Prima di tutto: da dove nasce la struttura in atti?
Per chi di voi non lo sapesse, dobbiamo questa struttura ad Aristotele (è ispirata infatti alla sua "Poetica": cliccando sul titolo troverete l'intera opera). Essa proviene, infatti, dal principio della Dialettica (uno dei principali metodi argomentativi della filosofia), che è suddivisa in “Tesi”, “Antitesi” e “Sintesi”. Aristotele, in questo, ha fatto la differenza rispetto ad altri grandi filosofi, ma qui cambieremmo argomento, perciò meglio non divagare troppo.
I tre atti corrispondono molto semplicemente a tre fasi: “Inizio”, “Svolgimento”, “Fine”. Sembra banale, ma dovete pensare che tutto ciò che noi ora vediamo come “normalità”, viene dal pensiero di qualcuno che ci ha riflettuto, che ha studiato, che ne ha posto le basi. Secondo questa tecnica, le tre parti dovrebbero essere proporzionate. Si parla ad esempio di una trentina di pagine per primo ed ultimo atto e di circa il doppio per la parte centrale, il “secondo atto” o “svolgimento” che dir si voglia. Ecco perché ci si può spostare dal racconto e arrivare al romanzo, di qualsiasi genere esso sia.
Alcuni studiosi, nel tempo, hanno “protestato” questa forma, facendo passare il concetto che sarebbe troppo meccanica. In realtà, come per ogni tecnica narrativa, quella che viene data è una traccia. Per intenderci, potreste scrivere un primo atto di sessanta pagine, un secondo atto di centoventi e un terzo atto di quaranta. Il concetto è che dovrebbe esserci una buona proporzione tra le parti. Non ha senso avere un inizio di dieci pagine, uno svolgimento da duecento e un finale da trenta, per intenderci.
Lo sviluppo, poi, di tante altre tecniche narrative e di numerosi espedienti, dà a questa base la possibilità di trasformarsi. È un po’ come se stessimo parlando di un disegno, il cui schizzo deve avere come origine, per proporzionalità, delle figure geometriche tondeggianti (pensate alla realizzazione di un bozzetto per disegnare un corpo umano, partendo dal viso con un ovale, passando alle braccia con ovali di grandezze diverse e così via). Il disegno finale sarà ricco, dettagliato, vario, quindi non bisogna pensare agli atti come a un limite, ma come un terriccio di ottima qualità nel quale coltivare la pianta dei propri sogni.
Facciamo un esempio, semplice, che possa rendere l’idea:
Un impiegato di banca vive la sua ordinaria vita in maniera assai monotona. Un giorno però, dopo miriadi di vessazioni da parte del suo direttore, si ribella e decide di continuare a lavorare nella sua filiale mettendo a punto, allo stesso tempo, una rapina.
Questa situazione, sviluppata, potrebbe tranquillamente essere un “Inizio” o “Primo atto”. Una situazione normale viene scombussolata da qualcosa e, al momento, il protagonista non ha ancora agito, ma sta pianificando.
Tra un atto e l’altro vi sono i così detti “Turning Point”, dei punti di svolta e di collegamento, in questo caso, tra il primo e il secondo:
L’impiegato, oramai convinto dell’idea di rapinare la banca, si documenta e studia tutto ciò che può essergli utile. Nel frattempo affina il suo piano in ogni dettaglio.
Questo può essere un Turning Point. Un punto di svolta, in questa specifica situazione “preparatorio”, che permette al protagonista di acquisire strumenti che gli saranno utili.
Inizia successivamente il secondo atto, con una fase chiamata “Midpoint” (punto di mezzo): in questa fase il protagonista è messo di fronte alle difficoltà, a tentativi di riuscita che non vanno a buon fine, incontra e si scontra con l’antagonista, vede a volte una soluzione al problema, ma si rivela illusoria. Nel nostro esempio potrebbe andare così:
L’impiegato di banca si rende conto che vi sono sistemi di sicurezza di cui non era a conoscenza. Cerca un “aiutante”, qualcuno di esperto che lo possa aiutare a realizzare il colpo, ma… in questo caso, l’aiutante si rivela anche “antagonista”, poiché questo personaggio prova a sabotare il protagonista per tenersi tutti i soldi.
Nel mezzo, solitamente, c’è un ulteriore Turning Point: sembra che non ci sia soluzione al problema:
L’impiegato scopre il piano del suo antagonista, ma non sa come fermarlo visto che oramai è tutto programmato.
Inizia il terzo atto e si giunge al famoso “Climax”, il punto di più alta tensione emotiva, la scena portante:
Durante il colpo, l’impiegato ha un’illuminazione e mette in atto un piano che gli farà “sconfiggere” il suo antagonista. Visto che voleva fregarlo, lo frega a sua volta.
In questa parte portante, il narratore rivela caratteristiche del suo personaggio che lo renderanno vincente rispetto all'antagonista (come in questo caso) o perdente (dunque si intuisce che l’antagonista avrà la meglio).
La fine, ultimo atto detto anche “Epilogo”. L’epilogo in sé non è obbligatorio, la storia potrebbe rimanere in sospeso e far intravedere diverse possibilità di fine vicenda, lasciare nel dubbio o “far capire che”, senza però palesare con certezza come va a finire.
Se l’epilogo è presente, leggeremo la fine della storia e i cambiamenti che sono avvenuti in conseguenza alle azioni del protagonista. Nella nostra storia, in cui il protagonista, inizialmente un semplice impiegato, si trasforma in tutto e per tutto in un rapinatore (e gli va anche bene), potrebbe finire così:
“L’impiegato ribelle” incastra il suo antagonista e riesce a dileguarsi col bottino. In una scena finale, lo “vediamo” godersi la nuova vita. Non del tutto però, perché sa che vivrà, nel suo caso, da “persona sospetta”, “scomparsa”, “in fuga”. Tutto quel che può pensare è che la sua partenza non passerà inosservata, dunque si domanda come andranno le cose in futuro.
Il senso della storia si fa strada proprio nell'Epilogo. Una sorta di “morale”, in questo specifico caso. Cambia anche l’interiorità del protagonista, poiché non sarà mai più la persona di prima. Nel bene e nel male.
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