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venerdì 18 ottobre 2024

Frank Zappa: il funambolo danzante attorno a un fuoco (2024 review)


Frank Zappa era americano, ma non solo. Portava con sé le origini siciliane del padre, un po' di sangue francese e un altro po' di italiano, da parte di madre. Sangue misto, meticcio, favolosamente meticcio. Vi chiederete cosa c'entri il sangue misto con la musica. Beh, forse molto, forse poco, ma nel dubbio è una buona informazione. Può esserlo anche pensando alla sua personalità, al suo modo di essere così geniale, creativo e severo, contradditorio e coerente con le sue stesse contraddizioni, appassionato e passionale. Dire che Zappa fosse un meticcio musicale è riduttivo. Zappa era, è e sarà sempre molto più di questo; per la musica e non solo. Ispirato, nel senso più alto del termine. È difficile scrivere di lui, era Tanto con una T enorme ed io "...non ho alcuna convinzione per come è intesa dalla gente del mio secolo. [...] Solo i briganti sono convinti - di che? - di dover riuscire. Così riescono. [...]. Tuttavia ho qualche convinzione, in senso più elevato, e che non può essere capita dalla gente del mio tempo" (Charles, quanto lo adoro). In effetti, ci sarebbero una miriade di cose da dire. So che molti di coloro che leggeranno sapranno benissimo di chi si parla, ma so anche che, purtroppo, tantissime persone non ne avranno la minima idea. È successo e continua a succedere per molti grandi del passato, di un tempo definito lontano, ma che a dire il vero non lo è così tanto (a volte sì, ok, ma l'arte non può essere storicizzata. "Non per come lo intendono gli uomini del nostro tempo"). Qualcuno potrebbe averlo sentito nominare molte volte senza pensare a chi fosse e a cosa facesse, potrebbero aver visto il suo volto - una faccia che ti rimane nel cervello a vita quando la vedi - senza sapere nulla di lui. La cosa triste è proprio questa: in Italia c'è una non cultura così diffusa da far star male chi la musica la ama, la vive, sa come funzionano le cose e perché. C'è un enorme buco, lasciato lì a ingoiare strascichi di curiosità e sete perduta, ammalata, deturpata. Pur essendo un dato di fatto che è così, che tanta gente se ne frega e non si pone il problema, come non se lo pone per la mancanza di rispetto assoluta per l'arte tutta, è più forte di me; è una cosa che non riesco ad accettare e continuerò a sognare che le cose cambino e che anche piccole gocce in un oceano di persone, a loro modo, possano riuscire a rivoluzionare tutto. Sto divagando? In verità, no. Frank ha lottato parecchio per la musica e non "solo" per quella. È stato musica d'ogni sorta, purché buona. Un po' come nella ben nota frase di Einstein. Frank era parole, testi diretti, crudi fino allo stremo. Era arte nell'arte, dentro al mondo e fuori dal mondo; solo che, per chi non lo conosce, questa frase può sembrare insensata. Chitarrista, compositore, interprete, produttore discografico, direttore d'orchestra e arrangiatore.  Un genio della musica, passato dal cantautorato rock al rock blues fino al rock più contaminato, tanto che per alcuni "puritani" del genere era persino troppo; ha suonato e composto musica rock, jazz, fusion, classica e classica sperimentale. È passato, in compagnia della sua musica in mezzo al cabaret, per giungere alla satira, poiché i suoi testi sono sempre stati onesti, viscerali, crudi dicevo, come una bistecca rosso vivo. Era volontariamente esagerato, tanto diretto da non essere immediatamente colto da gran parte del pubblico del suo tempo (...) e, come spesso accade, compreso perlopiù in seguito. Non era facile Frank, ma quale genio potrebbe esserlo? Frank Zappa è stato un perenne funambolo; un funambolo spericolato e consapevole che si spostava avanti e indietro e saltellava di qui e di là s'una bella corda posizionata il più possibile ad alta quota. Immaginatelo: lui che cammina, beato, sulla corda meravigliosa del teatro dell'assurdo e del jazz, iper protagonista e iper creativo. Era come se danzasse attorno a un fuoco camminando sulla sua folle corda. Volontariamente e incantevolmente folle. Professionalmente impeccabile, preparatissimo, contaminato nelle ispirazioni da miriadi di sfumature e riferimenti diversi. Geniale. Un aneddoto che mi ha colpito nella sua storia, l'ho trovato in un articolo che parlava di un concerto tenutosi nel 1982, nel quale fece installare un, allora ancora poco diffuso, megaschermo. Sullo stesso fu proiettata una partita di calcio e la sua spiegazione al pubblico, prima di iniziare una delle sue epiche performance fu semplicissima: "Chi non capisce un tubo della musica che faccio, può tranquillamente guardarsi le partite... così non ha buttato i soldi del biglietto". "Does Humor Belong in Music?". Oh, si che può. Zappa ne era un maestro e questo è il titolo di un suo live album e di un tour, con grandiosi musicisti al seguito naturalmente, del quale vi propongo sotto un video. In particolare, qui si tratta dello storico "Live At The Pier" e del brano "Keep it greasey". Dopo un minuto e trenta secondi dall'inizio, sul finire di "Bobby Brown" e collegando simpaticamente i due pezzi, Frank Zappa annuncia: " Watch me now because the name of this song is "Keep it greasey" ". Si tratta di un brano che fa parte di un concept album suddiviso in tre atti, pubblicato nel '79 e che narra le avventure e le disavventure del protagonista Joe. Nel caso di "Keep it greasey", Joe è prigione da un po' e Zappa ne narra le disavventure. Come parlare di una realtà terribile, trasmettere un messaggio forte e riderci sopra? Presto detto: "Keep it greasey".


mercoledì 11 dicembre 2019

Il Trio Bobo: Faso, Meyer, Menconi



Il Trio Bobo è un’esplosione di energia, espressività, passione e livello musicale altissimo. Non a caso è composto da tre dei musicisti più bravi d’Italia, vale a dire Christian Meyer (batteria), Faso (basso) e Alessio Menconi (chitarra). Come già molti di voi sapranno si tratta della sezione ritmica di Elio e Le Storie Tese unita ad uno dei chitarristi più bravi del jazz italiano (e chitarrista di Paolo Conte). Vederli dal vivo è una goduria. Li vedi sorridenti, allegri, liberi e mi ricordano un po’ degli atleti che fanno numeri di grande difficoltà con il viso rilassato e gioioso, facendo comprendere che quel che fanno, pur se difficile, è per loro di una naturalezza infinita. È ovvio che quando si parla di musicisti di questo calibro si rimane a bocca aperta. Io in particolare ero allibita da Christian, avevo la mascella autonoma, viveva di vita propria. Naturalmente anche per Faso e Alessio, ma amando particolarmente lo strumento, vedere un batterista come Christian Meyer suonare a pochi metri e stare ad osservare, con una certa conoscenza dello strumento, quello che fa… non può che suscitare questo effetto. Faso e Alessio comunque, sono – come dire – "bestioline da palcoscenico" e chi li ha potuti ascoltare e vedere anche in altre occasioni lo sa, non c’è molto da spiegare. Questo Trio sta suscitando sempre più successo tra il pubblico e non è solo per la musica straordinaria, coinvolgente e originale che creano – anche se è fondamentale – ma anche, credo io, per la capacità che i tre hanno di coinvolgere ed interagire con le persone che hanno di fronte. È un continuo scambio, di musica, emozioni ed allegria e alla fine del concerto non si può fare a meno di acquistare almeno uno dei loro album. Per questa chiacchierata con loro, per la prima volta da quando esiste Il cammino, ho voluto coinvolgere anche i lettori e chi era interessato a fare domande ha mandato un messaggio privato sulla pagina Facebook, scoprendo in anteprima di chi si trattasse. Tra queste domande, le selezionate sono state inserite nell’intervista che potete leggere qui sotto.

Allora “gggiòvani”, raccontate a chi ancora non lo sapesse come è nato e cosa combina il Trio Bobo... aneddoti particolari da raccontare a riguardo?

Alessio: Il trio nasce 17 anni fa, quando ci siamo riuniti quasi per caso per fare due concerti nei quai abbiamo suonato cover jazz/rock. Da lì ci siamo trovati bene in tutti i sensi ed abbiamo deciso di proseguire scrivendo musica nostra.

Chris: Io pensavo che avremmo dovuto avere un nome tipo “Power Trio” e Faso ci ha convinti che Trio Bobo fosse il nome giusto. Aveva ragione Faso e ho dovuto rivedere tutte le mie convinzioni di titolista farlocco.   

Avete pubblicato tre album, accolti con grande energia da tutti, con live pieni di entusiasmo da parte del pubblico più svariato... e ora? state già lavorando a un nuovo album?

Faso: Abbiamo pubblicato “Trio Bobo” nel 2005, “Pepper Games” nel 2016 e “Sensurround” nel 2019. Il primo album però è poco noto perché ha avuto diffusione molto limitata.

Alessio: Magari al quarto ci lavoreremo il prossimo anno!

Chris: Fare un cd richiede molto tempo e oggi siamo schiacciati da un mondo veloce, perciò le due cose coincidono poco, ma noi teniamo duro!

Faso: Nel trio confluiscono i gusti musicali e le passioni di tutti e tre i componenti, che coprono uno specchio abbastanza ampio di generi musicali: rock, blues, jazz, progressive, dance ’70, pop, afro, musica brasiliana, soul. Va da sé che le nostre composizioni contengono tante spezie diverse e posso quindi incuriosire ed essere apprezzate da un pubblico eterogeneo.

Christian, come sai - visto l'amico/idolo in comune (Gianni Cazzola, re dello swing italiano, n.d.r.) - ho una predilezione per i batteristi anche se è ovvio che in quanto appassionata fino all'osso di musica amo ogni grande musicista, però cavolo, vederti suonare è praticamente un viaggio e sembra che il viaggio lo stia facendo anche tu. Mettendo la frase tra virgolette, "sei più tu a "tenere il controllo" - se così si può dire - su quello che fai o è più la musica che trascina te"? Un po' come dire... chi è che "comanda" di più?

Chris: Quando un batterista suona con dei bravi musicisti vi è una sorta di traino musicale che ti facilita il compito di sostenere il gruppo. Io tendenzialmente, sul palco entro in una fase molto selvaggia e libera. Naturalmente non spengo il cervello e cerco anche di non esagerare con imposizioni ritmiche, bensì di rispettare gli spazi degli altri musicisti. Sicuramente il batterista ha la potenzialità di rendere un gruppo più o meno interessante. Come? grazie alle dinamiche, alle pause o ai colori che decide di utilizzare. Il batterista può o non può suggerire scenari ritmici immediati e stimolanti.

Ora, per la prima volta nella storia del blog, vi riporto alcune domande da parte del pubblico. La prima domanda è di Arianna Capirossi che chiede: qual è la parte che preferite del vostro lavoro? la composizione, l'esibizione live, l'incisione…?

Alessio: Io preferisco suonare dal vivo.

Faso: Anche io preferisco suonare dal vivo, però non nascondo che lavorare sull’arrangiamento di un brano in studio non mi dispiace affatto.

Chris: Concordo con i miei amici musicisti. Dal vivo hai adrenalina e contatto con il pubblico, in studio puoi ragionare e divertirti in un altro modo.

La seconda è di Alain Morandi (un grande musicista tra l'altro, n.d.r.): qual è la scintilla che ha innescato la miccia per dar vita a questo trio? e a chi vi siete ispirati?

Alessio: Abbiamo diverse influenze, alcune in comune e altre no ed è forse per questo che nasce un sound particolare ed originale.

Faso: Concordo con Alessio e aggiungo solo una cosa: come ispirazione sull’approccio dal vivo di sicuro ci ispiriamo - con grande umiltà - ai Weather Report, che dicevano di essere “sempre in solo, mai in solo”, vale a dire “improvvisare si, ma in modo misurato”.

Chris: Concordo e aggiungo che suonare in trio ti permette di prendere direzioni musicali diverse mentre sei live sul palco. Il trio è un divertimento.

La terza e ultima domanda dei lettori è di Sergio Gritti, cantautore: quando si è musicisti affermati si ha la possibilità e la capacità di suonare un po' tutti i generi musicali, ma mi sembra che spesso capiti che alcuni musicisti suonino generi non proprio consoni ai loro gusti musicali, a volte per questioni di mercato, di richiesta. Che ne pensate?

Alessio: A volte non tutti hanno la possibilità di suonare la propria musica o semplicemente non hanno abbastanza “motivazione”, quindi molti musicisti si ritrovano a suonare musica che non amano semplicemente per lavoro.

Faso: Se di lavoro fai il musicista devi tenere conto che non sempre suonerai la musica che preferisci. Anche perché se fai troppo il difficile diventa complicato mantenersi! Mi reputo molto fortunato ad aver suonato per 30 anni con gli Elio e le Storie Tese e da oltre 15 anni con il Trio Bobo, non capita a tutti in Italia.  

Chris: Infatti noi siamo fortunati perché suoniamo la nostra musica. Ecco perché ci vedete sorridenti sul palco!!!

Chiudo io, con una mia domanda di rito. Di che colore è il Trio Bobo?

Alessio: Giallo.
Faso: Giallo limone. 
Chris: Giallo canarino.

Grazie ragazzi e voi che leggete, andate a sentirli da vivo!!!

Link:

giovedì 1 marzo 2018

L'omicidio Joplin



Janis, la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis, quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se ballava libera sul palco, ma giù dal palco poi era un'altra storia. Janis, intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con lei non c’entrava niente anche se in modo diverso rispetto alla città che la circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o forse, si, forse solo per carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno, ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere dentro di se la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro, come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni – scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato, storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta “abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano. Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno di questo gruppo di casinisti ed era proprio lei la più caotica. Non aveva nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo, facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta. Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università però iniziò a cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus). Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande intelligenza, si illuminò di fronte a lui la sua mente brillante, nascosta sotto strati di trascuratezza e tutto ciò lo fece innamorare. Si fermarono anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore, finalmente arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito dopo Chet la portò ad esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale – con quattro brani cantati a cappella – ricevette un’ovazione esplosiva da parte del pubblico, racimolando anche qualche soldo. Janis iniziò poi una relazione con una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet, con il quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk, che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers, con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo, i Big Brothers, cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi leggendario, l’ “Avalon Ballroom”  e fu lì che Janis iniziò ad esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother & The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò, Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad aumentare, poiché ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce della giovane artista. Nel ’67 infine ebbero la loro grande occasione. Si esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì, di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo, partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero sentire e ad un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per prendere strade diverse e lei decise di continuare come solista. Nel ’69 iniziò a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues, ma il loro concerto a Memphis fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli, proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star, realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo ed anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più, sempre di più, perché la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a qualcuno, per lei, c’era qualcosa di sbagliato in quel che faceva. Una cosa assurda naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock. Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di se. Di ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e dopo la puntata, si diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe anche la modella ed attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol e la loro cameriera, per quanto possa sembrare strano a dirsi, fu la futura Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi con i Big Brother, che nonostante tutto la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti). L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea completamente fuori di testa, senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di “Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70, Janis morì di overdose, a soli ventisette anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei brani, “Buried Alive”. Si, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico, la sua musica, restò nell’eternità.

Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa e la sua musica è rimasta nella storia e nella storia resterà per sempre, eppure anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha saputo ribellarsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a ribellarsi nel modo giusto, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde, per un buio dal quale non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità, con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il futuro sia creato dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - meraviglioso oceano chiamato mondo.


"E ogni volta ripetevo a me stessa che non potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue braccia, lo canto ancora una volta."


martedì 1 dicembre 2015

Enrico Mantovani: la musica che si vede


Ernico Mantovani. Venerdì 26 Settembre ho assistito, non per la prima volta, ad uno dei suoi magnifici, emozionanti e sempre unici concerti (a "La Taverna delle Fate Ignoranti" di Quinzano d'Oglio (Bs), un luogo delizioso). Enrico Mantovani è un "OneManBand", perché definirlo "solo" un chitarrista di talento è poco; non a caso "OneManBand" è il suo biglietto da visita e quando lo senti suonare, quando lo vedi suonare e le emozioni si trasformano in musica, percepisci che le melodie, le armonie, il ritmo, diventano colori, temperatura, immagine, suono percepibile al tatto ed allora comprendi perché Enrico Mantovani non è "solo" un chitarrista di talento e a quel punto non è più necessario spiegare perché il suo biglietto da visita è "OneManBand"; però ve lo spiego, perché molti di voi magari non l'avranno ancora mai sentito nonostante giri in lungo e in largo l'Italia (come invece alcuni già adoreranno il suo sound). Al di la' di questo, mi capita spesso di partire dalle emozioni quando parlo di un talento, perché la differenza tra un "bravo musicista" e un "musicista di talento" sta nell'anima, nella grinta, in quel che arriva alle persone. È così per tutte le discipline artistiche, naturalmente a parer mio. Enrico Mantovani è un artista bresciano, polistrumentista, ma la chitarra è nel suo nome. Vive a Orzinuovi ed ha collaborato con grandi artisti quali il cantautore Massimo Bubola, Giorgio Cordini i più noti (al grande pubblico si intende) Massimo Ranieri, Francesco Renga, Eugenio Finardi... ed ha suonato anche con Alex Britti (spero vi sia capitato di sentire una volta almeno il Britti blues), Gianna Nannini, Fausto Leali e molti altri. Le ho scritte, le collaborazioni, perché è giusto, per far capire a chi non dovesse conoscerlo che di cose ne ha fatte e pure tante (e non solo queste, poi ci arriviamo), ma il mio intento non è parlare dei nomi con cui Enrico Mantovani ha collaborato; il mio intento è parlare di Enrico Mantovani, un musicista come pochi, della musica che si vede, dunque, delle infinite sfumature dell'arte.

Enrico Mantovani chi è? E poi... è abbastanza classico chiederlo, ma è sempre interessante per capire di più: come hai iniziato a suonare, quando, cosa ti ha spinto a imbracciare la chitarra?

"Direi che la mia fortuna è stata di iniziare molto giovane, con mio padre quando avevo sedici, quindici anni e già suonavo il blues e i pezzi degli Stones insieme al mio amico Riccardo Maffoni... ho iniziato con mio padre, dicevo, scriveva canzoni e racconti brevi ed era il mio consigliere su libri e dischi che mi hanno poi accompagnato fino ad oggi; mi sono subito reso conto, sin da adolescente, che non era solo una questione di “musica“, ma anche di parole, di pensieri e di poesia. La chitarra ok, saper suonare ok... mi veniva facile e spontaneo... ma sentivo che la magia vera erano le storie che le canzoni mi raccontavano... Così, assieme a mio padre, iniziai a suonare la chitarra nei suoi spettacoli sulla seconda guerra mondiale, sui partigiani, sulle storie dei partigiani nella nostra pianura e l'ultimo spettacolo si intitolava proprio "Novecento" e... sia i libri che le sue canzoni parlavano sempre di queste vicende e di storie che abbiamo dietro l'angolo, che risalgono a cinquanta, sessant'anni fa, non è un tempo poi così lontano. Del resto un piede nel novecento ce l’ho avuto anche io: da piccolo si passavano giornate intere in cascina, a giocare sui fienili, a contatto con gli animali, ci tuffavamo nei fossi e di sera, dopo cena, spesso mio padre imbracciava la chitarra e cantava canzoni di Nanni Svampa e di altri cantastorie. Più che la musica in se, sono le canzoni che mi hanno affascinato sin da piccolo."

Hai tanti progetti in corso: i meravigliosi Matmata, i concerti "OneManBand", la collaborazione costante con il grande Bubola ed altre collaborazioni. Raccontami un po' cosa stai combinando.

"Beh… con Massimo Bubola ho avuto la fortuna di partecipare ad un percorso sulla Prima Guerra mondiale, sulla Grande Guerra, che mi ha dato modo di rivedere la storia dell' Italia e degli italiani negli ultimi duecento anni; un lavoro a ritroso nel tempo, con brani e melodie popolari di fine ottocento e anche più antiche che hanno resistito fino ai giorni nostri. Massimo ha fatto il primo disco sulla guerra nel 2004, "Quel lungo treno", il secondo nel 2013, "Il testamento del capitano" e l' anno prossimo dovrebbe uscire il terzo; una trilogia con brani degli alpini e canti popolari riarrangiati in chiave folk e rock; tratti da una letteratura popolare e contadina, questi brani vanno a comporre parte della musica detta "poplare", che è quel tracciato dal quale nessun musicista dovrebbe mai discostarsi troppo secondo me. Purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura che ad esempio è molto radicata in Irlanda, dove i nonni suonano con i nipoti e tutti conoscono un repertorio di duecento, trecento canzoni folk... e lo stesso vale anche per gli americani e sicuramente per molti atri popoli.

Un incontro raro e fortunato è stato poi quello con i Matmata; mentre con Bubola, con Massimo Ranieri, con Giorgio Cordini e altri ero maturato come musicista o come turnista, imparando a fare questo mestiere, con i Matmata c’è stato un’incontro tra musicisti maturi e già più consapevoli, grazie ai quali ho scoperto il valore della "Band", trovarsi tutti i giorni, suonare insieme più volte alla settimana per il piacere di suonare e per la volontà di creare un groove comune, un sound, un feeling, lavorando sui pezzi che Gianmario continua a creare ancora oggi con grande abilità. Infine nei Matmata ho trovato una famiglia; non è un lavoro da "turnista", è un lavoro con la tua band, coi tuoi amici, coi quali si condividono tantissimi momenti di vita, al di la' della musica…. è stato davvero magico incontrarli."

Per me che ho assistito più volte a tuoi live, con i Matmata e come OneManBand, sapendo quante emozioni, diversificate, trasmetti, mi viene istintivo chiederti: in quei momenti, sul palco, cosa provi, cosa pensi, cosa senti tu, cosa ti passa per la testa?

"Quando suoni.... non pensi a niente, suoni e basta; la musica ce l'hai nel cervello e nel cuore, è li che ti gira attorno, come fanno gli avvoltoi, come una giostra con tante lucine e tu sai già quali vanno accese e quali spente, senza pensarci.... suonare mi fa stare mezzo metro sopra terra, è una droga, la droga più bella e sana che esista e il concerto, il live, è il vero motivo per cui ho imparato a suonare e per cui, grazie al Cielo, continuo a suonare."

Hai fondato nel 2013 l'Accademia di Musica Hendrix (cliccate, cliccate ragazzi). Com'è nato questo progetto e come lo senti? Qual è il contesto?

"L'Accademia... mmmm…... Non credo moltissimo nelle scuole di musica, credo che all'uomo siano più utili i corsi di cucito o di giardinaggio. Le scuole di musica quando io avevo quindici anni non esistevano, o quasi; c'era qualche insegnante che dava lezioni private e se volevi suonare dovevi essere davvero portato, perché dovevi imparare ascoltando i dischi in vinile o la radio, quindi dovevi avere orecchio ed essere molto svelto nel capire le note da riportare sullo strumento. Oggi invece, forse anche a causa dei "talent", molta più gente vuole fare musica, ma siccome da sola non ci riesce, nemmeno con i video di youtube, si rifugia nelle accademie di musica. L’accademia comunque l’ho aperta per portare un po' di fermento sul territorio dove sono nato e dove ho sempre vissuto, sperando di imbattermi in qualche talentuoso futuro musicista."

Ora ti faccio una delle mie domande strane. Altre volte ho fatto questa domanda perché è per me parte dell' "andare oltre" e potrebbe sembrare una domanda semplice, ma non lo è affatto. Di che colore è secondo te la tua musica? E la tua anima? Combaciano?

"Mi piace suonare con le luci blu... e poi il blu è indubbiamente blues..."

Hai un pezzo che su tutti, per te, è il migliore?

"Beh, un brano è troppo poco, ne amo troppi, ma tra i miei artisti preferiti spiccano Bob Dylan e i Rolling Stones. Il resto è tutto sotto."

La tua parola preferita... (Enrico qui è favolosamente indeciso, ma poi la prima parola che gli viene in mente è...)

"Grembo."

Ecco qui, Enrico Mantovani. Penso non ci sia altro da aggiungere se non che, come ho detto anche a lui, una delle cose che lo rende più speciale è che non si rende conto davvero di quanto è raro.

Grazie infinite Enrico.

Link:

martedì 17 marzo 2015

Dario Cecchini e i Funk Off: l'energia che esplode in musica


Funk Off
Oltre sedici anni di storia, quasi settecento concerti. I Funk Off sono stati la prima funky marchin' band italiana e al termine hanno dato un nuovo significato, unendo quest'accezione al groove della black music, ad arrangiamenti jazz, a movimenti e coreaografie di grande impatto emotivo e visivo, senza mai perdere la loro "italianità", le origini, la musicalità della propria terra. Dopo di loro tante band sono nate, seguendo la loro scia meravigliosa ma... loro sono unici, unici e inimitabili. Sono passione, grinta, originalità, feeling, groove, calore, colore e potenza. Dario Cecchini (clik click!) è il fondatore e leader della band fiorentina, scrive ed arrangia la loro musica dall'inverno del 1998, quando il progetto nasce e comincia ad attirare l'attenzione dei responsabili dell'Umbria Jazz che dal 2003 in poi li inviterà a tutte le edizioni del Festival, scegliendoli come marchin' band ufficiale sia della manifestazione perugina che dell'Umbria Jazz Winter di Orvieto, coinvolgendo, come è inevitabile che sia, tutto il pubblico e portandoli fino al palco di un entusiasta James Brown. Ci sarebbero così tante cose da scrivere, ma... cliccate sul link tra parentesi e vi renderete conto di cosa hanno combinato questi musicisti eccezionali (FunkOff on Fb). Personalmente li ho scoperti nel 2011, ospiti di "Sostiene Bollani" su Rai3. Io e il mio compagno ci siamo guardati, con gli occhi spalancati, l'ascolto che si trasforma immediatamente in un istante di stupendo entusiamo, un sussulto e se non ricordo male un "Oh mio Dio...!". Una rivelazione. Sul loro sito www.funkoff.it potete trovare tutte le news e le date sempre aggiornate. Ora, veniamo a noi... una bella chiacchierata con lui, Dario Cecchini...
Dario Cecchini

Per prima cosa sono curiosa di sapere come ti è venuta l'idea di questo progetto, ma non desidero chiederti, per così dire, "informazioni generali". Intendo proprio a livello "fisico/chimico/mentale/temporale". Mi spiego meglio: so che sei cresciuto con il jazz, che hai molte influenze (dal funk alla black music o la soul latina), hai molte esperienze diverse, prima di questo progetto per esempio dirigevi la Big Band del Cam (scuola di musica fiorentina) con la quale hai iniziato a mescolare il jazz, il funk, la black music... ma la mia domanda è: l'istante. C'è un istante, un punto di illuminazione in cui è nato il progetto Funk Off? Il culmine dell'idea, il climax dell'ispirazione, riguardo all'idea del progetto Funk Off appunto.

"Allora... il momento è stato... durante una prova della Big Band del Cam, la Ballroom Dance Band che dirigevo oramai da circa tre anni, anzi dal '94, quattro anni... In questa band c'erano diversi dei ragazzi che poi sono entrati a far parte dei Funk Off: Andrea Pasi, Nicola Cipriani, Paolo Bini, Francesco Bassi, Luca Bassani, che in quella formazione suonava il basso e... durante una prova ebbi quest'idea, pensai "porca miseria! Potrei fare una band che fa questo tipo di musica, con la formazione della banda e quindi con il suono della banda, però unendo a questo il movimento". Al momento ho pensato che poteva essere un'idea sulla quale lavorare, poi ricordo che ne ho parlato con Francesco Bassi, gli dissi dell'idea, che avrei scritto un po' di pezzi e che poi avremmo potuto valutare cosa fare. C'è da dire che... qualche anno prima credo, un nostro amico Dj mi chiese di fare una cosa con la formazione della banda, di suonare "Reginella Campagnola" e io feci un'arrangiamento, così a voce, poi diedi le direttive musicali. E' un brano tipico delle bande di paese insomma - e non so.. non so se questa cosa mi ha influenzato in qualche modo, non ci avevo mai riflettuto, poi fu lui, questo Dj, a chiedermi se mi fossi ispirato a quell'esperienza e io gli dissi "Mah... no, non ci avevo mai riflettuto, però...". Io credo di essermi più ispirato di più... nel vedere i movimenti spontanei che i musicisti facevano quando provavamo i pezzi, arrangiamenti di brani più e meno funk e anche qualche brano mio... ed è stato anche il momento in cui presi fiducia sull'idea che mescolare musica jazz, funk, soul... potesse avere una ragion d'essere e che potesse funzionare; quindi anche una presa di coscienza e una presa di fiducia in me stesso."

Funk Off
E quando hai dato il via al progetto ti aspettavi di risultare così sconvolgente? Cioè, fin dall'inizio, siete stati un'esplosione per tutti!

"Ma sai... io non sono molto bravo a trovare concerti, a gestire questi aspetti, però c'era e c'è Nicola Cipriani che invece è molto bravo in questo e lui si diede molto da fare e... grazie a lui iniziammo a fare le prime date; poi è ovvio che quando parte un progetto non pensi che possa diventare quello che poi diventa... quello che è diventato. Tu provi a portarlo avanti nel miglior modo possibile. Non immaginavo che alla gente potesse piacere così tanto questo progetto, anche perché... oggi in giro ci sono tante marchin' band, ma all'epoca non ce n'erano, noi siamo stati i primi e quindi... era tutto da vedere, magari andavi fuori e la gente non ti stava nemmeno ad ascoltare... Poi... uno non fa il progetto per la gente, lo fa prima di tutto per esprimere le proprie idee artistiche, musicali, poi se va bene... naturalmente fa piacere! Quando ho iniziato con i Funk Off avevo trentacinque anni, erano quindici anni che provavo a fare musica e che vivevo di musica comunque e non lavoro nel mondo del pop – ho avuto collaborazioni pop, ma comunque non faccio musica pop - quindi per me un progetto parte come un'esigenza artistica, in altri contesti parte invece con l'idea di guadagnare, di diventare famosi, come nel caso dei talent."

Oltre a questo... vedo gruppi che hanno avuto un ottimo riscontro, che se lo meritano e che... anche loro non partono con l'intenzione di "diventare famosi" e tantomeno si aspettavano quello che poi sono riusciti a realizzare, parlo di gruppi assolutamente non commerciali, che però nell'impostazione iniziale avevano un approccio diverso fin dall'inizio, a livello di diffusione della loro musica, rispetto alle nuove tecnologie per esempio.

"Una banda così" Funk Off
"Ah la nostra diffusione è stata quella più vecchio stile del mondo, abbiamo cominciato a fare live, a quei tempi solo marcianti. Al tempo, nei live in strada, facevamo un po' come ora in realtà, alcuni dei pezzi avevano delle coreografie più strutturate e altri invece meno, poi però andando avanti negli anni si sono aggiunti Alessandro Sugelli, Francesco Bassi, Andrea Pasi (i principali curatori delle coreografie, ndr). All'inizio eravamo veramente "solo" una marchin' band; io mi ricordo che quando ci è successo di fare il primo concerto su un palco io... non è che fossi tanto sicuro e convinto che la cosa potesse funzionare, quindi poi... ovviamente c'è stato uno sviluppo, dal concerto di marchin' band che marcia per la strada e che suona muovendosi a quello di una formazione che resta di marchin' band ma che suona anche su un palco e naturalmente è diversa la cosa."

Una cosa però mi ha colpito, per la sua dolcezza... Già dai video dei live, dalle performance che ho potuto trovare online perché purtroppo non ho mai avuto occasione di vedervi dal vivo, mi dai l'impressione, in particolare con i più giovani, di essere un po' "lo zio" della situazione; mentre suonate, lo scambio di gesti, di sguardi, sembra tu abbia un senso di protezione verso i tuoi musicisti, anche con quelli che più o meno hanno la tua età in realtà, però con i più giovani è più palpabile la cosa... è un'impressione mia o è così davvero?

"Beh... certo... io sono... diciamo così... a capo dei Funk Off, quindi... è ovvio che proteggo i Funk Off. In realtà non ce n'è mai bisogno, anzi, a volte devo stare attento a proteggermi da loro perché sai, in quattordici contro uno...! (ride con affetto..., ndr). No beh, sono protettivo nel senso che voglio bene a questa band, fa parte di me, dunque sono protettivo con loro come lo sarei verso me stesso; poi lo scambio di sguardi, di gesti, sicuramente è una questione di feeling, ma è anche frutto di esigenze musicali, direttive. C'è talmente tanto affiatamento che... basta che loro mi guardino, gli basta vedere come mi muovo, con un'occhiata ci intendiamo, se c'è qualcosa che non va o se c'è qualcosa che voglio dire, loro lo capiscono al volo. Quello che mi piace dei Funk Off è che il concerto si sviluppa in maniera diversa tutte le volte, a volte nascono cose nuove durante i live, proprio perché c'è molto feeling e dunque io posso "chiamare" delle cose che nelle prove non abbiamo fatto perché c'è molta empatia tra noi. Riguardo ai più giovani... non so... tanto sono tutti più giovani di me! (ride - ah ah, ndr). Mi piace che succedano le cose sul palco, nel jazz succede questo, quello che accade stasera non accade domani sera e quello che succede domani sera non succederà l'indomani e il nostro approccio viene molto dal jazz. Per esempio, se parliamo di un concerto di musica pop, si parla di un "prodotto perfetto", pensato, organizzato, perché deve essere più o meno sempre così com'è. Nel progetto dei Funk Off è esattamente il contrario, è un "prodotto imperfetto", comunque organizzato, ma che trova energia, linfa e cambiamento durante lo sviluppo del concerto. Questo ci riporta al fatto dell'essere empatici l'uno nei confronti degli altri e anche al correre dei rischi. A volte è successo, magari io ho lanciato delle chiamate che al momento non sono state colte ed è capitato facessimo degli errori anche evidenti, ma va bene, ci sta, anche nella vita è così. A me proprio... non interessa fare una musica perfetta."

Siete anche a lavoro per il nuovo album che esce ad Aprile 2015 giusto? Dimmi dimmi, racconta eh eh...

"Riguardo al nuovo album beh, io sono molto contento perché ha un sound diverso dagli album precedenti – al di la' del fatto che ovviamente sono pezzi nuovi - proprio come ispirazione, arrangiamenti, produzione. Oltretutto ci sono tre ospiti, due dei quali hanno collaborato anche alla composizione dei brani, hanno scritto i testi di due brani e li cantano. "Dance with me" con AverySunshine e "Déjà Vu" con Raul Midon. L'altro ospite è Fred Wesley, che era il trombonista della della band di James Brown (The J.B. 's - ndr). Per me questo è l'album più soul tra gli album dei Funk Off. Non tutti i brani sono soul, ma una buona parte è comunque d'ispirazione soul, anche perché venivo da un periodo di ascolti di artisti come Marvin Gaye, Bill Withers, Leon Ware, Curtis Mayfield e io... ce li sento, sono veramente contento."

Qualche novità sui prossimi live? (date a fondo articolo, ndr)

"Abbiamo vari concerti e varie Street Parades. Inoltre presenteremo in alcuni teatri il nuovo album e in questi eventi avremo come ospite Karima, una collaborazione nuova. Lei è molto brava a cantare ed è molto brava a cantare in inglese ed avendo composto dei pezzi in inglese è nata questa cosa; poi faremo anche un pezzo suo, con un arrangiamento un po' "funkoffizzato" diciamo eh eh..."

Ora parliamo di parole, è una cosa che adoro quando chiacchiero con musicisti, artisti e anche in generale... dimmi una, due.. quelle che vuoi... parole per te essenziali e qual è per te il loro significato più profondo, il motivo della scelta... Perché le parole, come la musica, sono un mondo non credi...?

"Di sicuro "armonia", "equilibrio", sono le parole che hanno un significato particolare per me. "Armonia" perché... mi piace avere armonia intorno, mi piace dal punto di vista umano e mi piace perché nella musica... amo molto l'armonia o le sfumature che l'armonia può dare... penso che quando c'è armonia tutte le cose siano migliori. "Equilibrio" perché l'equilibrio è una cosa importante, una cosa della quale sono sempre alla ricerca e... a volte lo trovo e a volte non lo trovo; e questo sia nella musica che nella vita. Questo però non significa che i pezzi debbano per forza essere equilibrati, anzi, fondamentalmente penso che nel momento compositivo, creativo, sia necessario essere tutt'altro che equilibrati, che si debba essere "esagerati", "illogici", che si debba seguire l'istinto, abbandonarsi ai sentimenti e alla creatività stessa, quindi in quella fase credo che l'equilibrio non sia produttivo. Per tutto il resto però credo che nella vita l'equilibrio sia una cosa fondamentale; questo non vuol dire che poi io ce l'abbia (sorride..., ndr)."

Ai di la' della musica ci sono altre discipline artistiche che ami particolarmente? e se si, perché?

"In realtà mi piacciono molto tutte le discipline artistiche, mi piace molto la danza, mi piace molto la pittura, il disegno, mi piace l'arte in generale, infatti soffro molto per la totale assenza di rispetto che c'è nei confronti dell'arte e della cultura in Italia. Mi piacerebbe saper disegnare, ma non ho un gran talento e non avrei nemmeno il tempo per potermi applicare. Mi piacciono molto anche le parole, mi piace molto... il suono delle parole... Le parole hanno un peso, dunque cerco di usarle per il peso che penso che abbiano e per il peso che gli do' io..."

[Non commento più di tanto ma... se seguite quello che faccio un po' mi conoscete, quindi potrete immaginare quanto mi abbia fatto un'immenso piacere sentire queste parole...]

Per chiudere... come descriveresti te stesso e come descriveresti i Funk Off...?

"Beh... io mi descrivo come uno che cerca di vivere per quanto può nella Musica e... di sicuro i Funk Off lo sanno... Cerco di esprimere le mie idee nella musica in maniera sincera, prendendomi dei rischi anche, cercando sempre di andare avanti, di fare sempre cose diverse rispetto a quelle che ho già fatto. Penso di essere una persona molto sensibile, ma anche perché... me lo dicono gli altri... credo si saper ascoltare, quindi cerco sempre – rispetto anche a quello che ti dicevo prima – di costruire un'armonia, cerco di avere il massimo dell'armonia attorno a me. A volte ci riesco e a volte no. Questo non vuol dire che poi non si arrivi talvolta anche a degli scontri, purtroppo succede... ("Beh... servono anche quelli..." commento io nel frattempo...). I Funk Off... come descriverli... mi ritengo una persona fortunata perché ho avuto un'idea e ho trovato quattordici persone che mi hanno seguito per realizzarla ed è una fortuna che non tutti hanno avuto. I Funk Off sono un gruppo che si basa sulla musica e sull'amicizia, su una forte aggregazione tra le persone che ne fanno parte e che sono in gran parte vissute insieme essendo undici di noi dello stesso paese; poi c'è Alessandro che da tanti anni abita a Vicchio e poi ci sono tre musicisti che vengono da Firenze, da Prato, da Montepulciano e sono i membri più recenti della band. Comunque sia i Funk Off sono un gruppo che si basa molto sui rapporti umani e questi rapporti umani, un po' per indole, un po' per come è nato il progetto, per come nascono i pezzi... si trasmettono con naturalezza nella musica stessa. E' un gruppo molto unito, nonostante sia fatto di persone molto diverse tra loro e dunque quando ci sono da prendere delle decisioni io dico sempre "cerco di scontentare tutti il meno possibile" perché accontentare tutti è impossibile."

Grazie Dario, per questo bell'incontro sul Cammino.



I prossimi Live:

24 aprile 2015 – a Latina (LT)
02 maggio 2015 – al Teatro Carrara, Carrara (MS)
16 maggio 2015 – al Vicenza Jazz Festival, Vincenza (VI)
17 maggio 2015 – al Teatro Thiene, Thiene (VI)
20 maggio 2015 – alla Casa del Jazz, Roma
29 maggio 2015 – a Novazzano (CH)

I Funk Off:
Dario Cecchini - sax baritono e direzione musicale
Paolo Bini, Mirco Rubegni ed Emiliano Bassi - tromba
Sergio Santelli e Tiziano Panchetti - sax alto
Andrea Pasi e Claudio Giovagnoli - sax tenore
Giacomo Bassi e Nicola Cipriani - sax baritono
Giordano Geroni - sousafono
Francesco Bassi - rullante e coordinatore sezione ritmica
Alessandro Suggelli - cassa
Luca Bassani - piatti
Daniele Bassi - percussioni leggere

domenica 11 gennaio 2015

George Gershwin: la genialità innata


George Gershwin nasce a Brooklyn nel settembre del 1898. Fin dal quando era piccolo, a soli dieci anni, comincia a mostrare interesse per la musica, inziando a suonare il pianoforte senza aver mai studiato musica, seguendo solo ciò che l'istinto lo portava a fare. Così è nato il suo genio musicale, da quel momento, in cui ha deciso di provare a premere quei tasti bianchi e neri che così tanto lo affascinavano. Forse era rimasto affascinato dal tentativo della sorella Francis di avere una carriera musicale. Frances aveva cominciato a guadagnare qualche soldo con il canto e il ballo, ma lasciò dopo non molto, perché al tempo ancora non era ben accetto che una donna, sposata, si dedicasse ad attività creative e ricreative. Fatto sta che il piccolo Gershwin, da quel momento, inizia a diventare... il grande Gershwin. La musica di Gershwin è conosciuta a milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Molte persone ascoltano un pezzo, ne restano incantati e magari non sanno che è suo e... magari non sanno che quel tal pezzo, reinterpretato come è spesso accaduto da miriadi di eccellenti artisti, è proprio suo, viene dal suo genio, perché di genio si tratta. Gershwin affermò che gli piaceva pensare alla musica come a una scienza emozionale; Gershwin compose, nella sua testa, la grande e famosissima “Rapsody in Blue” (1924), mentre ascoltava i ritmi e i rumori metallici del treno che lo stava portando a Boston. Quando la consegnò ai suoi collaboratori e colleghi, per lui ancora incompiuta, tutti si misero a lavoro e Ferde Grofé, compositore e orchestratore, si occupò subito dell'orchestrazione del brano. Lui... lui che voleva ultimarla, perfezionarla, immaginate il momento, tutti a lavoro perché l'opera fosse orchestrata al meglio e lui ancora lì, a ritoccare, a rivedere, a perfezionare. Il direttore d'orchestra, Paul Whiteman, a cui Gershwin aveva consegnato l'opera al suo arrivo però aveva dato il via alle prove e rimase allibito quando comprese che Gershwin avrebbe voluto migliorarla ulteriormente. Si domandava come avrebbe potuto, migliorare qualcosa di già così grandioso. L'opera dunque rimase come era stata consegnata al direttore ed è tuttora quella che la sua mente aveva composto, dall'inizio alla fine, durante un viaggio in treno per Boston. Riuscite a immaginare quel momento? Io ci provo, con tutte le forze, cerco di immaginare cosa gli passasse per la testa, sul treno, sceso dal treno, mentre si affannava per ritoccare il brano ed ultimarlo per come lo voleva lui. Quel momento, in cui i rumori metallici gli hanno dato l'ispirazione per creare un capolavoro di tale portata. Meraviglioso. Semplicemente meraviglioso. Andiamo avanti però... Gershwin che spazia dalla musica colta al jazz, fino al blues e al musical e Gershwin che diventa l'iniziatore, del musical americano. Gershwin che non nasce George, bensì Jacob e nasce da due emigrati ebrei: il padre, Moishe, cambiò il suo nome in Morris Gershwin qualche tempo dopo essere emigrato da San Pietroburgo e quattro anni più tardi conobbe Rose Bruskin, ebrea russa, che sposò e con la quale diede vita a quattro figli, tra i quali Jacop, appunto. Il nome, Jacob, lo cambiò quando divenne un musicista professionista (chissà perché? Era già un bel nome Jacob, forse a lui non "suonava" bene). Ha scritto la maggior parte delle sue opere vocali e teatrali in collaborazione con il fratello maggiore e paroliere Ira Gershwin. Gershwin... che nel 1928, nel periodo europeo, compone “Un americano a Parigi”, Gershwin che nel 1935 compone il musical “Porgy and Bess”... ed è qui, in realtà, che volevo arrivare. “Porgy and Bess” ebbe un grande successo, ma fu inizlamente percepita dalla comunità nera del tempo come un'opera offensiva, addirittura razzista. La descrizione della vita degli afro-americani che nell'opera appariva, non piacque per niente alle Black Panters in lotta per i diritti dei loro fratelli, ma fu tutta una grossa incomprensione sostanzialmente. Gershwin si era ispirato nella composizione dei brani per il musical a pezzi spiritual quali “All My Trials”, che negli anni '50 e '60 divenne uno degli inni dei movimenti di protesta; e si ispirò anche alla sua esperienza artistico-musicale così complessa, una fusione di tradizione operistica dell'Est europa, musica afro-americana, musica ebrea russa. “Summer time” - una ninna nanna che Clara, uno dei personaggi della celebre opera teatrale, canta al suo bambino - fu ispirata per esempio da diversi brani e sonorità: il sopra citato “All My Trials,” “Sometime I Feel Like a Motherless Child” (un brano che risale ai tempi della schiavitù, tempi in cui era pratica comune vendere i figli degli schiavi) e.... ninne nanne appunto: si parla in particolare di una ninna nanna russa e di un'altra ninna nanna, quest'ultima di origine ucraina. "Porgy and Bess" fu tratto dal racconto “Porgy” di Edwin DuBose Heyward, paroliere anch'esso dei testi insieme ad Ira. "Summertime" è certamente uno dei brani più famosi dell'intera opera e la cosa fenomenale non è solo che è stata interpretata da grandi talenti dela musica quali Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Billie Holiday, Chet Baker e Mahalia Jackson... Fu proprio Billie Holiday a portarla in classifica per la prima volta con la sua versione del 1936, ma ciò che risulta essere grandioso... è che la potenza di questo brano ha portato al concetto per il quale, al di la' dell'intento o del significato iniziale, un brano musicale possa assumere significati altrettanto grandiosi anche in epoche successive, molto più recenti e in riferimento a fatti storici completamente diversi. Parlo qui di Janis Joplin... che la urlava, con rabbia, al mondo intero, mentre la guerra del Vietnam esasperava i popoli coinvolti. La gridava al mondo, appena dopo l'assassinio di Martin Luther King e Kennedy, quando americani bianchi e neri, insieme, si scontravano la polizia in segno di protesta, mentre gli agenti del tempo intossicavano i manifestanti con il gas Mace sotto le telecamere di tutto il globo, mentre c'erano arresti per l'assalto alla Convenzione Democratica di Chicago, mentre i leader della protesta – in particolare - furono arrestati con le accuse pesantissime di incitazione alla violenza e cospirazione e assolti, quattro anni dopo, con la motivazione che erano stati violati i diritti di difesa. Summertime è stata tradotta in molte lingue ed anche in italiano dai Dalton – anche se a parer mio in questa versione perde purtroppo tutta la sua potenza e il significato del testo è parer mio violato e svuotato (con tutto il rispetto per i Dalton... di questi utlimi, se vi interessa sapere chi sono – vi segnalo un brano interessante. "Idea d'infinito", quello si che è un bel pezzo). Gershwin compose più di settecento brani, fino a che nel 1937 comiciò ad avvertire i sintomi di un tumore al cervello che lo portò alla morte lo stesso anno, dopo essersi accasciato al suolo sul set di The Glodwin Follies, un film del 1938 di cui stava curando le musiche. Morì al Cedars of Lebanon Hospital a seguito di un intervento di unrgenza. Pochi mesi dopo, il suo idolo, Joseph Maurice Ravel (compositore del celebre "Boléro, per intenderci), morì anchesso, durante un intervento simile al cervello. "Summertime". Vi propongo qui la versione originale di Jacob (mi piace poterli chiamare con il loro nome), la versione di Ella Fitzgerald e infine, la versione di Janis Joplin. Buon ascolto... e buona lettura della traduzione - scritta poco fa - che spero renda giustizia all'intensità del testo originale.


Summertime (Estate)

Estate...
e la vita è semplice,
i pesci saltano
e il cotone è alto.

Tuo padre è ricco,
Tua madre ti guarda con amore,
quindi silenzio, piccolino,
non piangere.

Uno di questi giorni
Ti sveglierai cantando,
poi spiegherai le ali
e ti guadagnerai il cielo.‎

Fino a quella mattina però,
nulla potrà farti del male,
con la tua mamma... e il tuo papà.