Non credevo di trovare
così tanta gente al mio arrivo o forse sì. In realtà non sapevo bene cosa
aspettarmi. È così che succede quando una spiaggia, per assurdo, diventa famosa
con un film hollywoodiano. Io ero lì per trovare ispirazione, come se andare in
giro per il globo potesse farmi superare quel blocco che avevo. Ero un illuso
o… forse no. Era un contesto felice e triste al tempo stesso. Pensavo al libro
che tanto avevo adorato e che avevo divorato in tre giorni e pensavo al film
che in adolescenza mi aveva fatto sognare. L’arte serve anche a questo, a far
sognare, ma a volte è come un ossimoro. In questo caso lo era certamente. La
spiaggia di Garland non era un luogo reale in cui l’uomo avrebbe messo i suoi
sporchi piedi; quella scelta per il film – invece – lo era eccome. Un locale mi
disse che non era poi così affollata, che ero stato fortunato, ma si lamentava,
preoccupatissimo per le sue sorti. Ora mi sentivo in colpa per esserci andato.
Provai a distarmi leggendo un libro, poi mi immersi in quelle acque
meravigliose. “Non dovevano farlo” – pensai sott'acqua – “e io non dovrei
essere qui”. Scrivere un libro non danneggia un luogo incontaminato, girarci un
film si. La cosa più assurda era che avevano scelto davvero un posto che prima
non era in pericolo e che adesso, per colpa nostra, lo era. Morale, etica,
falsa morale, falsa etica. Il regista era stato bravissimo, non c’è dubbio,
anche se come spesso accade i film tratti da un libro non sono all’altezza
degli stessi. Sono sincero, davvero, avevo amato quel film, ma adesso la
consapevolezza era diversa. Lo era? Ero lì e non dovevo esserci. Era diversa,
certo, ma non abbastanza. A mia difesa posso solo dire che volutamente non usai
la crema solare, per non lasciare la mia putredine in acqua. Il risultato fu
ovviamente una scottatura, ma mi stava bene. Non dovevo essere lì. Un’area
protetta, lo è per un motivo. A pensare che un tempo tutta la terra era così
incontaminata, il cuore mi si stringeva in una morsa. Mi sentivo troppo in
colpa per restare oltre. Mi alzai dopo solo due ore dal mio arrivo e raccolsi
le mie cianfrusaglie stando attento a non lasciare nulla di strano in giro.
Tornai a Phuket e mi diressi verso la città vecchia, a Thalang Road. Gli
edifici sino – portoghesi accompagnavano i miei dubbi: “Forse un’idea ce l’ho”,
pensai. Mi sedetti per una pausa a bere qualcosa, in silenzio e solo come
sempre. Pensavo a coloro che vedevano in me un maestro nonostante la
relativamente giovane età. “Chissà perché…”, mi dicevo. Lei apparse
all’improvviso, inaspettata come la forza dei miei sensi di colpa su quella
spiaggia paradisiaca. Immaginai il blocco di marmo dal quale sarei partito e al
tempo stesso cercai di fissare nella mia testa confusa ogni dettaglio del suo
corpo, del suo viso, del suo vestito leggero. Si sedette al tavolino di fronte
al mio, ordinò da bere facendosi aria con un volantino e notò che la stavo
guardando. Mi sorrise, ma non ebbi il coraggio di rivolgerle la parola. Era
troppo, troppo bella per me. Certamente non lo sarebbe stata per tutti, ma per
me era incantevole, tanto da togliermi l’abilità della parola.
Tornato a Roma, nel caos,
la prima cosa che feci fu cercarla. Andai nel mio laboratorio, scelsi il blocco
di marmo migliore e cominciai a togliere tutto quel superfluo che la divideva
da me. Vedevo nei miei occhi il colore dei suoi capelli, di un rosso che mi
pareva non aver mai visto prima. Vedevo le sfumature delle sue labbra, carnose
e dolci. Vedevo la fantasia del suo vestito estivo, blu con dei fiorellini
bianchi e l’ambra dorata della sua pelle che al ricordo mi sembrava brillare.
Percepivo a ogni colpo di scalpello l’adagio del tessuto sulla sua pelle e mi
sembrò di baciarla quando delineato il suo naso imperfetto e grandioso, mi
trovai a ripulire la polvere dal suo viso. Era perfetta, l’avevo trovata o…
forse no.