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giovedì 1 marzo 2018

L'omicidio Joplin



Janis, la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis, quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se ballava libera sul palco, ma giù dal palco, poi, era un'altra storia. Janis, intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con lei non c’entrava, anche se in modo diverso rispetto alla città che la circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o, forse sì, solo per carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno, ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere dentro di sé la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro, come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni – scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato, storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta “abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano. Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno di questo gruppo di casinisti (ed era proprio lei la più caotica). Non aveva nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo, facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta. Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università, però, iniziò a cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus). Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande intelligenza, si illuminò di fronte a lei e alla sua mente brillante, nascosta sotto strati di trascuratezza; così se ne innamorò. Si fermarono anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore, finalmente, arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito dopo Chet la portò a esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale, con quattro brani cantati a cappella, Janis ricevette un’ovazione esplosiva da parte del pubblico, racimolando anche qualche soldo. In seguito, la giovane donna iniziò una relazione con una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet,  con il quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk, che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi, successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers, con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo - i Big Brothers - cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi leggendario, l’ “Avalon Ballroom”  e fu lì che Janis iniziò a esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother & The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò, Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad aumentare. Ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce della giovane artista. Nel ’67, infine, ebbero la loro grande occasione. Si esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì, di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo, partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero sentire e a un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per prendere strade diverse. Lei decise di continuare come solista e nel ’69 iniziò a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues; il loro concerto a Memphis però fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli, proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star, realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo e anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più, sempre di più; la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a qualcuno, a suo dire, significava aver fatto qualcosa di sbagliato. Una cosa assurda,  naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock. Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di sé. Di ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e, dopo la puntata si diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe anche la modella e attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol e la loro cameriera: la futura Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi con i Big Brother che, nonostante tutto, la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti). L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea completamente senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di “Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70 Janis morì di overdose, a soli ventisette anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei brani, “Buried Alive”. Sì, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico; la sua musica, restò nell’eternità.
Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa e la sua musica è rimasta nella storia, vi resterà per sempre; eppure,  anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha saputo opporsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a difendersi nel modo giusto, non sentendosi in difetto, ma tirando fuori la forza, chiedendo aiuto o iniziando sin da subito a tirar fuori la decisione e la sicurezza che la distingueva sul palco, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde e per quel buio dal quale non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità, con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il vostro futuro sia influenzato o addirittura definito dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - eccezionale oceano chiamato mondo.

"E ogni volta ripetevo a me stessa che non potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue braccia, lo canto ancora una volta".



sabato 9 ottobre 2010

Dipedenze



Ci sono tante cose brutte attorno a noi e non sappiamo nemmeno come parlarne per la paura di risultare banali o perché ritenuto inutile, perché "tanto non ci possiamo fare nulla". Quel che dobbiamo prendere in considerazione però è che noi dobbiamo fare qualcosa di concreto. Ho letto un articolo di Simone Feder oggi: Feder è responsabile della sezione adulti della Casa del Giovane di Pavia. Un uomo che crede che nessuno, giovane o meno giovane che sia, debba essere definito irrecuperabile ed è così che dovrebbero pensarla tutte le persone che si trovano a contatto con una persona che sta male e ha problemi. Non è facile, per niente, ma è necessario. Ciò che intendo è che se si vuole realmente salvare una persona non bisogna mollare e nemmeno fare scelte sul "più salvabile e il meno salvabile". In primis parlo degli addetti ai lavori, ma anche gli altri dovrebbero riflettere. Le famiglie, dopo parecchia sofferenza, spesso non sanno più come affrontare la cosa: il problema è grande, grave e neanche le famiglie vanno abbandonate; non dovrebbero esserlo mai. 

Fermiamoci però un secondo all'articolo di cui vi parlavo. In questo scritto Simone Feder cercava di far riflettere sul percorso da fare per poter realmente aiutare le persone che soffrono per disagio e dipendenze. Sottolineava la differenza tra "fare un percorso verso un ragazzo" e "con un ragazzo". "La Casa Del Giovane (www.cdg.it) è una comunità che nasce grazie all’intuizione e al carisma di un sacerdote pavese, don Enzo Boschetti, che negli anni della contestazione diede avvio in modo informale all’accoglienza di persone emarginate. Guidata, dalla scomparsa del fondatore nel 1993, da don Franco Tassone, l’Opera conserva lo spirito originario e accoglie minori e adulti in difficoltà (tossicodipendenti, alcolisti, senza fissa dimora, immigrati, carcerati in regime di semilibertà, ecc.) Ogni singolo caso è differente da un altro, ogni persona è unica, reagisce in modo diverso e vive in modo diverso il vuoto che porta a questo tipo di problema."

Spesso, è vero, il disagio iniziale proviene dalla famiglia e ci sono svariati tipi di problematiche quali la violenza tra le mura domestiche, la mancanza totale di dialogo e la mancanza di trasmissione di .. non solo valori.. ma del significato della vita e della gioia che la vita può dare. Ai nostri figli abbiamo il dovere di insegnare ad amare e amarsi prima di ogni altra cosa e questo, spesso, non avviene. Ci sono poi casi in cui la famiglia ha avuto problemi involontari che hanno colpito particolarmente la crescita di uno dei figli e, magari, il disagio ha preso in modo diverso lui dagli altri altri fratelli. In questo caso ovviamente non si può fare della famiglia un capro espiatorio perché certe cose accadono e non è certo una cosa voluta, anche se poi le conseguenze si sentono. Ci sono poi casi che io definirei parte "dei nuovi mali", vale a dire la ricerca di diversivi, di trasgressioni dovute alla mancanza, in ogni caso, di quel qualcosa che è necessario per far sentire un ragazzo vivo (e la società in questo ha un ruolo centrale). Perché si sente di giovani che iniziano a fare abuso di sostanze "per noia", "perché lo fanno tutti", "per non sentirsi da meno", perché "se no non si divertono", perché stanno male, perché hanno freddo, perché hanno caldo? Perché? continuiamo a chiedercelo, ma si è realmente fatto qualcosa per evitare questo tipo di problemi e per capire?

Non abbastanza. No. Non abbastanza. Non serve a niente dire "non fate uso di droghe perché fa male"; lo sappiamo, lo sanno tutti che le droghe fanno male. Come le sigarette, no? lo scrive anche lo Stato sulle sigarette che "il fumo uccide" ma io in questo momento sto fumando. Ci sono parecchie comunità, ognuna ha metodi diversi per affrontare il problema. Ognuna ha pregi e difetti. Il problema più grande credo sia, per molteplici luoghi di recupero (non tutti ovviamente), che non c'è una reale consapevolezza di come una persona con un certo tipo di problema possa pensare e soffrire e non c'è un vero sostegno psicologico alle persone che si trovano a vedere una persona che amano che si stacca a morsi la vita. Ho visto insomma fare d'un filo d'erba un fascio, mettere sotto accusa familiari che fino a quel momento si erano ammazzati, avevano dato il sangue per cercare di aiutare il loro figlio, fratello, padre. Non si mette in dubbio che le famiglie possano sbagliare, ma c'è anche da dire che le famiglie sono spesso abbandonate o "aiutate in modo formale" e non reale. Non parlo certo delle famiglie con problemi di violenza, magari sul figlio, che poi va a finire a drogarsi e magari non ha nemmeno nessuno su cui fare conto perché i genitori ce li ha ma è come se non li avesse; certo, c'è anche questo. E ci sono anche famiglie che sanno che il figlio ha un problema, ma fanno finta di niente fino a che gli è possibile, perché è evidentemente più comodo. E le famiglie che per anni e anni combattono per la vita del loro figlio? Non ci sono nemmeno leggi che possano tutelare le persone in difficoltà per dipendenze e tanto meno ci sono leggi che possano aiutare i famigliari. 

Con gli anni, con l'affrontare percorsi di vario genere, con vari "metodi" (e su questo argomento la parola "metodo" la detesto, personalmente) il giovane in difficoltà soffre come un cane perché spesso si rende conto di non farcela e il rischio più grande è che decida di mollare, di non farsi più aiutare trovando così la morte, lenta o immediata che sia. I casi, i casi.. non mi piace nemmeno la parola casi.. cosa sono le persone? Casi?  "Questo è un caso difficilissimo": NO. "Questa è una persona che sta male da morire, che è in un baratro e non sa come uscirne". Eppure questa è uno dei termini più diffusi. Ci sarà un perché, io mi dico. 

Non sono qui a dire cosa dovrebbero fare le persone che passano la vita tentando di aiutare gli altri perché non è questo il mio punto. Non è di mia competenza né ho volontà di dare consigli a nessuno. Non sono qui a discutere i metodi di una o dell'altra comunità. Spesso funzionano. Spesso no. Non sta a me giudicare il loro lavoro che comunque se non ci fosse.. beh, saremmo proprio senza speranza e sono sicura, al cento per cento, che le persone che si adoperano nell'aiuto delle persone in difficoltà per questo tipo di problema hanno tutte le buone intenzioni del mondo (perlomeno quasi tutte). Sono qui a dire, però, che come tutti gli esseri umani anche loro sbagliano, che è inutile negare a un "utente" (altro termine usato spesso dagli operatori, educatori ecc. , ecc.) di mangiare dolci se non ha il diabete. È solo un esempio, minimo, ma reale credetemi. 

Da quel poco che ho letto di Simone Feder credo sia una persona che si impegna al massimo, che fa del suo meglio, nel lavoro che fa e che fanno i suoi collaboratori e, se qualcuno che sta leggendo questo articolo ha problemi di questo tipo, vi consiglio di informarvi. Non solo su Feder, valutate bene tutte le possibilità a disposizione nella vostra zona (mi rivolgo anche ai familiari, naturalmente) e state attenti, non sempre la prima comunità è quella giusta. 

Le persone che governano dovrebbero però fare uno sforzo in più: la società in cui viviamo sarebbe completamente da rimodellare e lo sappiamo tutti. Tutti sappiamo che non ci è possibile farlo da soli. Lo sforzo di cui parlo, dunque, non è quello di cambiare tutto e risolvere tutto al volo, perché non è possibile e perché non interessa probabilmente fino in fondo, anche perché ci sono mille altri problemi da affrontare (ma la Salute, è al primo posto, di qualsiasi problema si parli). Quello che intendo però è che dovrebbero fare per lo meno il minimo; il minimo indispensabile per mettere in condizione le persone di essere aiutate e di aiutare. 

Concludo, perché sono troppe le cose da dire e da prendere in considerazione e potrei risultare persino noiosa a chi legge, ma ci tengo a incollare qui un pezzetto di quell'articolo di cui vi ho scritto: "Avverto a volte informazioni pericolose che cercano di spiegare la tossicodipendenza, o il disagio in generale, in termini prettamente logico-scientifici, causa-effetto, creando troppo spesso false speranze o dando messaggi distorti e incompleti a chi (senza avere reali competenze in materia) cerca risposte alle proprie sofferenze. Indubbiamente la stragrande maggioranza di chi utilizza sostanze non ricorre ad esse perché portatore di una patologia, ma come possiamo dire che un soggetto che ricorre all’utilizzo di droghe è una persona sana? Che cosa cerca un giovane, o non giovane, nella trasgressione? Qual è il suo concetto di normalità? E quindi che cos’è la normalità?"  e ancora: "La sfida educativa oggi deve essere aiutare il giovane a capire l’importanza del prendersi cura di se, indurlo a sposare quel processo terapeutico in modo che diventi realmente promozionale e vincente. Per questo negli ultimi anni, grazie anche alle nuove politiche sulla possibilità di scegliere e di conseguenza del libero accesso nelle strutture di cura, stiamo provando ad accogliere giovanissimi al loro primo inserimento in comunità: aggredire il disagio in fretta in modo da lasciare poco tempo perché si radichi nella vita delle persone lasciando segni più in profondità. Abbiamo scelto di correre il rischio, i giovani ti scomodano, ti mettono in crisi, ti lanciano sfide, ti chiedono molto… ma non è forse questo che chiediamo noi a loro? Mettersi in crisi, rischiare, accogliere la sfida, cambiare… e come possiamo chiedere a loro di farlo se noi per primi non siamo disposti a metterci in gioco in questo modo? Proviamo a stare un po’ con i giovani, accompagnamoli nelle fatiche e nelle sofferenze, andando oltre tutto ciò che la nostra coscienza e il nostro sguardo vede, e proviamo a chiederci perché un giovane nell’incontro con l’altro non cambia. Quanti sono stati gli interventi verso di lui ma non con lui... Insegnare all’altro significa anche condividere ed essere coerenti. Quando un giovane vede le tue fatiche, le tue preoccupazioni, il tuo amare la vita e le bellezze del creato, come può rimanere lo stesso? [...] Stiamo da anni cercando di rivedere i nostri interventi educativi all’interno delle comunità. Si pensa a programmi personalizzati, a corsi di studio, alla loro professione lavorativa, al loro rapporto con i familiari. Si fanno gruppi tematici, percorsi psicologici, ma anche giornate sportive, gruppi musicali, progetti audiovisivi… siamo alla ricerca di risposte che mettono in crisi i nostri script mentali di risposta terapeutica, sconvolgono la nostra linearità di pensiero. Ci serviamo della statistica per capire come stanno e come rispondere in modo appropriato al loro bisogno, ma poi non possiamo esimerci dal guardarli in faccia e prendere per mano ogni singolo giovane… ebbene stiamo faticando, ma, vi chiedo, lasciateci lavorare con loro, i frutti li raccoglieremo nel tempo"

Credo che questi tratti del discorso di Feder dicano già molto. Concludo con la speranza, con la voglia di vedere le cose cambiare, con la voglia di vedere i giovani vivere e prendersi cura di se e personalmente, confido in Dio.