamente guardarsi le
partite... così non ha buttato i soldi del biglietto". "Does
Humor Belong in Music?". Oh, si che può. Zappa ne era un maestro
e questo è il titolo di un suo live album e di un tour, con
grandiosi musicisti al seguito naturalmente, del quale vi propongo sotto un
video. In particolare, qui si tratta dello storico "Live At The
Pier" e del brano "Keep it greasey". Dopo un minuto e
trenta secondi dall'inizio, sul finire di "Bobby
Brown" e collegando simpaticamente i due pezzi, Frank Zappa
annuncia: " Watch me now because the name of this song is "Keep
it greasey" ". Si tratta di un brano che fa parte di un concept
album suddiviso in tre atti, pubblicato nel '79 e che narra le
avventure e le disavventure del protagonista Joe. Nel caso di "Keep
it greasey", Joe è prigione da un po' e Zappa ne narra le
disavventure. Come parlare di una realtà terribile, trasmettere un
messaggio forte e riderci sopra? Presto detto: "Keep it
greasey".
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venerdì 18 ottobre 2024
Frank Zappa: il funambolo danzante attorno a un fuoco (2024 review)
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teatro dell'assurdo
giovedì 1 marzo 2018
L'omicidio Joplin
Janis,
la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis,
quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal
palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha
lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che
nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che
infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se
ballava libera sul palco, ma giù dal palco poi era un'altra storia. Janis,
intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato
evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che
ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è
mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio
non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel
petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con
lei non c’entrava niente anche se in modo diverso rispetto alla città che la
circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e
primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano
cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada
la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a
voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché
temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o forse, si, forse solo per
carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che
l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno,
ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di
persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è
portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei
primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di
farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di
piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché
lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere
dentro di se la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la
sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne
anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece
esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le
tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro,
come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena
fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni –
scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la
attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis
fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato,
storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da
ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere
migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste
bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili
e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti
l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per
tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta
“abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a
forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà
più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece
prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori
da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono
perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano.
Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno
di questo gruppo di casinisti ed era proprio lei la più caotica. Non aveva
nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno
pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per
questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal
comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale
incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo,
facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano
nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa
compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma
perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta.
Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò
praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò
che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi
della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono
a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano
puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era
schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta
terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la
ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la
prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase
talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università però iniziò a
cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a
notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus).
Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un
locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio
noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per
San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario
organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande
intelligenza, si illuminò di fronte a lui la sua mente brillante, nascosta
sotto strati di trascuratezza e tutto ciò lo fece innamorare. Si fermarono
anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa
dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore,
finalmente arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito
dopo Chet la portò ad esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale – con
quattro brani cantati a cappella – ricevette un’ovazione esplosiva da parte del
pubblico, racimolando anche qualche soldo. Janis iniziò poi una relazione con
una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet, con il
quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi
dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare
sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk,
che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della
protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e
i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si
manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di
disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva
a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a
rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi
successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico
per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la
scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì
che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che
i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando
così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo
passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers,
con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo, i Big Brothers,
cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il
deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi
leggendario, l’ “Avalon Ballroom” e fu
lì che Janis iniziò ad esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother
& The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò
che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò,
Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono
sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la
certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad
aumentare, poiché ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce
della giovane artista. Nel ’67 infine ebbero la loro grande occasione. Si
esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì,
di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo
componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano
un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i
manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che
ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero
amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band
continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare
in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a
che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che
rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi
le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo,
partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per
dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche
Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New
York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a
lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo
raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della
voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante
emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero
sentire e ad un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per
prendere strade diverse e lei decise di continuare come solista. Nel ’69 iniziò
a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues, ma il loro concerto a Memphis
fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea
afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel
momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della
stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling
Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a
farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento
positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli,
proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo
su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star,
realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era
sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo
ed anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una
relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più,
sempre di più, perché la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza
piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a
qualcuno, per lei, c’era qualcosa di sbagliato in quel che faceva. Una cosa
assurda naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva
forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti
del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la
definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai
completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock.
Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta
dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di se. Di
ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e dopo la puntata, si
diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club
ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i
quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe
anche la modella ed attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol
e la loro cameriera, per quanto possa sembrare strano a dirsi, fu la futura
Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi
degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi
con i Big Brother, che nonostante tutto la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu
un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione
di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother
continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un
provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia
da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una
band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti
che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista
country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la
nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione
motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per
la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti).
L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco
omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los
Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in
cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa
e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che
nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto
e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da
chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano
accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era
terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di
perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea
completamente fuori di testa, senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin
tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel
concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di
“Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70, Janis morì di overdose, a soli ventisette
anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei
brani, “Buried Alive”. Si, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una
coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano
Pacifico, la sua musica, restò nell’eternità.
Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte
della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio
messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere
l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e
psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa
e la sua musica è rimasta nella storia e nella storia resterà per sempre,
eppure anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza
di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha
saputo ribellarsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di
questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a ribellarsi
nel modo giusto, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse
voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato
la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora
di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde, per un buio dal quale
non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a
nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare
voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità,
con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo
slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il
futuro sia creato dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle
che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la
propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - meraviglioso oceano chiamato
mondo.
"E ogni volta ripetevo a me stessa che non
potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue
braccia, lo canto ancora una volta."
martedì 1 dicembre 2015
Enrico Mantovani: la musica che si vede
Ernico Mantovani. Venerdì 26 Settembre ho assistito, non per la prima volta, ad uno dei suoi magnifici, emozionanti e sempre unici concerti (a "La Taverna delle Fate Ignoranti" di Quinzano d'Oglio (Bs), un luogo delizioso). Enrico Mantovani è un "OneManBand", perché definirlo "solo" un chitarrista di talento è poco; non a caso "OneManBand" è il suo biglietto da visita e quando lo senti suonare, quando lo vedi suonare e le emozioni si trasformano in musica, percepisci che le melodie, le armonie, il ritmo, diventano colori, temperatura, immagine, suono percepibile al tatto ed allora comprendi perché Enrico Mantovani non è "solo" un chitarrista di talento e a quel punto non è più necessario spiegare perché il suo biglietto da visita è "OneManBand"; però ve lo spiego, perché molti di voi magari non l'avranno ancora mai sentito nonostante giri in lungo e in largo l'Italia (come invece alcuni già adoreranno il suo sound). Al di la' di questo, mi capita spesso di partire dalle emozioni quando parlo di un talento, perché la differenza tra un "bravo musicista" e un "musicista di talento" sta nell'anima, nella grinta, in quel che arriva alle persone. È così per tutte le discipline artistiche, naturalmente a parer mio. Enrico Mantovani è un artista bresciano, polistrumentista, ma la chitarra è nel suo nome. Vive a Orzinuovi ed ha collaborato con grandi artisti quali il cantautore Massimo Bubola, Giorgio Cordini i più noti (al grande pubblico si intende) Massimo Ranieri, Francesco Renga, Eugenio Finardi... ed ha suonato anche con Alex Britti (spero vi sia capitato di sentire una volta almeno il Britti blues), Gianna Nannini, Fausto Leali e molti altri. Le ho scritte, le collaborazioni, perché è giusto, per far capire a chi non dovesse conoscerlo che di cose ne ha fatte e pure tante (e non solo queste, poi ci arriviamo), ma il mio intento non è parlare dei nomi con cui Enrico Mantovani ha collaborato; il mio intento è parlare di Enrico Mantovani, un musicista come pochi, della musica che si vede, dunque, delle infinite sfumature dell'arte.
Enrico
Mantovani chi è? E poi... è abbastanza classico chiederlo, ma è
sempre interessante per capire di più: come hai iniziato a
suonare, quando, cosa ti ha spinto a imbracciare la chitarra?
"Direi
che la mia fortuna è stata di iniziare molto giovane, con mio padre
quando avevo sedici, quindici anni e già suonavo il blues e i pezzi
degli Stones insieme al mio amico Riccardo Maffoni... ho iniziato con
mio padre, dicevo, scriveva canzoni e racconti brevi ed era il mio
consigliere su libri e dischi che mi hanno poi accompagnato fino ad
oggi; mi sono subito reso conto, sin da adolescente, che non era solo
una questione di “musica“, ma anche di parole, di pensieri e di
poesia. La chitarra ok, saper suonare ok... mi veniva facile e
spontaneo... ma sentivo che la magia vera erano le storie che le
canzoni mi raccontavano... Così, assieme a mio padre, iniziai a
suonare la chitarra nei suoi spettacoli sulla seconda guerra
mondiale, sui partigiani, sulle storie dei partigiani nella nostra
pianura e l'ultimo spettacolo si intitolava proprio "Novecento"
e... sia i libri che le sue canzoni parlavano sempre di queste
vicende e di storie che abbiamo dietro l'angolo, che risalgono a
cinquanta, sessant'anni fa, non è un tempo poi così lontano. Del
resto un piede nel novecento ce l’ho avuto anche io: da piccolo si
passavano giornate intere in cascina, a giocare sui fienili, a
contatto con gli animali, ci tuffavamo nei fossi e di sera, dopo
cena, spesso mio padre imbracciava la chitarra e cantava canzoni di
Nanni Svampa e di altri cantastorie. Più che la musica in se, sono
le canzoni che mi hanno affascinato sin da piccolo."
Hai
tanti progetti in corso: i meravigliosi Matmata, i concerti
"OneManBand", la collaborazione costante con il grande
Bubola ed altre collaborazioni. Raccontami un po' cosa stai
combinando.
"Beh…
con Massimo Bubola ho avuto la fortuna di partecipare ad un percorso
sulla Prima Guerra mondiale, sulla Grande Guerra, che mi ha dato modo
di rivedere la storia dell' Italia e degli italiani negli ultimi
duecento anni; un lavoro a ritroso nel tempo, con brani e melodie
popolari di fine ottocento e anche più antiche che hanno resistito
fino ai giorni nostri. Massimo ha fatto il primo disco sulla guerra
nel 2004, "Quel lungo treno", il secondo nel 2013, "Il
testamento del capitano" e l' anno prossimo dovrebbe uscire il
terzo; una trilogia con brani degli alpini e canti popolari
riarrangiati in chiave folk e rock; tratti da una letteratura
popolare e contadina, questi brani vanno a comporre parte della
musica detta "poplare", che è quel tracciato dal quale
nessun musicista dovrebbe mai discostarsi troppo secondo me.
Purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura che ad esempio è
molto radicata in Irlanda, dove i nonni suonano con i nipoti e tutti
conoscono un repertorio di duecento, trecento canzoni folk... e lo
stesso vale anche per gli americani e sicuramente per molti atri
popoli.
Un incontro
raro e fortunato è stato poi quello con i Matmata; mentre con
Bubola, con Massimo Ranieri, con Giorgio Cordini e altri ero maturato
come musicista o come turnista, imparando a fare questo mestiere, con
i Matmata c’è stato un’incontro tra musicisti maturi e già più
consapevoli, grazie ai quali ho scoperto il valore della "Band",
trovarsi tutti i giorni, suonare insieme più volte alla settimana
per il piacere di suonare e per la volontà di creare un groove
comune, un sound, un feeling, lavorando sui pezzi che Gianmario
continua a creare ancora oggi con grande abilità. Infine nei Matmata
ho trovato una famiglia; non è un lavoro da "turnista", è
un lavoro con la tua band, coi tuoi amici, coi quali si condividono
tantissimi momenti di vita, al di la' della musica…. è stato
davvero magico incontrarli."
Per
me che ho assistito più volte a tuoi live, con i Matmata e come
OneManBand, sapendo quante emozioni, diversificate, trasmetti, mi
viene istintivo chiederti: in quei momenti, sul palco, cosa provi,
cosa pensi, cosa senti tu, cosa ti passa per la testa?
"Quando
suoni.... non pensi a niente, suoni e basta; la musica ce l'hai nel
cervello e nel cuore, è li che ti gira attorno, come fanno gli
avvoltoi, come una giostra con tante lucine e tu sai già quali vanno
accese e quali spente, senza pensarci.... suonare mi fa stare mezzo
metro sopra terra, è una droga, la droga più bella e sana che
esista e il concerto, il live, è il vero motivo per cui ho imparato
a suonare e per cui, grazie al Cielo, continuo a suonare."
Hai
fondato nel 2013 l'Accademia di Musica Hendrix (cliccate, cliccate ragazzi). Com'è nato
questo progetto e come lo senti? Qual è il contesto?
"L'Accademia...
mmmm…... Non credo moltissimo nelle scuole di musica, credo che
all'uomo siano più utili i corsi di cucito o di giardinaggio. Le
scuole di musica quando io avevo quindici anni non esistevano, o
quasi; c'era qualche insegnante che dava lezioni private e se volevi
suonare dovevi essere davvero portato, perché dovevi imparare
ascoltando i dischi in vinile o la radio, quindi dovevi avere
orecchio ed essere molto svelto nel capire le note da riportare sullo
strumento. Oggi invece, forse anche a causa dei "talent",
molta più gente vuole fare musica, ma siccome da sola non ci riesce,
nemmeno con i video di youtube, si rifugia nelle accademie di musica.
L’accademia comunque l’ho aperta per portare un po' di fermento
sul territorio dove sono nato e dove ho sempre vissuto, sperando di
imbattermi in qualche talentuoso futuro musicista."
Ora
ti faccio una delle mie domande strane. Altre volte ho fatto questa
domanda perché è per me parte dell' "andare oltre" e
potrebbe sembrare una domanda semplice, ma non lo è affatto. Di
che colore è secondo te la tua musica? E la tua
anima? Combaciano?
"Mi
piace suonare con le luci blu... e poi il blu è indubbiamente
blues..."
Hai
un pezzo che su tutti, per te, è il migliore?
"Beh,
un brano è troppo poco, ne amo troppi, ma tra i miei artisti
preferiti spiccano Bob Dylan e i Rolling Stones. Il resto è tutto
sotto."
La
tua parola preferita... (Enrico qui è favolosamente indeciso, ma poi
la prima parola che gli viene in mente è...)
"Grembo."
Ecco
qui, Enrico Mantovani. Penso non ci sia altro da aggiungere se non
che, come ho detto anche a lui, una delle cose che lo rende più
speciale è che non si rende conto davvero di quanto è raro.
Grazie infinite Enrico.
Link:
giovedì 26 febbraio 2015
Il meraviglioso mondo di Lisa Marie Simmons e degli Hippie Tendencies
Stasera
si parla di "Hippie Tendencies". Non di "tendenze
hippie" in senso letterale ne di concetto "hippie" di
per se. "Hippie Tendencies" è una band che ha l'intento di
riflettere nella propria musica valori in cui crede quali, citando la
loro biografia "soluzioni pacifiche ai problemi globali,
l'energia sostenibile e l'accettazione delle differenze religiose,
culturali e sessuali". La band nasce nel 2006 e si forma
dall'incontro di quattro musicisti italiani con una cantautrice
americana. Marco Cremaschini al piano, Cesare Valbusa alla batteria,
Massimo Saviola al basso elettrico, Christian Codenotti alla chitarra
acustica e voce e Lisa Marie Simmons, voce portante, autrice dei
testi e co - compositrice. Le melodie e i ritmi spaziano da pezzi
quali "Wana Wa Africa", che già dal titolo e fin dalle
prime note e ritmiche ricorda la grande terra, a pezzi funky/pop,
divententi e solari come "Poppy Rock" fino alle sfumature
soul/blues di "Shame on You" e alla malinconia di "The
Trees", per citare alcuni pezzi che possono rendere l'idea delle
molteplici influenze del progetto. I testi hanno approcci diversi e
tematiche anche molto distanti tra loro, dal tema dell' immigrazione
alla "poca voglia di stare zitti di fronte a certe cose",
fino a sentimenti di solitudine - provati nel mezzo di una folla
davanti alla quale qualcuno sorride chiedendosene un po' il motivo e
dunque... anche l'espressione del desiderio di incrociare una mano
tesa. Si parla di ingiustizie, delle logiche del potere e della brama
di denaro, mascherate, anche se non così tanto, ma anche di
risvegli, prese di coscienza, le domande sull'esistenza che ogni
essere umano si fa o potrebbe farsi; si giunge poi a temi pesanti,
quali l'orrore degli abusi sui minori e si torna all'allegria con
pezzi quali appunto "Poppy rock" in cui in sotanza Lisa si
chiede a gran voce "ma perché devi per forza etichettare la mia
musica?". Per quanto riguarda i loro album, i tour in Europa e
in America, le informazioni più classiche, vi rimando alla loro
pagina fb e al loro sito. Ora, l'intento è quello di parlare
con Lisa, il caldo timbro, il centro attorno al quale si crea il
mondo degli Hippie Tendencies.
-
Lisa dolce Lisa... qualche giorno fa ho visto il video di una tua
intervista del 2009 a "Luci della città". Mi ha colpito
moltissimo la tua dolcezza, la gioia che si percecisce nel tuo
sguardo, il modo in cui parli della musica e dei tuoi ricordi legati
ad essa... Parlavi del Colorado, in cui sei nata e nel quale ti sei
avvicinata alla musica grazie alla passione di tuo padre e di tuo
nonno, un batterista jazz... parlavi del suo locale e dell'ambiente
in cui sei cresciuta, con la musica attorno fin da piccolissima...
Una meraviglia insomma. Poi il tuo lungo percorso girando per il
mondo seguendo sempre, costantemente, la musica. Dal Colorado a New
York, dall'Olanda alla Francia fino ai Caraibi e poi l'Italia, che a
quanto pare... ti ha rubato il cuore. A proposito di questo, del
fatto che qui hai deciso di mettere radici... cosa ti ha colpito così
tanto da farti scegliere di fermarti proprio qui, dopo tutti i posti
meravigliosi in cui avevi vissuto?
Io
amo l'Italia profondamente. Ho cantato in ogni regione, tranne la
Sardegna e ho sempre trovato in ogni luogo qualcosa di grande valore.
Adoro la realtà per la quale a pochi chilometri da un posto
all'altro si possono trovare dialetti diversi e piatti tipici
differenti, una cultura unica per ogni luogo. Come in ogni luogo in
cui ho vissuto ci sono paradossi. Ci sono cose bellissime, l'antica
cultura italiana, l'arte, il cibo, il vino, la bellezza dei paesaggi.
Comunque... in ogni posto c'è del bello e del brutto. Tuttavia mi
sento a casa qui, c'è un vasto mare di talento artistico in questo
Paese e... questo talento, unito a tutte le altre sfaccettature, mi
piacciono un sacco e tutto combina per me come un' ispirazione
giornaliera, quoditiana. E poi... io sono innamorata di un italiano e
i musicisti che formano la mia band sono italiani; siamo diventati
davvero una famiglia. Per il momento continuo ad essere ispirata e
produttiva musicalmente stando, poi ... se questo dovesse cambiare mi
sposterò di nuovo!
-
Hippie Tendencies. Il primo album è uscito nel 2010 e porta il
vostro nome, il secondo album invece, "Identity", è uscito
nel maggio 2014. Da quando hai iniziato questa esperienza con gli
Hippie Tendencies, avete attraversato generi musicali d'ogni sorta e
tu sei sempre stata l'autrice dei testi. Ho ascoltato pezzi del primo
album e del secondo e c'è veramente "una zuppa" - come la
chiamavi tu nell'intervista sopracitata - di musiche ed emozioni. Una
zuppa delle più buone e sane aggiungo io, è fantastico il tuo
paragone con la zuppa perché relazionato alla vostra musica mi fa
immaginare veramente una zuppa di quelle che già solo a guardarle ti
dicono "mangiami", insomma, è vero, non è come in molti
casi in cui ho sentito dire "il nostro gruppo è pieno di
generi, è pieno di questo o quello" e poi ascoltando a volte ti
dici "ma sono sicuri?". A parte gli scherzi, hai dei
musicisti bravissimi e tu sei come un fiore attorno al quale loro
girano incantati. Questa è l'impressione che ho, nell'ascolto dei
pezzi e sopratutto vedendo i video dei live. Allo stesso tempo,
sembra che tra voi ci sia un feeling incredibile, palpabile e che
tutti voi siate legati da un filo, l'uno per l'altra. Parlaci di come
si sono incrociati i vostri percorsi, di come è iniziato tutto e
soprattutto... quando si parla di musica e delle emozioni che ci da'
è difficile dare una spiegazione, ma ... proviamoci... come "ti
spieghi" tutto questo, come si è creato questo filo, come si è
creata questa "zuppa" di emozioni? Penso sia una delle più
belle sensazioni da poter sentir descrivere, per me che te lo chiedo
e per chi leggerà...
Ho
incontrato il pianista Marco Cremaschini quando sono andata da lui
per migliorare le mie capacità al pianoforte. Ero frustrata, perché
le canzoni che sentivo nella mia testa non riuscivano ad uscivare
delle mie dita. Mi sono seduta al suo pianoforte e cantavo, mentre
suonavo un paio di canzoni... e mi ha detto: “Mi piace il tuo
stile, cerchiamo di mettere insieme una band?”. Così,
all'improvviso, è stata la prima cosa che mi ha detto dopo avermi
ascoltata. Irresistibile! Mi ha detto che il mio stile andava proprio
nella stessa direzione in cui lui e un suo amico bassista si stavano
avventurando. La mia prima impressione su di lui è stata altrettanto
positiva. Ho pensato che fosse divertente, profondo, gentile e
intelligente e sono stata immediatamente attratta dalla sua maestria
incredibile con il piano; mi ha subito colpito quanto fosse delicato
e allo stesso tempo potente. Il giorno dopo ho chiamato il mio amico
Filippo De Paoli (oggi membro dei Plan de Fuga) e gli ho parlato del
progetto, chiedendogli se volesse partecipare. Marco ha chiamato
Massimo Saviola e Cesare Valbusa e insomma... abbiamo riscotrato un
feeling immediato e e abbiamo scritto la nostra prima canzone insieme
("Feel No Pain") nel giro di una settimana. Poi Filippo,
che è un grande frontman, ha deciso di dedicare il suo tempo ai
"Plan de Fuga", un progetto che stava decollando e, quando
lui ha deciso di dedicarsi a questo, abbiamo incontrato Christian
Codenotti . Christian è il sound engineer del primo album (e anche
del secondo) e anche con lui abbiamo subito sentito un grande
feeling, durante la registrazione e il mixaggio dell'album. Si
percepiva il suo amore per il progetto ed è stato davvero naturale,
spontaneo, chiedergli di unirsi a noi. Per quanto riguarda la nostra
chimica... chi... può spiegare questo? Anche se ognuno di noi
proveniene da diversi mondi musicali, in un modo che non so spiegare,
quando scriviamo insieme, tutte le diverse esperienze si fondono
dando vita ad un suono originale ed organico. Abbiamo un grande
rispetto l'uno per gli altri e anche questo, sul palco, nei live, si
vede, si sente…In più, per così dire, siamo tutti "animali
del palco", amiamo il nostro lavoro ed è essenziale per ognuno
di noi comunicare al pubblico la profondità delle nostre emozioni,
l'essenza che abbiamo cercato durante la scrittura e la composizione
di ogni singolo pezzo. L'essere stati in tour insieme in Europa e in
America poi, ha certamente contribuito anche al consolidamento del
nostro sound e della nostra resa sul palco.
-
Parlando del tuo amore per la scrittura... ti piace scrivere anche
testi che non siano canzoni, magari prose, poesie o altro? e... le
tue letture? quali sono i tuoi autori preferiti parlando di
letteratura e/o poesia?
Io
sono affascinata dalle parole e dalla forza insita in loro. Sì, io
scrivo anche poesie e spoken word. Se ne può trovare alcuni esempi
sul sito internet "AllPoetry"
con
lo pseudonimo "Limarie". Una mia poesia, "Hair" è
stata pubblicata in Sud Africa in una raccolta di poesie chiamata
"The Long and the Short of it".
L'elenco
dei poeti - e ci tengo a precisare che per me molti cantautori sono
poeti - e scrittori che ammiro è infinito. Alcune delle mie prime
influenze sono state Alice Walker, Maya Angelou, Toni Morrison, C.S.
Lewis, Tom Robbins, Tom Wolfe, Isabel Allende, Ani Di Franco, Bob
Dylan, Joni Mitchell, James Taylor, Gabriel Garcia Marquez, Angela
Davis, Nina Simone, Paul Simon, Stevie Nicks, David Bowie, Gil
Scott-Heron, Walt Whitman, Richard Wright, F. Scott Fitzgerald, James
Baldwin, James Joyce, Flann O’Brien, Emile Zola, etc. etc. etc.
Parlando invece di autori contemporanei direi Dave Mathews, Karen Joy
Fowler, Donna Tartt, Anthony Doerr, Zadie Smith, Jonathan Franzen,
Jeffrey Eugenides, Dave Eggers, Leonard Cohen, Jonathan Safran Foer e
molti molti altri!
-
Il cd che hai inciso da piccola, quello che ti ha fatto dire "questo
è ciò che voglio fare". Raccontaci qualcosa di questo, in
sostanza è stato il momento decisivo, quello che ti ha tolto ogni
possibile dubbio no? un passaggio fondamentale per te... L'album su
cui ho cantato da piccola era un coro di bambini di cui facevo parte
e per me è stato un onore poter avere un assolo tutto mio in quel
contesto e.. si, quel momento, così come la mia prima volta sul
palco, di certo è stato un momento cruciale. E' stato allora che ho
scoperto quanto per me fosse naturale il dediderio di comunicare il
messaggio delle canzoni al pubblico. Il rapporto, lo scambio
incredibile che si crea tra il performer e il pubblico mi ha
incantato. Anche se per un po' sono stata indecisa tra recitazione e
canto, dentro di me sapevo che in ogni caso avrei lavorato con le
parole, amavo stare sul palco e adoravo il potere curativo della
musica.
A
casa mio padre ascoltava molto jazz e mia madre ascoltava musica folk
americana, così le influenze sono state varie. Mia madre ci leggeva
libri e passavo la maggior parte delle serate così, con
l'infiammarsi dell'immaginazione, amando sempre più le parole e
spesso, tutti riuniti cantavamo i pezzi gli album dei miei genitori,
imparando e analizzando ogni parola dei testi.
-
Ora siete in tour con il nuovo album... le ultime novità riportano
un live il 5 Marzo in Austria, il 13 Marzo a Verona, poi di nuovo
all'estero il 09 e il 10 maggio a Chicago e così via... (tutte le
date e i dettagli sul sito - ndr). Siete delle trottole insomma, cosa
ti piace di più dei vostri viaggi, al di la' del live che andate a
fare, parlo proprio del viaggio in se, tu e i tuoi musicisti verso
mete sempre così diverse l'una dall'altra.
Beh,
una volta mentre eravamo in partenza per un tour in Italia e in
Francia, Marco ha detto: “Eccoci qui! andiamo verso un'altra
avventura!” Questo è esattamente lo spirito dei nostri viaggi,
sono una meravigliosa avventura senza fine. Non si sa mai cosa
troveremo, anche parlando del pubblico; ogni pubblico è diverso e
rende ogni concerto differente, tenendolo il live sempre fresco ed
emozionante.
Visto
che siamo, come ho detto, un po 'come una famiglia, passare del tempo
sulla strada insieme assomiglia proprio a ciò che succede in una
famiglia appunto; ci facciamo un sacco di scherzi, litighiamo e poi
facciamo la pace, ci godiamo il paesaggio che attraversiamo, il cibo,
la gente. Amo scrivere mentre siamo in viaggio, alcuni dei nostri
pezzi sono nati proprio in questo modo. "Woke Ui" è stato
scritto, in sostanza, a partire da un'idea di Massimo che abbiamo
sviluppato dopo un concerto a Firenze seduti ai bordi del palco del
teatro vuoto.. Assolutamente, il fuoco della nuova idea, molto spesso
è alimentato da un' esperienza avuta on the road.
-
Avete avuto grandi, eccellenti soddisfazioni, questo è certo ma...
visto che sappiamo qual è... cosa pensi della situazione
discografica italiana?
In
generale vivere di musica è straordinariamente difficile e richiede
una quantità enorme di energia e convinzione. Il business della
musica è cambiato in tutto il mondo, con l'avanzamento della
tecnologia e di internet, sotto certi aspetti in modo positivo e
sotto altri punti di vista in modo molto meno costruttivo. Ci sono
molto più musicisti rispetto a un tempo e in Italia, come in altri
paesi, c'è un monopolio su ciò che le stazioni radiofoniche
scelgono di trasmettere. Il pubblico è sottovalutato e molte Major
credono che le persone richiedano poca sostanza; quello che arriva
alle masse non si avvicina minimamente a rappresentare il vasto
numero di belle canzoni e bravi musicisti che ci sono in Italia e nel
mondo di oggi. Noi abbiamo la fortuna di essere con l'etichetta indie
Alfa Music, che ci rispetta e promuove la nostra musica senza cercare
di etichettarci in nessun modo.
-
Un ultima domanda, pura curiosità... stai già scrivendo altri
pezzi? e "Identity", dal tuo punto di vista, cosa pensi
abbia in comune con il primo album "Hippie Tendencies" e
cosa invece pensi ci sia di particolarmente diverso... Ma certo!
Scrivo sempre! Mentre stavamo scrivendo e registrando "Identity”
ho scritto anche un altro album via skype con i miei amici Lisa Bell
e Bob Story, intitolato
"The
ItalianProject".
I ragazzi della band hanno partecipato anche a quel progetto e Lisa
Bell tornerà in Italia questa estate e presentiamo alcuni di questi
brani insieme a noi. Ho anche un progetto parallelo con mio fratello,
un grande cantante... e non lo dico solo da sorella orgogliosa, è la
verità! Mio fratello si chiama Miles Simmons e il progetto è "The
Downbeat
Trio".
Sto scrivendo canzoni per questo progetto, così come scrivo e
collaboro anche con il suo altro progetto, la " Miles
Simmons
e The Granny Says Band", con favolosi musicisti Simone Boffa,
Henry Sauda, Arcangelo “Arki” Buelli, e Giorgio Marcelli
E
poi ancora, Marco ed io abbiamo un altro progetto del quale siamo
molto entusiasti; è di un genere completamente diverso risetto agli
"Hippie Tendencies". Si incentra su "spoken word"
con musica. Poi scrivo per altri cantanti e naturalmente sto
scrivendo anche nuovi pezzi per gli HT. Seguendoci su Facebook o
tenendo d'occhio il nostro sito, si può sapere naturalmente,
riguardo a tutti i progetti in corso e al loro sviluppo.
Per
quanto riguarda le differenze e i punti in comune tra i due album...
direi che “Identity” riflette la nostra crescita come musicisti e
come band ed è forse più sofisticato in qualche modo rispetto al
primo album. Il punto in comune più evidente invece, riguarda
certamente le tematiche, quello che vorremmo trasmettere e il nostro
approccio rispetto a questioni delicate. Poi beh... naturalmente
lascio al pubblico il giudizio finale!
Grazie
Lisa per averci presentato il tuo mondo e i migliori auguri per
tutto!
lunedì 14 luglio 2014
Andy Fluon: "L'arte è un flusso cosmico"
Andy
Fluon... Non ha bisogno di presentazioni e anche se qualcuno di
voi non lo conoscesse credo che... beh, leggete questa intervista e
molto probabilmente vi verrà voglia di scoprire qualcosa di più.
Andy, per quel che l'ho potuto conoscere, è prima di ogni cosa una
persona meravigliosa, una persona estremamente profonda, gentile,
disponibile, generosa e umile. Un talento incredibile, un musicista
fanstastico e un pittore eccezionale. Andy è una persona che ho
cominciato a seguire all'età di dodici anni e il suo approccio alla
musica, al palco, mi ha stregato fin da subito. Andy, è una persona
di cui ho seguito il percorso pittorico quadro per quadro,
applicazione per applicazione e progetto per progetto; prima trammite
la rete e poi anche vedendo alcune delle sue opere dal vivo e
rimanendo ad ogni suo lavoro con gli occhi spalancati per la gioia e
la vitalità, perché è questo che trasmette. Trasmette energia,
vita, vitalità. Andy Fluon non ha bisogno di presentazioni, per
questo ho pensato di introdurre la lettura della nostra chiacchierata
dicendovi quel che è per me: un artista unico e una persona
autentica.
Dunque
Andy... partiamo da un evento recente che mi ha colpito. A maggio sei
stato all'anniversario per il primo anno dell' "Acciuga
Restaurant"
(link
video, ndr)
di Londra
dove erano esposti i tuoi dipinti e mi è piaciuto molto il discorso
che ha fatto Guglielmo
Arnulfo
(Head Chef, ndr) riguardo all'unione di discipline artistiche così
diverse come la cucina e l'arte pittorica ad esempio... Tra l'altro
tu una volta mi dicesti che la cucina è una delle arti che ami di
più al di la' dell'arte visiva e della musica...
"Beh
a parte il discorso che ha fatto Guglielmo che chiaramente è il
coadiuvautore di questo progetto che mi sta portando a Londra, il
grande onore per me è stato quello di essere recensito da
un'enormità della critica d'arte quale è Lucie
Smith..."
Eh
esatto te lo stavo per chiedere... era proprio il punto della mia
domanda...
"...
lui è assolutamente introvabile, cioè... non c'è un corrispondente
in Italia per quel tipo di personalità..."
Che
sensazione da' sentirsi dire che le tue opere rispecchiano lo spirito
italiano nella sua migliore forma? deve essere stato... pazzesco no?
"Sentirsi
dire da un colosso della scrittura della storia dell'arte che porto a
Londra, in un luogo di condivisione multirazziale, il piacere
italiano, il piacere del colore e l'interesse della cultura del
rinascimento piuttosto che... proprio il piacere dello spirito
italiano... e che sono meno italia morfico verosimilmente...
(sorriso, ndr)... è stato un momento molto forte insomma, dopo tanti
anni di lavoro pittorico è bello potersi presentare a Londra in
questa nuova ottica, di un rispetto molto... così ...che nasce in
maniera assolutamente naturale, senza troppi sfronzoli, per cui...
Londra molto spesso ti mette a contatto con realtà gigantesche e che
qui in Italia sono inimmaginabili no? Che ne so, ti può capitare a
Camden Town di entrare in un pub e magari Robert Smith si sta bevendo
una birra, è successo cioè... ci sono dei parametri molto
differenti rispetto a qui. Adesso mi è capitata questa avventura, ma
il vero protagonista di quest'avventura si chiama Edoardo Ferrera.
E' uno Chef stellato, di quelli che però, diciamo, sono un po' dei
controcorrente, perché hanno "sfanculato" quello che è il
sistema dell'artefazione televisiva – per cui lo Chef che diventa
grande rock star in tv con lo show e tutte le palle che ci girano
attorno. Lui è uno Chef stellato vero ed è protagonista di questa
nuova vita, di questo nuovo me, un po' ispirato a Fluon
e un po' ispirato al futurismo; perché comunque sto
facendo un omaggio al futurismo che pian piano prenderà vita,
complice anche delle aziende. Avrò modo di fare l'italiano che però
porta la "cultura oltre i tempi" italiana, a Londra e il
che... mi piace molto."
Bellissima
cosa... e infatti, sei sempre stato attivo ma l'impressione è che
oggi tu lo sia più che mai o sempre di più, sei come un fiume in
piena. Sei super impegnato tra esposizioni, musica, eventi... e
appunto, restando in tema aziendale, la Tower
Parade è
stata una cosa bellissima, una bella iniziativa...
"Si,
con Unicredit Foundation, in questo nuovo piazzale bellissimo
che hanno fatto a Milano, molto bello da vedere; a mio parere è un
capolavoro architettonico; tempo fa avevano fatto la "Cow
Parade", con le mucche sparse per la città... è molto bello
comunque essere nella lista dei trenta prescelti."
Anche
perché poi è un'iniziativa a scopo benefico no? Ho letto che è
un'iniziativa per aiutare i giovani, i disoccupati e gli
inoccupati...
"Si,
anche per aiutare persone con disabilità che hanno particolare
bisogno di attenzione."
E
anche la serata del 29 maggio "Una serata di stelle",
è stata a scopo benefico... in te c'è un'entusiasmo innato,
continuo e si rispecchia inevitabilmente e per nostra fortuna nella
tua arte... che mi dici di questa iniziativa per esempio...? E poi...
ti ci ritrovi un po' per caso a partecipare a questo tipo di eventi o
è proprio una scelta mirata?
"Se
sono invitato e ritengo che la cosa sia valida partecipo per quello
che posso. Nel caso della "notte delle stelle" a Bergamo
era per cercare di raccogliere fondi per una ragazza davvero speciale
che si chiama Jenny e che adesso è in America in attesa del suo
intervento chirurgico e quindi... è una persona che lotta con la sua
vita in maniera molto speciale; dunque se ti senti in risonanza e la
cosa ti piace è bello poter partecipare. Io ho suonato con Beatrice
Antolini, è
stata una bellissima serata..."
"Il
nuovo che avanza". Cosa dovrebbe essere, per te, per i
Fluon, "Il nuovo che avanza" e cosa invece pensi che
sia ora?
" "Il
nuovo che avanza", per quanto riguarda me... è proprio un
flusso interiore che si mette in parallelo con la tua epoca e con la
tua età; con un atteggiamento, un'attitudine alla vitalità. Quindi
"il nuovo che avanza" è questa rinascita che ho avuto non
molto tempo fa e che mi ha guidato nel portare in scena questo disco
che, tra l'altro, è stato reso possibile grazie all'ausilio delle
persone, del pubblico che ha sovvenzionato il progetto investendo a
scatola chiusa su di noi e permettendo così di svolgerlo e di
registrarlo. Per cui "il nuovo che avanza" è anche il non
avere a che fare con una casa discografica che vaneggia
e, invece, avere a che fare con un pubblico che compra a scatola
chiusa e che ti permette di andare in studio e di fare tutto quello
che concerne un progetto complicato quale un album come "Futura
resistenza"."
Per
essere più indipendenti dunque., per non essere "legati"...
"Si
perché ci siamo resi conto che non siamo interessati a quel tipo di
logica, del sistema discografico, per cui... trovi l'indipendenza e
poi... trovi comunque i distributori digitali, ma è tutto molto più
controllabile; magari è un profilo un po' meno altisonante ma
sincero, concreto; sappiamo quello che stiamo facendo, quindi
preferiamo muoverci con le nostre "piccole zampe" però
facendolo in maniera efficace."
"Il
mercato dell'arte". Vorrei farti questa domanda per aiutare un
po' i pittori emergenti o comuque coloro che vorrebbero intraprendere
questa strada. So che è difficile entrarci e che ci sono regole
ragionieristiche dietro, un po' come nell'editoria e spesso anche
nella musica... è "mercato" appunto. I giovani che ho
incontrato e che tentano di iniziare a fare esposizioni tramite le
gallerie d'arte, generalmente parlano delle gallerie e in generale
del "mercato dell'arte" come un qualcosa di molto
calcolato, matematico, più che che artistico...
"Certo."
E'
veramente così dunque?
"Si
beh... è una constatazione, non è una novità; la galleria per
rimanere aperta deve speculare sugli artisti e avere un ricarico del
cinquanta per cento. Un giovane artista deve stare attento a fare
sempre una bolla di trasporto quando consegna i quadri perché se no,
se il gallerista si inventa che sono suoi, non può riaverli
indietro; a me è capitato questo nella mia esperienza di vita,
quindi meglio tutelarsi... Poi un gellerista può essere bravissimo
nel vendere, nell'espandere il tuo mercato, però bisogna rendersi
conto che ci sono tanti fancendieri, tanti delinquenti, come
altrettante persone molto piacevoli e brave che fanno bene il loro
mestiere. Molti giovani spesso si lamentano del mercato dell'arte, mi
scrivono e poi scopri che hanno fatto sette quadri ed io suggerisco
sempre "ci vediamo al cinquantesimo quadro!"."
E
secondo te è comunque sempre meglio proporsi per inziare ad esporre
nelle gallerie d'arte o è meglio magari iniziare con un percorso
alternativo per poi magari arrivare alle gallerie in un secondo
momento?
"Guarda
io sono molto snobbato da una grande parte del sistema dell'arte,
perché vige la regola per la quale – e condividevo questo
principio con Jérôme Sans, uno dei critici d'arte più grandi al
mondo - se uno scultore famoso o un pittore famoso imbraccia una
chitarra o suona il piano "è argento", mentre un musicista
o uno che è conosciuto per la musica si mette a fare un quadro o una
scultura è "un cretino che lo fa per hobby", perché poi
c'è molto snobbismo... però è un problema prettamente italiano..."
Si
perché infatti quando sei andato in America ti hanno adorato...
"Ah
si a Miami ho venduto i miei quadri tranquillamente. Non esisteva il
problema che fossi "quello dei Bluvertigo" o meno, perché
c'è un'altra attitudine verso quel che piace."
Musica
e pittura, "due entità che si alimentano" hai detto una
volta in una bellissima intervista di Silvia Borsari. E' molto bello
perché credo che sia così per molti artisti, le ispirazioni esterne
che vanno verso l'arte e viceversa e l'arte che influenza se
stessa... si può dire secondo te che l'arte ha un'anima unica al di
la' delle discipline?
"No
a mio parere... l'arte è un flusso cosmico, poi sta a noi singoli
individui dare un'interpretazione e "cavalcare il cavallo",
nel senso... io trovo nella pittura e nella musica dei punti di
condivisione e cerco di farne un unico percorso creativo, però non
dipende proprio dall'arte in se, l'arte in se è un'altra cosa, un
flusso cosmico appunto; poi per come porsi o per quello che piace
fare è assolutamente a discrezione dei singoli individui, tutti sono
dei potenziali artisti."
Andy.
Hai sempre detto e dimostrato che i tuoi colori favoriti, per
accostamento e anima sono il giallo fluo e il viola... e tu? dentro
di te ti senti... di questi colori?
"Si,
rappresentano uno Ying e uno Yang, l'allacciamento di due opposti e
poi... appaiono nella medicina cinese, cosa che mi interessa molto..."
Grazie
mille Andy per la tua innata gentilezza d'animo; e di cuore, buon
lavoro.
mercoledì 2 luglio 2014
Laura Campisi: quando una voce jazz prende il volo a New York
Laura
Campisi. Molti di voi ancora non la conosceranno e d'altronde lo
scopo di queste mie presentazioni è proprio quello di mettere in
risalto artisti italiani eccezionali ma conosciuti solo in parte e
che meritano, meritano molto di più. Laura è una cantautrice
italiana eccezionale, nata nella bella Sicilia nel 1984 e immersa
nella musica, nel vero senso della parola, fin dalla tenera età. I
suoi genitori portavano in giro per la Sicilia brani della tradizione
regionale antica, facendo al tempo stesso un lavoro di raccolta e
selezione delle composizioni tipiche di ogni paese in cui si
trovavano ad esibirsi. E' inevitabile dunque che l'avvicinamento di
Laura alla musica sia stato naturale e immediato. “Sono cresciuta
con grandi cantate, chitarre e controcanti improvvisati, tra la
musica tradizionale e quella dei vari cantautori italiani” dice e
aggiunge: “Fu mio padre che, notando questa mia passione, mi chiese
un giorno “Ti piacerebbe studiare canto?”. Io risposi di sì
senza nemmeno pensarci, come se fosse stata la cosa più naturale da
farsi.” Nel 2011 Laura si trasferisce a New York, con la più
assoluta spontaneità, dopo aver portato avanti vari progetti in
Italia e dopo aver terminato la sua formazione: una laurea in
Discipline della Musica, anni di Masterclass e corsi di
perfezionamento – tra i quali il “Nuoro Jazz” e il “Roma
Jazz's Cool” (con i nomi più illustri del Jazz) - e dopo aver
partecipato e vinto diversi concorsi - da solista e da band leader
dei “Lalla Into The Garden”; tra gli altri spiccano la vittoria
al “Lucca Jazz Donna 2009” e al “Bianca d' Aponte 2010”- il
primo è un concorso Jazz al femminile e il secondo un festival che
si tiene ad Aversa dove, lo stesso anno, Laura riceve anche il Premio
per la Migliore Interpretazione. Vive attualmente a Brooklyn a cui è
arrivata dopo essersi resa conto di aver bisogno di nuovi stimoli,
nuovi spazi e possibilità concrete per la sua crescita e la sua
creatività. Resta naturalmente legata la suo paese, alla musica
italiana e ovviamente ai suoi cari: “In Italia cerco di tornare due
volte all’anno, per vedere la famiglia e gli amici, ma anche per
tenere vive le relazioni artistiche con i colleghi e la scena
musicale italiana.” Basta ascoltare la sua voce, il suo stile, la
sua interpretazione, per aver voglia di approfondire la sua storia,
per aver voglia di scoprire la sua musica.
Allora
Laura... è difficile decidere da dove partire con te, hai una
miriade di progetti alle spalle e in corso... Direi di parlare
principalmente del progetto che stai realizzando ora (a fine articolo
potrete leggere altre info e un sunto degli altri progetti, ndr). Si tratta della
lavorazione del tuo primo album ufficiale a quanto ho letto sul sito,
anche se in realtà non è il primo album che incidi. Raccontaci un
po' di cosa si tratta, come si intitolerà, le collaborazioni e, già
che ci siamo, dicci per quando è prevista l'uscita dell'album.
La
storia di questo album è un racconto ancora in fase di scrittura.
Non so ancora quando uscirà e se verrà pubblicato da un’etichetta
o se sarà invece un’auto produzione dalla A alla Z. Al momento
comunque, io ne sono stata la produttrice esecutiva ed artistica, con
l’aiuto fondamentale di un generoso deus ex machina dietro
le quinte e naturalmente degli stupendi musicisti che hanno
collaborato. È infatti una soddisfazione nonché un privilegio aver
raccolto una squadra davvero d’eccezione per un progetto direi poco
usuale: un doppio trio (due bassi e due batterie) ad accompagnare una
voce. Il gruppo è composto da Gregory Hutchinson (celebre musicista
americano) alla batteria, Ameen Saleem al contrabbasso (mio carissimo
amico, americano di Washington DC e membro fisso del Roy Hargrove
Quintet e Big Band), Gianluca Renzi (ciociaro trapiantato a New York)
al basso elettrico e al contrabbasso e il mio concittadino espatriato
a Londra Flavio Li Vigni, alla batteria. Non mancano anche due
stupendi special guests: Giovanni Falzone alla tromba e Vincent
Herring al sax. Il repertorio è una miscela di pezzi riletti e
reinterpretati dalla tradizione jazzistica, rock e più in generale
“moderna” con mie composizioni in lingua inglese. La band si è
andata formando pian piano, dapprima nella mia mente per poi
diventare reale, come un bel puzzle. La disponibilità e la
professionalità di ognuno dei ragazzi che hanno preso a cuore il
progetto ognuno a proprio modo, ha reso quest’esperienza unica. Ho
imparato tantissimo da ognuno di loro, e sto imparando molto anche da
me stessa; dagli errori commessi imparo a rialzarmi ogni volta e ad
inventarmi e reinventarmi sotto luci e ruoli diversi.
Premettendo
che la tua voce è jazz, è vibrazione pura e lo è anche quando non
stai cantando una canzone dalle evidenti sonorità jazz dal mio punto
di vista, sul tuo sito si trovano pezzi in cui l'anima jazz si
percepisce fin dalle prime note, proprio perché come accennavo le
caratteristiche del jazz sono ben percepibili, ma si possono
ascoltare anche pezzi più legati alla musica cantautorale italiana,
pur se affrescata da un tocco alternativo e ho potuto ascoltare anche
un delizioso pezzo in dialetto siciliano... Tu come come ti vedi?
come ti senti? Più vicina al jazz in ogni caso o... come dire... una
miscela di stili?
Diciamo
che non sento la necessità di definirmi e credo sarebbe anche un
compito abbastanza arduo... Sono nata col Jazz ma sono sempre stata
attratta da tutta la buona musica e in ogni fase della mia esperienza
artistica fino ad oggi posso ritrovare le influenze non solo di
quello che ho studiato e cantato, ma anche di quello che ho
ascoltato, ballato, fischiettato. Per ciò sì, mi sento più una
miscela di stili. Questo vale sia per ciò che canto che per ciò che
scrivo. Anzi, è proprio nella scrittura che i vari stili e generi
hanno totale libertà di confluire creando contaminazioni.
E
come ti sei innamorata del jazz? in che contesto lo hai scoperto?
Al
Jazz sono arrivata quasi per caso: la scuola di canto che ho
frequentato a Palermo per vari anni era una scuola di musica Jazz ed
è così che mi sono avvicinata a quel genere; prima solo durante le
lezioni, poi sempre di più nei miei ascolti di piacere e nella vita
quotidiana. Anche se quando ho cominciato a studiarlo, a tredici
anni, non lo ascoltavo ancora, nel cantarlo ho sentito da subito una
profonda affinità, un senso di appartenenza, come uno specchio nel
quale riconoscermi.
I
testi dei tuoi pezzi li hai sempre scritti tu e sono poetici,
accurati, colmi di emozione. Ciò che si percepisce è la volontà di
trovare la parola giusta per ogni secondo per poi interpretarla per
come quella singola parola va interpretata e vestita. Questa è la
mia impressione insomma. La stesura dei tuoi testi è sempre stata un
atto spontaneo, istintivo, fin da quando hai iniziato a cantare e
magari ancora non avevi un gruppo o c'è stato un momento in
particolare che, come dire, "ti ha dato il La"?
In
realtà ho cominciato a scrivere molti anni dopo aver cominciato a
cantare. La scrittura è arrivata per caso, senza bussare, è sempre
stato un atto istintivo e, come tale, spesso repentino ma anche poco
costante. Ci sono stati naturalmente periodi in cui ho scritto di più
e periodi in cui non ho scritto, momenti in cui era difficile mettere
insieme le idee e altri in cui la scrittura ha invece rappresentato
un vero e proprio strumento di chiarezza e guarigione ed è così
tutt'ora.
E
scrivi "solo" testi di canzoni o ti dedichi anche alla
scrittura in generale?
Delle
mie canzoni scrivo tutto, sia la musica (melodia e armonia) che i
testi, ma mi è anche capitato di scrivere testi per pezzi già
esistenti o di tradurre e, per meglio dire, creare liriche italiane
su canzoni pre-esistenti in inglese. Ho scritto versioni in italiano
per due brani di Tom Waits (“San Diego Serenade” e “Long way
home”) e per lo standard jazz “Never will I marry” e creato
testi su pezzi strumentali come “Nardis” (Miles Davis e Bill
Evans), “Naima” (John Coltrane), Torre Ligny (Salvatore
Bonafede), “Mirella” (della pianista romana, da molti anni a New
York, Patrizia Scascitelli – brano che, con il mio testo originale,
è parte della colonna sonora del documentario sul Jazz del regista
Gianluca Bozzo “Walnut Street Station”, di recente presentato in
Italia). Mi piacerebbe molto provare l’esperienza della scrittura a
quattro mani, collaborare con altri cantautori e musicisti, magari
anche ritrovarmi a dover scrivere la musica su un testo
pre-esistente.
Oltre
alla musica qual è la disciplina artistica che più ti attrae?
Amo
leggere e mi attrae l’ipotesi di scrivere, sono affascinata dal
mondo del giornalismo, soprattutto della critica. Ho la sensazione
che prima o poi mi ritroverò a scrivere dei racconti o un romanzo.
D’altra parte anche le canzoni sono racconti a modo loro e sarebbe
stupendo potermi ritagliare del tempo per cimentarmi in qualcosa di
tanto nuovo per me.
La
mia amata e spesso utilizzata richiesta finale. Dimmi tu ora, quello
che ti passa per la testa per concludere...
Naturalmente
un ringraziamento a te per questa opportunità di raccontare qualcosa
di me e per costruire un ponte in più con la scena italiana, dalla
quale manco – se non per brevi tratti – da quasi tre anni ormai
(quattro se si considera la prima volta che mi sono innamorata di New
York). Spero di trovare sempre più opportunità per portare la mia
musica dove sono nata e dove mi sono fatta le ossa, come spero che
l’Italia presto si risollevi da un momento tragico non soltanto per
la musica e l’arte, ma per tutti. Quello che sento di dire in
conclusione è che è bello avere due cuori, uno qui e uno là.
Laura
Campisi... Ora qualcosa in più di lei lo sapete, ma credetemi non
basta... Potrete leggere di seguito, come promesso, il sunto dei suoi
principali progetti, ma soprattutto... entrate nel suo sito e andate
a ascoltare la sua musica, le sue composizioni, la sua voce
incredibile.
Grazie
a te Laura, ti auguro il meglio del meglio e che il mondo della
musica ti scopra davvero come meriti, all'estero come in Italia.
Link:
Performance
e collaborazioni:
Laura
ha suonato con varie formazioni musicali in tutta Europa e America e
continua a produrre una vasta gamma di musica: dal jazz al folk e al
rhythm&blues sino alla tradizionale musica siciliana e
mediterranea. Scrive canzoni in inglese, italiano, siciliano e canta
in italiano, inglese, spagnolo, portoghese, francesce, siciliano e
napoletano. Da segnalare tra le performance internazionali e
nazionali il tour italiano a Gennaio 2014, con il "Back Home
Trio" (special guest l'internazionale sassofonista Gianni Gebbia), ma
anche quello del Gennaio 2013, con il "Laura Campisi Roma
Quartet" e ancora, un'apparizione nel documentario del registra
Nello Correale nel film documentario "La voce di Rosa"
ottenuta grazie al suo ruolo attivo nella diffusione della musica e
della cultura siciliana nel mondo. E poi New York, con il tour
avviato nell'inverno 2010, il primo posto al al "Bianca d'Aponte
Award" e al "Lucca Jazz Award" e una performance,
assolutamente da sottolineare, all'Ambasciata italiana a Lisbona per
la Festa della Repubblica. Nel 2008 un tour a Parigi e una serata
anche al "Langau Jazz Festival" nel 2004, in Svizzera. Nel
2014 Laura appare anche nel film documentario dedicato alla scena
jazz amercana e italiana intitolato "Walnut Street Station",
del regista italiano Gianluca Bozzo. Si esibisce regolarmente con il
bassista Ameen Saleem ed ha suonato con numerosi musicisti affermati
a livello internazionale: Jon Davis, Tommy Campbell, Saul Rubin, Paul
Jeffrey, Salvatore Bonafede, Gianluca Renzi, Fabio Morgera, Christos
Rafalides and Gianpaolo Casati, per nominarne alcuni. Laura si sta
anche cimentando in una collaborazione con la comunità culturale
pakistana a New York, suonando con musicisti del luogo e mescolando
così le sonorità tipiche della cultura pakistana con il jazz e la
musica italiana, sperimentando tra l'altro le tradizionali
composizioni in sanskrito e la musica Panjabi. Di recentissimo avvio
anche un gruppo al femminile ("The Shook Ones") di genere completamente diverso,
un'esperienza punk rock. Si è esibita in molti prestigiosi locali e
luoghi di New York, tra i quali "The Kitano", il "Bar
Next Door", il "Zeb's", la "New York University",
il "Westchester Italian Cultural Center" e l' "Italian
American Museum" nonché al "Lincoln Center’s Avery
Fisher Hall", con un bel pubblico di tremila persone, in
compagnia della SGI Youth Ensemble.
Progetti:
"Vedrai
Vedrai" Luigi Tenco & More:
Un
progetto che parte dalla selezione dei pezzi più intimi del grande
Luigi Tenco e passa per gli altri grandi cantautori italiani, da
Fabrizio DeAndrè a Sergio Endrigo sino a Ivano Fossati. Miscelando
con i suoi musicisti il cantautorato italiano con le sonorità jazz,
Laura traduce pezzi italiani in inglese, senza rinunciare però a
qualche assaggio in siciliano e napoletano. Un viaggio musicale
arricchito da pezzi firmati proprio da lei.
"Overseas
Quartet":
Quattro
musicisti, tutti nati a Palermo e un dialogo musicale. Questo è il
"quartetto d'oltreoceano", un progetto nato nell'inverno di
quest'anno dalla riunion di Laura Campisi con il bassista Gabrio
Bevilacqua e che sarà presentato al pubblico, con molta probabilità,
proprio quest'estate. Ed è così che Laura ha incontrato anche
Marcello Pellittieri, anche lui stabilitosi a New York, batterista e
insegnante al Berklee College of Music. I tre, con l'arrivo del
pianista Mauro Schiavone, diventano appunto un quartetto e propongono
un repertorio sofisticato, che spazia dagli standard jazz ai classici
italiani e americani, fino a composizioni proprie, portando al
pubblico la propria, a dir poco unica, voce.
"Face & Bass":
Un
duo, voce e contrabbasso, un incontro musicale che Laura ha sempre
amato e che l'accompagna sin dai suoi inizi in Sicilia. Con il suo
caro amico e bassista affermato Ameen Saleem, propone un divertente,
scintillante, repertorio. Unendo sensualità e ironia, intimità e
scalanatura, questo duo mostra contagiosa allegria e la bellezza di
un dialogo musicale basato sull'ascolto reciproco e la vera
interazione.
"Lalla
Into The Garden": E' il primo progetto cantautorale di
Laura Campisi. Iniziato nel 2009 nella sua terra d'origine come
sestetto (voce, due chitarre, violoncello, fisarmonica e
percussioni), si trasformò negli anni continuando a mutare nella
tipologia di strumenti e nelle sonorità sperimentate. Il nocciolo
però è sempre stato lo stesso: i pezzi in italiano di Laura
Campisi, alcuni dei quali l'hanno portata a vincere diversi premi
nazionali e internazionali.
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