Introduzione
dovuta, per coloro che non sapessero - o non ricordassero - di quale
opera si sta parlando. "Il Convivio" è un'opera scritta da
Dante agli inizi del suo esilio, intorno al 1304-1308, ed è un'opera
mista di versi e prosa. Il titolo, "Il Convivio" significa
letteralmente "il banchetto" poiché Dante intendeva
trasmettere ai lettori la sua sapienza attraverso canzoni (nel loro
significato etimologico) e commenti in prosa, nella sua immagine,
rispettivamente, "vivande" e "pane". Già questo
è spettacolare. E' un'opera incompiuta, inizialmente Dante aveva in
progetto di scrivere quindici trattati in prosa volgare, uno
introduttivo, altri quattordici trattati di commento e altrettante
canzoni dottrinali, composte anche negli anni precedenti all'inizio
di quest'opera. Lo ha lasciato però al IV, si pensa per dedicarsi
alla Divina Commedia. Le argomentazioni sono filosofico-dottrinali,
anche perché con quest'opera Dante avrebbe voluto dimostrare la sua
maestria letteraria e la sua sapienza, creando una grande opera
enciclopedica, per riscattare la sua condizione di esule. Al tempo
stesso, sceglie l'utilizzo del volgare, per essere più vicino alla
gente, perché lo ama e perché è talmente grande che nel I trattato
dice di essere solo "ai piedi dei veri sapienti", dunque di
essere un raccoglitore delle briciole di questi grandi e di avere
l'intento di condividere le proprie stesse scoperte. La meraviglia
assoluta. Il problema di molti giovani con Dante, ho sempre pensato,
è che gli viene proposto a scuola in modo tanto didattico ma poco
emozionale e dunque a scuola si studia che ha fatto le tali opere,
nei tali periodi, se si hanno buoni libri di testo c'è un accenno al
significato più profondo, ma solo se si è molto fortunati si
trovano insegnanti che sanno trasmettere (così come per tutta la
letteratura in realtà) il vero senso e la vera grandezza di questo
poeta. Non è nemmeno detto che sia "colpa" degli
insegnanti (molti sono bravi, non sto dicendo questo), ma
piuttosto... è colpa dell'abitudine, del modo in cui è sempre stato
presentato, del dato di fatto che anche gli insegnanti più
bravi, spesso si ritrovano a usare più "il metodo" che
l'anima. Questo però è un altro discorso, torniamo all'opera. "Il
Convivio". Qui vi ripropongo l'undicesimo capitolo del primo
libro, con vari commenti esplicativi tra parentesi. Tenete sempre
presente, mentre leggete, che colui scrive, Dante, ha scritto queste
cose nel '300 (sembra scontato dirlo ma non lo è!) e provate a
pensare e a sentire... quanto tutto ciò che scrive sia vicino a noi,
pensate a quanto lui vedesse oltre il tempo, oltre lo spazio, oltre
tutto. Si parla proprio del volgare, il nostro volgare, la lingua
italiana... e la protesta, la meravigliosa arrabbiatura che Dante
esprime, verso coloro che non la sanno apprezzare. Mi ricorda
qualcosa di attuale... a voi no?!?
"A
perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia, che
commendano lo volgare altrui (apprezzano, raccomandano) e lo
loro proprio dispregiano (dunque disprezzano), dico che la loro mossa
viene da cinque abominevoli cagioni (ragioni). La prima è la
cechitade di discrezione (l'incapacità di valutazione e di poter
dunque fare scelte corrette); la seconda, maliziata escusazione
(semplicemente, presuntuose scuse); la terza, cupidità di vanagloria
(desiderio di vuota gloria); la quarta, argomento d'invidia; la
quinta e ultima, viltà d'animo, cioè pusillanimità (pusillanime è
colui che è piccolo d'animo, che ha poco coraggio e poca volontà).
Sarà
bene se ci limitiamo alle ultime tre "abominevoli cagioni".
La
terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria.
Sono molti che per ritrarre (esporre) cose poste in altrui lingua e
commendare quella, credono essere più ammirati che ritraendo quelle
de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene
la lingua strana (straniera); ma biasimevole (incromprensibile) è
commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale
acquisto.
La
quarta si fa da uno argomento di invidia. Sì come è detto di sopra,
la invidia è sempre dove è alcuna paritade (emulazione). Intra li
uomini di una lingua è la paritade del volgare; e perché l'uno
quella non sa usare come l'altro, nasce invidia. Lo invidioso poi
argomenta, non biasimando (capisce, in questo caso ne comprende
l'amareggiamento) colui che dice di non saper dire (dunque che non
conosce la lingua straniera), ma biasima (dunque non capisce) quello
che è materia della sua opera (non capisce l'importanza e la
bellezza dell'italiano), per tòrre (togliere), dispregiando l'opera
da quella parte, a lui che dice (l'autore oggetto d'invidia e che
utilizza ed apprezza la propria lingua) onore e fama; sì come colui
che biasimasse lo ferro d'una spada, non per biasimo da dare al
ferro, ma a tutta l'opera del maestro.
La
quinta e ultima setta si muove da viltà d'animo. Sempre lo magnanimo
si magnifica in suo cuore (si stima, intimamente), e così lo
pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è (si
sminuisce, in modo eccessivo). E perché magnificare e parvicare
(sminuire) sempre hanno rispetto (si riferiscono) ad alcuna cosa (a
qualcosa), per comparazione a la quale (rispetto alla quale) si fa lo
magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo
sempre fa minori lì altri che non sono, e lo pusillanimo sempre
maggiori. E però che (siccome) con quella misura che l'uomo misura
sè medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di sé
medesimo, avviene che il magnanimo le sue cose sempre appaiono
migliori che non sono, e l'altrui men buone: lo pusillanimo sempre
crede le sue cose valere poco, e l'altrui assai. Onde molti (per
questo molti) per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e
l'altrui pregiano: e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi
d'Italia (abbietti, spregievoli) che hanno a vile questo prezioso
volgare, lo quale, s'è vile in alcuna (in qualcosa), non è se non
in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri (nella
bocca puttana di questi traditori)".
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