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giovedì 1 marzo 2018

L'omicidio Joplin



Janis, la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis, quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se ballava libera sul palco, ma giù dal palco poi era un'altra storia. Janis, intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con lei non c’entrava niente anche se in modo diverso rispetto alla città che la circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o forse, si, forse solo per carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno, ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere dentro di se la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro, come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni – scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato, storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta “abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano. Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno di questo gruppo di casinisti ed era proprio lei la più caotica. Non aveva nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo, facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta. Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università però iniziò a cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus). Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande intelligenza, si illuminò di fronte a lui la sua mente brillante, nascosta sotto strati di trascuratezza e tutto ciò lo fece innamorare. Si fermarono anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore, finalmente arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito dopo Chet la portò ad esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale – con quattro brani cantati a cappella – ricevette un’ovazione esplosiva da parte del pubblico, racimolando anche qualche soldo. Janis iniziò poi una relazione con una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet, con il quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk, che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers, con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo, i Big Brothers, cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi leggendario, l’ “Avalon Ballroom”  e fu lì che Janis iniziò ad esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother & The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò, Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad aumentare, poiché ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce della giovane artista. Nel ’67 infine ebbero la loro grande occasione. Si esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì, di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo, partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero sentire e ad un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per prendere strade diverse e lei decise di continuare come solista. Nel ’69 iniziò a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues, ma il loro concerto a Memphis fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli, proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star, realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo ed anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più, sempre di più, perché la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a qualcuno, per lei, c’era qualcosa di sbagliato in quel che faceva. Una cosa assurda naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock. Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di se. Di ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e dopo la puntata, si diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe anche la modella ed attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol e la loro cameriera, per quanto possa sembrare strano a dirsi, fu la futura Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi con i Big Brother, che nonostante tutto la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti). L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea completamente fuori di testa, senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di “Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70, Janis morì di overdose, a soli ventisette anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei brani, “Buried Alive”. Si, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico, la sua musica, restò nell’eternità.

Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa e la sua musica è rimasta nella storia e nella storia resterà per sempre, eppure anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha saputo ribellarsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a ribellarsi nel modo giusto, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde, per un buio dal quale non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità, con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il futuro sia creato dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - meraviglioso oceano chiamato mondo.


"E ogni volta ripetevo a me stessa che non potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue braccia, lo canto ancora una volta."


martedì 1 dicembre 2015

Enrico Mantovani: la musica che si vede


Ernico Mantovani. Venerdì 26 Settembre ho assistito, non per la prima volta, ad uno dei suoi magnifici, emozionanti e sempre unici concerti (a "La Taverna delle Fate Ignoranti" di Quinzano d'Oglio (Bs), un luogo delizioso). Enrico Mantovani è un "OneManBand", perché definirlo "solo" un chitarrista di talento è poco; non a caso "OneManBand" è il suo biglietto da visita e quando lo senti suonare, quando lo vedi suonare e le emozioni si trasformano in musica, percepisci che le melodie, le armonie, il ritmo, diventano colori, temperatura, immagine, suono percepibile al tatto ed allora comprendi perché Enrico Mantovani non è "solo" un chitarrista di talento e a quel punto non è più necessario spiegare perché il suo biglietto da visita è "OneManBand"; però ve lo spiego, perché molti di voi magari non l'avranno ancora mai sentito nonostante giri in lungo e in largo l'Italia (come invece alcuni già adoreranno il suo sound). Al di la' di questo, mi capita spesso di partire dalle emozioni quando parlo di un talento, perché la differenza tra un "bravo musicista" e un "musicista di talento" sta nell'anima, nella grinta, in quel che arriva alle persone. È così per tutte le discipline artistiche, naturalmente a parer mio. Enrico Mantovani è un artista bresciano, polistrumentista, ma la chitarra è nel suo nome. Vive a Orzinuovi ed ha collaborato con grandi artisti quali il cantautore Massimo Bubola, Giorgio Cordini i più noti (al grande pubblico si intende) Massimo Ranieri, Francesco Renga, Eugenio Finardi... ed ha suonato anche con Alex Britti (spero vi sia capitato di sentire una volta almeno il Britti blues), Gianna Nannini, Fausto Leali e molti altri. Le ho scritte, le collaborazioni, perché è giusto, per far capire a chi non dovesse conoscerlo che di cose ne ha fatte e pure tante (e non solo queste, poi ci arriviamo), ma il mio intento non è parlare dei nomi con cui Enrico Mantovani ha collaborato; il mio intento è parlare di Enrico Mantovani, un musicista come pochi, della musica che si vede, dunque, delle infinite sfumature dell'arte.

Enrico Mantovani chi è? E poi... è abbastanza classico chiederlo, ma è sempre interessante per capire di più: come hai iniziato a suonare, quando, cosa ti ha spinto a imbracciare la chitarra?

"Direi che la mia fortuna è stata di iniziare molto giovane, con mio padre quando avevo sedici, quindici anni e già suonavo il blues e i pezzi degli Stones insieme al mio amico Riccardo Maffoni... ho iniziato con mio padre, dicevo, scriveva canzoni e racconti brevi ed era il mio consigliere su libri e dischi che mi hanno poi accompagnato fino ad oggi; mi sono subito reso conto, sin da adolescente, che non era solo una questione di “musica“, ma anche di parole, di pensieri e di poesia. La chitarra ok, saper suonare ok... mi veniva facile e spontaneo... ma sentivo che la magia vera erano le storie che le canzoni mi raccontavano... Così, assieme a mio padre, iniziai a suonare la chitarra nei suoi spettacoli sulla seconda guerra mondiale, sui partigiani, sulle storie dei partigiani nella nostra pianura e l'ultimo spettacolo si intitolava proprio "Novecento" e... sia i libri che le sue canzoni parlavano sempre di queste vicende e di storie che abbiamo dietro l'angolo, che risalgono a cinquanta, sessant'anni fa, non è un tempo poi così lontano. Del resto un piede nel novecento ce l’ho avuto anche io: da piccolo si passavano giornate intere in cascina, a giocare sui fienili, a contatto con gli animali, ci tuffavamo nei fossi e di sera, dopo cena, spesso mio padre imbracciava la chitarra e cantava canzoni di Nanni Svampa e di altri cantastorie. Più che la musica in se, sono le canzoni che mi hanno affascinato sin da piccolo."

Hai tanti progetti in corso: i meravigliosi Matmata, i concerti "OneManBand", la collaborazione costante con il grande Bubola ed altre collaborazioni. Raccontami un po' cosa stai combinando.

"Beh… con Massimo Bubola ho avuto la fortuna di partecipare ad un percorso sulla Prima Guerra mondiale, sulla Grande Guerra, che mi ha dato modo di rivedere la storia dell' Italia e degli italiani negli ultimi duecento anni; un lavoro a ritroso nel tempo, con brani e melodie popolari di fine ottocento e anche più antiche che hanno resistito fino ai giorni nostri. Massimo ha fatto il primo disco sulla guerra nel 2004, "Quel lungo treno", il secondo nel 2013, "Il testamento del capitano" e l' anno prossimo dovrebbe uscire il terzo; una trilogia con brani degli alpini e canti popolari riarrangiati in chiave folk e rock; tratti da una letteratura popolare e contadina, questi brani vanno a comporre parte della musica detta "poplare", che è quel tracciato dal quale nessun musicista dovrebbe mai discostarsi troppo secondo me. Purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura che ad esempio è molto radicata in Irlanda, dove i nonni suonano con i nipoti e tutti conoscono un repertorio di duecento, trecento canzoni folk... e lo stesso vale anche per gli americani e sicuramente per molti atri popoli.

Un incontro raro e fortunato è stato poi quello con i Matmata; mentre con Bubola, con Massimo Ranieri, con Giorgio Cordini e altri ero maturato come musicista o come turnista, imparando a fare questo mestiere, con i Matmata c’è stato un’incontro tra musicisti maturi e già più consapevoli, grazie ai quali ho scoperto il valore della "Band", trovarsi tutti i giorni, suonare insieme più volte alla settimana per il piacere di suonare e per la volontà di creare un groove comune, un sound, un feeling, lavorando sui pezzi che Gianmario continua a creare ancora oggi con grande abilità. Infine nei Matmata ho trovato una famiglia; non è un lavoro da "turnista", è un lavoro con la tua band, coi tuoi amici, coi quali si condividono tantissimi momenti di vita, al di la' della musica…. è stato davvero magico incontrarli."

Per me che ho assistito più volte a tuoi live, con i Matmata e come OneManBand, sapendo quante emozioni, diversificate, trasmetti, mi viene istintivo chiederti: in quei momenti, sul palco, cosa provi, cosa pensi, cosa senti tu, cosa ti passa per la testa?

"Quando suoni.... non pensi a niente, suoni e basta; la musica ce l'hai nel cervello e nel cuore, è li che ti gira attorno, come fanno gli avvoltoi, come una giostra con tante lucine e tu sai già quali vanno accese e quali spente, senza pensarci.... suonare mi fa stare mezzo metro sopra terra, è una droga, la droga più bella e sana che esista e il concerto, il live, è il vero motivo per cui ho imparato a suonare e per cui, grazie al Cielo, continuo a suonare."

Hai fondato nel 2013 l'Accademia di Musica Hendrix (cliccate, cliccate ragazzi). Com'è nato questo progetto e come lo senti? Qual è il contesto?

"L'Accademia... mmmm…... Non credo moltissimo nelle scuole di musica, credo che all'uomo siano più utili i corsi di cucito o di giardinaggio. Le scuole di musica quando io avevo quindici anni non esistevano, o quasi; c'era qualche insegnante che dava lezioni private e se volevi suonare dovevi essere davvero portato, perché dovevi imparare ascoltando i dischi in vinile o la radio, quindi dovevi avere orecchio ed essere molto svelto nel capire le note da riportare sullo strumento. Oggi invece, forse anche a causa dei "talent", molta più gente vuole fare musica, ma siccome da sola non ci riesce, nemmeno con i video di youtube, si rifugia nelle accademie di musica. L’accademia comunque l’ho aperta per portare un po' di fermento sul territorio dove sono nato e dove ho sempre vissuto, sperando di imbattermi in qualche talentuoso futuro musicista."

Ora ti faccio una delle mie domande strane. Altre volte ho fatto questa domanda perché è per me parte dell' "andare oltre" e potrebbe sembrare una domanda semplice, ma non lo è affatto. Di che colore è secondo te la tua musica? E la tua anima? Combaciano?

"Mi piace suonare con le luci blu... e poi il blu è indubbiamente blues..."

Hai un pezzo che su tutti, per te, è il migliore?

"Beh, un brano è troppo poco, ne amo troppi, ma tra i miei artisti preferiti spiccano Bob Dylan e i Rolling Stones. Il resto è tutto sotto."

La tua parola preferita... (Enrico qui è favolosamente indeciso, ma poi la prima parola che gli viene in mente è...)

"Grembo."

Ecco qui, Enrico Mantovani. Penso non ci sia altro da aggiungere se non che, come ho detto anche a lui, una delle cose che lo rende più speciale è che non si rende conto davvero di quanto è raro.

Grazie infinite Enrico.

Link:

giovedì 9 aprile 2015

Frank Zappa: il funambolo danzante attorno a un fuoco


Frank Zappa... americano, origini siciliane da parte del padre, un po' di sangue francese e un altro po' di italiano dalla madre, americana di origini appena citate. Sangue misto, meticcio, favolosamente meticcio. Che c'entra il sangue meticcio? nulla. Ho collegato questo dato di fatto genetico solo perché lui era un gran meticcio musicale, nel senso più ispirato del termine ovviamente. Frank Zappa, come si fa a scrivere di Frank Zappa... potrò esserne all'altezza? me lo chiedo sempre prima di scrivere di qualcosa o qualcuno di grandioso. "Non ho alcuna convinzione per come è intesa dalla gente del mio secolo. [...] Solo i briganti sono convinti - di che? - di dover riuscire. Così riescono. [...]. Tuttavia ho qualche convinzione, in senso più elevato, e che non può essere capita dalla gente del mio tempo" (Charles... quanto lo adoro...). In effetti... c'è così tanto da dire... e so che molti di coloro che leggeranno sapranno benissimo di chi si parla, ma so anche che purtroppo troppe persone, così come per altri grandi, geniali musicisti, di un tempo non lontano da noi (o a volte si, ma l'arte non può essere storicizzata, "non per come lo intendono gli uomini del nostro tempo")... potrebbero averlo sentito nominare molte volte senza pensare chi fosse e cosa facesse, potrebbero aver visto il suo volto - ed è un volto che ti rimane nel cervello a vita, quando lo vedi, per come la vedo io - senza sapere nulla, nulla di lui. La cosa triste è proprio questa. In Italia c'è una non cultura così diffusa da far star male chi la musica la ama, la vive, sa come funzionano le cose e perché. Pur essendo un dato di fatto, che è così, che tanta gente se ne frega, non si pone il problema, come non se lo pone per la mancanza di rispetto assoluta per l'arte tutta, anche se lo so, è più forte di me, non lo accetterò mai e continuerò a sognare che le cose cambino e che anche piccole gocce in un oceano di persone, a loro modo, possano fare del loro meglio perché questo accada; e se anche così non fosse, signore, signori, ragazzi e ragazze, questo è "Il cammino" ed è così; lo faccio, perché è una vocazione e se anche solo una delle persone che legge, anche per caso, uno dei miei articoli, scopre qualcosa che non conosceva e va oltre, per me quella goccia sarà un oceano e io sarò sempre una goccia, ma avrò fatto qualcosa di buono. Sto divagando da Frank Zappa? si, anche; ma è anche questo che amo della scrittura. Si può parlare di qualcosa e a un certo punto può sembrare che si parli d'altro, ma in realtà non è così perché c'entra eccome. C'entra Frank Zappa, perché c'entra la musica, c'entrano le parole, c'entra l'arte, c'entra il mondo, c'entrano le persone, c'entra tutto... ed io sto scrivendo dunque... scrivo. Nato nel dicembre 1940 a Baltimora, chitarrista, compositore, interprete, produttore discografico, direttore d'orchestra e arrangiatore. Note biografiche, come per "il sangue misto". Queste cose però potete cercavele anche da soli, giusto? allora stavolta le evito totalmente. Parliamo d'altro. Parliamo del perché, Frank Zappa, è considerato un genio della musica. Una persona che non ne sa nulla, lo guarda, ascolta un pezzo, il primo o il secondo che trova su you tube, si fa l'idea che abbia fatto rock, rock blues ecc ecc, magari gli piace oppure no, magari approfondisce... oppure no. In realtà Frank Zappa non è stato solo un cantautore rock. Ha fatto di tutto e di più! e spesso non se ne parla, nei così detti "speciali" in tv o sui giornali musicali. Frank Zappa è passato dal rock al rock blues, dal jazz alla fusion, dalla musica classica al cabaret fino alla satira. I suoi testi sono sempre stati "nudi e crudi"; era volontariamente esagerato, tanto crudo in molti casi da non essere immediatamente colto da gran parte del pubblico del suo tempo e come spesso accade, compreso in seguito. Un'altra cosa che chi non lo conosce può pensare è che come molti rocker storici... beh... siate sinceri, voi che state leggendo e non lo conoscete, guardate il suo volto, collegate le vostre impressioni, le impressioni classiche di quando "non si sa", niente di che, solo che non si sa... pensereste che come molti grandi del rock la sua vita andasse a braccetto con le droghe e invece, guarda un po'! ci sono artisti, anche italiani, della storia musicale italiana, che ne hanno fatte di tutti i colori e "non si dice" chissà perché e ci sono persone che si basano sulle impressioni quando non conoscono, che si tratti di artisti italiani o stranieri; il che è abbastanza irritante dal mio punto di vista. Comunque sia, certo non era un santo Frank, ma per quanto riguarda le droghe, se tra i suoi musicisti trovava qualcuno che ne faceva uso lo cacciava immediatamente, provava repulsione verso la droga. Era strano, qualcuno parla di scarsa igiene e ci sono quasi comici aneddoti su accuse ricevute e poi decadute, ma in sostanza... Vi basti sapere che fu un perenne un funambolo; un funambolo spericolato e consapevole, che si spostava avanti e indietro e saltellava di qui e di la' sulla sua bella corda ad alta quota, immaginate, la corda meravigliosa del teatro dell'assurdo e del jazz, iper protagonista ed iper creativo, fu come se danzasse attorno a un fuoco, alimentato da una positiva anarchia musicale per la quale ogni genere ha fatto parte delle sue composizioni. Meravigliosamente folle, professionalmente impeccabile, preparatissimo, contaminato nelle ispirazioni da miriadi di sfumature e riferimenti diversi, geniale. Mi ha colpito leggere di un concerto dell'82, nel quale fece installare un allora ancora poco diffuso megaschermo sul quale fu proiettata una partita di calcio; la sua spiegazione al pubblico prima di iniziare fu: "Chi non capisce un tubo della musica che faccio può tranquillamente guardarsi le partite... così non ha buttato i soldi del biglietto". "Does Humor Belong in Music?". Oh si che può, Zappa ne era un maestro e questo è il titolo di un suo live album e di un tour, con grandiosi musicisti naturalmente, del quale vi propongo sotto un video, in particolare qui si tratta dello storico "Live At The Pier" e del brano "Keep it greasey". Come scrissi in un post sulla pagina fb de "Il cammino", dopo un minuto e trenta secondi dall'inizio di questo video, sul finire di "Bobby Brown" e collegando simpaticamente i due pezzi, Frank Zappa annuncia: " Watch me now because the name of this song is "Keep it greasey". Si tratta di un brano che fa parte di un concept album suddiviso in tre atti, pubblicato nel '79 e che narra le avventure e le disavventure del protagonista Joe. Nel caso di "Keep it greasey", Joe è prigione da un po' e Zappa ne narra le disavventure... come parlare di una realtà terribile, trasmettere un messaggio forte e riderci pure sopra? Presto detto, "Keep it greasey".


giovedì 26 febbraio 2015

Il meraviglioso mondo di Lisa Marie Simmons e degli Hippie Tendencies


Stasera si parla di "Hippie Tendencies". Non di "tendenze hippie" in senso letterale ne di concetto "hippie" di per se. "Hippie Tendencies" è una band che ha l'intento di riflettere nella propria musica valori in cui crede quali, citando la loro biografia "soluzioni pacifiche ai problemi globali, l'energia sostenibile e l'accettazione delle differenze religiose, culturali e sessuali". La band nasce nel 2006 e si forma dall'incontro di quattro musicisti italiani con una cantautrice americana. Marco Cremaschini al piano, Cesare Valbusa alla batteria, Massimo Saviola al basso elettrico, Christian Codenotti alla chitarra acustica e voce e Lisa Marie Simmons, voce portante, autrice dei testi e co - compositrice. Le melodie e i ritmi spaziano da pezzi quali "Wana Wa Africa", che già dal titolo e fin dalle prime note e ritmiche ricorda la grande terra, a pezzi funky/pop, divententi e solari come "Poppy Rock" fino alle sfumature soul/blues di "Shame on You" e alla malinconia di "The Trees", per citare alcuni pezzi che possono rendere l'idea delle molteplici influenze del progetto. I testi hanno approcci diversi e tematiche anche molto distanti tra loro, dal tema dell' immigrazione alla "poca voglia di stare zitti di fronte a certe cose", fino a sentimenti di solitudine - provati nel mezzo di una folla davanti alla quale qualcuno sorride chiedendosene un po' il motivo e dunque... anche l'espressione del desiderio di incrociare una mano tesa. Si parla di ingiustizie, delle logiche del potere e della brama di denaro, mascherate, anche se non così tanto, ma anche di risvegli, prese di coscienza, le domande sull'esistenza che ogni essere umano si fa o potrebbe farsi; si giunge poi a temi pesanti, quali l'orrore degli abusi sui minori e si torna all'allegria con pezzi quali appunto "Poppy rock" in cui in sotanza Lisa si chiede a gran voce "ma perché devi per forza etichettare la mia musica?". Per quanto riguarda i loro album, i tour in Europa e in America, le informazioni più classiche, vi rimando alla loro pagina fb e al loro sito. Ora, l'intento è quello di  parlare con Lisa, il caldo timbro, il centro attorno al quale si crea il mondo degli Hippie Tendencies.

- Lisa dolce Lisa... qualche giorno fa ho visto il video di una tua intervista del 2009 a "Luci della città". Mi ha colpito moltissimo la tua dolcezza, la gioia che si percecisce nel tuo sguardo, il modo in cui parli della musica e dei tuoi ricordi legati ad essa... Parlavi del Colorado, in cui sei nata e nel quale ti sei avvicinata alla musica grazie alla passione di tuo padre e di tuo nonno, un batterista jazz... parlavi del suo locale e dell'ambiente in cui sei cresciuta, con la musica attorno fin da piccolissima... Una meraviglia insomma. Poi il tuo lungo percorso girando per il mondo seguendo sempre, costantemente, la musica. Dal Colorado a New York, dall'Olanda alla Francia fino ai Caraibi e poi l'Italia, che a quanto pare... ti ha rubato il cuore. A proposito di questo, del fatto che qui hai deciso di mettere radici... cosa ti ha colpito così tanto da farti scegliere di fermarti proprio qui, dopo tutti i posti meravigliosi in cui avevi vissuto?

Io amo l'Italia profondamente. Ho cantato in ogni regione, tranne la Sardegna e ho sempre trovato in ogni luogo qualcosa di grande valore. Adoro la realtà per la quale a pochi chilometri da un posto all'altro si possono trovare dialetti diversi e piatti tipici differenti, una cultura unica per ogni luogo. Come in ogni luogo in cui ho vissuto ci sono paradossi. Ci sono cose bellissime, l'antica cultura italiana, l'arte, il cibo, il vino, la bellezza dei paesaggi. Comunque... in ogni posto c'è del bello e del brutto. Tuttavia mi sento a casa qui, c'è un vasto mare di talento artistico in questo Paese e... questo talento, unito a tutte le altre sfaccettature, mi piacciono un sacco e tutto combina per me come un' ispirazione giornaliera, quoditiana. E poi... io sono innamorata di un italiano e i musicisti che formano la mia band sono italiani; siamo diventati davvero una famiglia. Per il momento continuo ad essere ispirata e produttiva musicalmente stando, poi ... se questo dovesse cambiare mi sposterò di nuovo!

- Hippie Tendencies. Il primo album è uscito nel 2010 e porta il vostro nome, il secondo album invece, "Identity", è uscito nel maggio 2014. Da quando hai iniziato questa esperienza con gli Hippie Tendencies, avete attraversato generi musicali d'ogni sorta e tu sei sempre stata l'autrice dei testi. Ho ascoltato pezzi del primo album e del secondo e c'è veramente "una zuppa" - come la chiamavi tu nell'intervista sopracitata - di musiche ed emozioni. Una zuppa delle più buone e sane aggiungo io, è fantastico il tuo paragone con la zuppa perché relazionato alla vostra musica mi fa immaginare veramente una zuppa di quelle che già solo a guardarle ti dicono "mangiami", insomma, è vero, non è come in molti casi in cui ho sentito dire "il nostro gruppo è pieno di generi, è pieno di questo o quello" e poi ascoltando a volte ti dici "ma sono sicuri?". A parte gli scherzi, hai dei musicisti bravissimi e tu sei come un fiore attorno al quale loro girano incantati. Questa è l'impressione che ho, nell'ascolto dei pezzi e sopratutto vedendo i video dei live. Allo stesso tempo, sembra che tra voi ci sia un feeling incredibile, palpabile e che tutti voi siate legati da un filo, l'uno per l'altra. Parlaci di come si sono incrociati i vostri percorsi, di come è iniziato tutto e soprattutto... quando si parla di musica e delle emozioni che ci da' è difficile dare una spiegazione, ma ... proviamoci... come "ti spieghi" tutto questo, come si è creato questo filo, come si è creata questa "zuppa" di emozioni? Penso sia una delle più belle sensazioni da poter sentir descrivere, per me che te lo chiedo e per chi leggerà...

Ho incontrato il pianista Marco Cremaschini quando sono andata da lui per migliorare le mie capacità al pianoforte. Ero frustrata, perché le canzoni che sentivo nella mia testa non riuscivano ad uscivare delle mie dita. Mi sono seduta al suo pianoforte e cantavo, mentre suonavo un paio di canzoni... e mi ha detto: “Mi piace il tuo stile, cerchiamo di mettere insieme una band?”. Così, all'improvviso, è stata la prima cosa che mi ha detto dopo avermi ascoltata. Irresistibile! Mi ha detto che il mio stile andava proprio nella stessa direzione in cui lui e un suo amico bassista si stavano avventurando. La mia prima impressione su di lui è stata altrettanto positiva. Ho pensato che fosse divertente, profondo, gentile e intelligente e sono stata immediatamente attratta dalla sua maestria incredibile con il piano; mi ha subito colpito quanto fosse delicato e allo stesso tempo potente. Il giorno dopo ho chiamato il mio amico Filippo De Paoli (oggi membro dei Plan de Fuga) e gli ho parlato del progetto, chiedendogli se volesse partecipare. Marco ha chiamato Massimo Saviola e Cesare Valbusa e insomma... abbiamo riscotrato un feeling immediato e e abbiamo scritto la nostra prima canzone insieme ("Feel No Pain") nel giro di una settimana. Poi Filippo, che è un grande frontman, ha deciso di dedicare il suo tempo ai "Plan de Fuga", un progetto che stava decollando e, quando lui ha deciso di dedicarsi a questo, abbiamo incontrato Christian Codenotti . Christian è il sound engineer del primo album (e anche del secondo) e anche con lui abbiamo subito sentito un grande feeling, durante la registrazione e il mixaggio dell'album. Si percepiva il suo amore per il progetto ed è stato davvero naturale, spontaneo, chiedergli di unirsi a noi. Per quanto riguarda la nostra chimica... chi... può spiegare questo? Anche se ognuno di noi proveniene da diversi mondi musicali, in un modo che non so spiegare, quando scriviamo insieme, tutte le diverse esperienze si fondono dando vita ad un suono originale ed organico. Abbiamo un grande rispetto l'uno per gli altri e anche questo, sul palco, nei live, si vede, si sente…In più, per così dire, siamo tutti "animali del palco", amiamo il nostro lavoro ed è essenziale per ognuno di noi comunicare al pubblico la profondità delle nostre emozioni, l'essenza che abbiamo cercato durante la scrittura e la composizione di ogni singolo pezzo. L'essere stati in tour insieme in Europa e in America poi, ha certamente contribuito anche al consolidamento del nostro sound e della nostra resa sul palco.

- Parlando del tuo amore per la scrittura... ti piace scrivere anche testi che non siano canzoni, magari prose, poesie o altro? e... le tue letture? quali sono i tuoi autori preferiti parlando di letteratura e/o poesia?

Io sono affascinata dalle parole e dalla forza insita in loro. Sì, io scrivo anche poesie e spoken word. Se ne può trovare alcuni esempi sul sito internet "AllPoetry" con lo pseudonimo "Limarie". Una mia poesia, "Hair" è stata pubblicata in Sud Africa in una raccolta di poesie chiamata "The Long and the Short of it".

L'elenco dei poeti - e ci tengo a precisare che per me molti cantautori sono poeti - e scrittori che ammiro è infinito. Alcune delle mie prime influenze sono state Alice Walker, Maya Angelou, Toni Morrison, C.S. Lewis, Tom Robbins, Tom Wolfe, Isabel Allende, Ani Di Franco, Bob Dylan, Joni Mitchell, James Taylor, Gabriel Garcia Marquez, Angela Davis, Nina Simone, Paul Simon, Stevie Nicks, David Bowie, Gil Scott-Heron, Walt Whitman, Richard Wright, F. Scott Fitzgerald, James Baldwin, James Joyce, Flann O’Brien, Emile Zola, etc. etc. etc. Parlando invece di autori contemporanei direi Dave Mathews, Karen Joy Fowler, Donna Tartt, Anthony Doerr, Zadie Smith, Jonathan Franzen, Jeffrey Eugenides, Dave Eggers, Leonard Cohen, Jonathan Safran Foer e molti molti altri!

- Il cd che hai inciso da piccola, quello che ti ha fatto dire "questo è ciò che voglio fare". Raccontaci qualcosa di questo, in sostanza è stato il momento decisivo, quello che ti ha tolto ogni possibile dubbio no? un passaggio fondamentale per te... L'album su cui ho cantato da piccola era un coro di bambini di cui facevo parte e per me è stato un onore poter avere un assolo tutto mio in quel contesto e.. si, quel momento, così come la mia prima volta sul palco, di certo è stato un momento cruciale. E' stato allora che ho scoperto quanto per me fosse naturale il dediderio di comunicare il messaggio delle canzoni al pubblico. Il rapporto, lo scambio incredibile che si crea tra il performer e il pubblico mi ha incantato. Anche se per un po' sono stata indecisa tra recitazione e canto, dentro di me sapevo che in ogni caso avrei lavorato con le parole, amavo stare sul palco e adoravo il potere curativo della musica.

A casa mio padre ascoltava molto jazz e mia madre ascoltava musica folk americana, così le influenze sono state varie. Mia madre ci leggeva libri e passavo la maggior parte delle serate così, con l'infiammarsi dell'immaginazione, amando sempre più le parole e spesso, tutti riuniti cantavamo i pezzi gli album dei miei genitori, imparando e analizzando ogni parola dei testi.

- Ora siete in tour con il nuovo album... le ultime novità riportano un live il 5 Marzo in Austria, il 13 Marzo a Verona, poi di nuovo all'estero il 09 e il 10 maggio a Chicago e così via... (tutte le date e i dettagli sul sito - ndr). Siete delle trottole insomma, cosa ti piace di più dei vostri viaggi, al di la' del live che andate a fare, parlo proprio del viaggio in se, tu e i tuoi musicisti verso mete sempre così diverse l'una dall'altra.

Beh, una volta mentre eravamo in partenza per un tour in Italia e in Francia, Marco ha detto: “Eccoci qui! andiamo verso un'altra avventura!” Questo è esattamente lo spirito dei nostri viaggi, sono una meravigliosa avventura senza fine. Non si sa mai cosa troveremo, anche parlando del pubblico; ogni pubblico è diverso e rende ogni concerto differente, tenendolo il live sempre fresco ed emozionante.

Visto che siamo, come ho detto, un po 'come una famiglia, passare del tempo sulla strada insieme assomiglia proprio a ciò che succede in una famiglia appunto; ci facciamo un sacco di scherzi, litighiamo e poi facciamo la pace, ci godiamo il paesaggio che attraversiamo, il cibo, la gente. Amo scrivere mentre siamo in viaggio, alcuni dei nostri pezzi sono nati proprio in questo modo. "Woke Ui" è stato scritto, in sostanza, a partire da un'idea di Massimo che abbiamo sviluppato dopo un concerto a Firenze seduti ai bordi del palco del teatro vuoto.. Assolutamente, il fuoco della nuova idea, molto spesso è alimentato da un' esperienza avuta on the road.

- Avete avuto grandi, eccellenti soddisfazioni, questo è certo ma... visto che sappiamo qual è... cosa pensi della situazione discografica italiana?

In generale vivere di musica è straordinariamente difficile e richiede una quantità enorme di energia e convinzione. Il business della musica è cambiato in tutto il mondo, con l'avanzamento della tecnologia e di internet, sotto certi aspetti in modo positivo e sotto altri punti di vista in modo molto meno costruttivo. Ci sono molto più musicisti rispetto a un tempo e in Italia, come in altri paesi, c'è un monopolio su ciò che le stazioni radiofoniche scelgono di trasmettere. Il pubblico è sottovalutato e molte Major credono che le persone richiedano poca sostanza; quello che arriva alle masse non si avvicina minimamente a rappresentare il vasto numero di belle canzoni e bravi musicisti che ci sono in Italia e nel mondo di oggi. Noi abbiamo la fortuna di essere con l'etichetta indie Alfa Music, che ci rispetta e promuove la nostra musica senza cercare di etichettarci in nessun modo.

- Un ultima domanda, pura curiosità... stai già scrivendo altri pezzi? e "Identity", dal tuo punto di vista, cosa pensi abbia in comune con il primo album "Hippie Tendencies" e cosa invece pensi ci sia di particolarmente diverso... Ma certo! Scrivo sempre! Mentre stavamo scrivendo e registrando "Identity” ho scritto anche un altro album via skype con i miei amici Lisa Bell e Bob Story, intitolato "The ItalianProject". I ragazzi della band hanno partecipato anche a quel progetto e Lisa Bell tornerà in Italia questa estate e presentiamo alcuni di questi brani insieme a noi. Ho anche un progetto parallelo con mio fratello, un grande cantante... e non lo dico solo da sorella orgogliosa, è la verità! Mio fratello si chiama Miles Simmons e il progetto è "The Downbeat Trio". Sto scrivendo canzoni per questo progetto, così come scrivo e collaboro anche con il suo altro progetto, la " Miles Simmons e The Granny Says Band", con favolosi musicisti Simone Boffa, Henry Sauda, Arcangelo “Arki” Buelli, e Giorgio Marcelli

E poi ancora, Marco ed io abbiamo un altro progetto del quale siamo molto entusiasti; è di un genere completamente diverso risetto agli "Hippie Tendencies". Si incentra su "spoken word" con musica. Poi scrivo per altri cantanti e naturalmente sto scrivendo anche nuovi pezzi per gli HT. Seguendoci su Facebook o tenendo d'occhio il nostro sito, si può sapere naturalmente, riguardo a tutti i progetti in corso e al loro sviluppo.

Per quanto riguarda le differenze e i punti in comune tra i due album... direi che “Identity” riflette la nostra crescita come musicisti e come band ed è forse più sofisticato in qualche modo rispetto al primo album. Il punto in comune più evidente invece, riguarda certamente le tematiche, quello che vorremmo trasmettere e il nostro approccio rispetto a questioni delicate. Poi beh... naturalmente lascio al pubblico il giudizio finale!

Grazie Lisa per averci presentato il tuo mondo e i migliori auguri per tutto!

lunedì 14 luglio 2014

Andy Fluon: "L'arte è un flusso cosmico"



Andy Fluon... Non ha bisogno di presentazioni e anche se qualcuno di voi non lo conoscesse credo che... beh, leggete questa intervista e molto probabilmente vi verrà voglia di scoprire qualcosa di più. Andy, per quel che l'ho potuto conoscere, è prima di ogni cosa una persona meravigliosa, una persona estremamente profonda, gentile, disponibile, generosa e umile. Un talento incredibile, un musicista fanstastico e un pittore eccezionale. Andy è una persona che ho cominciato a seguire all'età di dodici anni e il suo approccio alla musica, al palco, mi ha stregato fin da subito. Andy, è una persona di cui ho seguito il percorso pittorico quadro per quadro, applicazione per applicazione e progetto per progetto; prima trammite la rete e poi anche vedendo alcune delle sue opere dal vivo e rimanendo ad ogni suo lavoro con gli occhi spalancati per la gioia e la vitalità, perché è questo che trasmette. Trasmette energia, vita, vitalità. Andy Fluon non ha bisogno di presentazioni, per questo ho pensato di introdurre la lettura della nostra chiacchierata dicendovi quel che è per me: un artista unico e una persona autentica.

Dunque Andy... partiamo da un evento recente che mi ha colpito. A maggio sei stato all'anniversario per il primo anno dell' "Acciuga Restaurant" (link video, ndr) di Londra dove erano esposti i tuoi dipinti e mi è piaciuto molto il discorso che ha fatto Guglielmo Arnulfo (Head Chef, ndr) riguardo all'unione di discipline artistiche così diverse come la cucina e l'arte pittorica ad esempio... Tra l'altro tu una volta mi dicesti che la cucina è una delle arti che ami di più al di la' dell'arte visiva e della musica...

"Beh a parte il discorso che ha fatto Guglielmo che chiaramente è il coadiuvautore di questo progetto che mi sta portando a Londra, il grande onore per me è stato quello di essere recensito da un'enormità della critica d'arte quale è Lucie Smith..."

Eh esatto te lo stavo per chiedere... era proprio il punto della mia domanda...

"... lui è assolutamente introvabile, cioè... non c'è un corrispondente in Italia per quel tipo di personalità..."

Che sensazione da' sentirsi dire che le tue opere rispecchiano lo spirito italiano nella sua migliore forma? deve essere stato... pazzesco no?

"Sentirsi dire da un colosso della scrittura della storia dell'arte che porto a Londra, in un luogo di condivisione multirazziale, il piacere italiano, il piacere del colore e l'interesse della cultura del rinascimento piuttosto che... proprio il piacere dello spirito italiano... e che sono meno italia morfico verosimilmente... (sorriso, ndr)... è stato un momento molto forte insomma, dopo tanti anni di lavoro pittorico è bello potersi presentare a Londra in questa nuova ottica, di un rispetto molto... così ...che nasce in maniera assolutamente naturale, senza troppi sfronzoli, per cui... Londra molto spesso ti mette a contatto con realtà gigantesche e che qui in Italia sono inimmaginabili no? Che ne so, ti può capitare a Camden Town di entrare in un pub e magari Robert Smith si sta bevendo una birra, è successo cioè... ci sono dei parametri molto differenti rispetto a qui. Adesso mi è capitata questa avventura, ma il vero protagonista di quest'avventura si chiama Edoardo Ferrera. E' uno Chef stellato, di quelli che però, diciamo, sono un po' dei controcorrente, perché hanno "sfanculato" quello che è il sistema dell'artefazione televisiva – per cui lo Chef che diventa grande rock star in tv con lo show e tutte le palle che ci girano attorno. Lui è uno Chef stellato vero ed è protagonista di questa nuova vita, di questo nuovo me, un po' ispirato a Fluon e un po' ispirato al futurismo; perché comunque sto facendo un omaggio al futurismo che pian piano prenderà vita, complice anche delle aziende. Avrò modo di fare l'italiano che però porta la "cultura oltre i tempi" italiana, a Londra e il che... mi piace molto."

Bellissima cosa... e infatti, sei sempre stato attivo ma l'impressione è che oggi tu lo sia più che mai o sempre di più, sei come un fiume in piena. Sei super impegnato tra esposizioni, musica, eventi... e appunto, restando in tema aziendale, la Tower Parade è stata una cosa bellissima, una bella iniziativa...

"Si, con Unicredit Foundation, in questo nuovo piazzale bellissimo che hanno fatto a Milano, molto bello da vedere; a mio parere è un capolavoro architettonico; tempo fa avevano fatto la "Cow Parade", con le mucche sparse per la città... è molto bello comunque essere nella lista dei trenta prescelti."

Anche perché poi è un'iniziativa a scopo benefico no? Ho letto che è un'iniziativa per aiutare i giovani, i disoccupati e gli inoccupati...

"Si, anche per aiutare persone con disabilità che hanno particolare bisogno di attenzione."

E anche la serata del 29 maggio "Una serata di stelle", è stata a scopo benefico... in te c'è un'entusiasmo innato, continuo e si rispecchia inevitabilmente e per nostra fortuna nella tua arte... che mi dici di questa iniziativa per esempio...? E poi... ti ci ritrovi un po' per caso a partecipare a questo tipo di eventi o è proprio una scelta mirata?

"Se sono invitato e ritengo che la cosa sia valida partecipo per quello che posso. Nel caso della "notte delle stelle" a Bergamo era per cercare di raccogliere fondi per una ragazza davvero speciale che si chiama Jenny e che adesso è in America in attesa del suo intervento chirurgico e quindi... è una persona che lotta con la sua vita in maniera molto speciale; dunque se ti senti in risonanza e la cosa ti piace è bello poter partecipare. Io ho suonato con Beatrice Antolini, è stata una bellissima serata..."

"Il nuovo che avanza". Cosa dovrebbe essere, per te, per i Fluon, "Il nuovo che avanza" e cosa invece pensi che sia ora?

" "Il nuovo che avanza", per quanto riguarda me... è proprio un flusso interiore che si mette in parallelo con la tua epoca e con la tua età; con un atteggiamento, un'attitudine alla vitalità. Quindi "il nuovo che avanza" è questa rinascita che ho avuto non molto tempo fa e che mi ha guidato nel portare in scena questo disco che, tra l'altro, è stato reso possibile grazie all'ausilio delle persone, del pubblico che ha sovvenzionato il progetto investendo a scatola chiusa su di noi e permettendo così di svolgerlo e di registrarlo. Per cui "il nuovo che avanza" è anche il non avere a che fare con una casa discografica che vaneggia e, invece, avere a che fare con un pubblico che compra a scatola chiusa e che ti permette di andare in studio e di fare tutto quello che concerne un progetto complicato quale un album come "Futura resistenza"."

Per essere più indipendenti dunque., per non essere "legati"...

"Si perché ci siamo resi conto che non siamo interessati a quel tipo di logica, del sistema discografico, per cui... trovi l'indipendenza e poi... trovi comunque i distributori digitali, ma è tutto molto più controllabile; magari è un profilo un po' meno altisonante ma sincero, concreto; sappiamo quello che stiamo facendo, quindi preferiamo muoverci con le nostre "piccole zampe" però facendolo in maniera efficace."

"Il mercato dell'arte". Vorrei farti questa domanda per aiutare un po' i pittori emergenti o comuque coloro che vorrebbero intraprendere questa strada. So che è difficile entrarci e che ci sono regole ragionieristiche dietro, un po' come nell'editoria e spesso anche nella musica... è "mercato" appunto. I giovani che ho incontrato e che tentano di iniziare a fare esposizioni tramite le gallerie d'arte, generalmente parlano delle gallerie e in generale del "mercato dell'arte" come un qualcosa di molto calcolato, matematico, più che che artistico...

"Certo."

E' veramente così dunque?

"Si beh... è una constatazione, non è una novità; la galleria per rimanere aperta deve speculare sugli artisti e avere un ricarico del cinquanta per cento. Un giovane artista deve stare attento a fare sempre una bolla di trasporto quando consegna i quadri perché se no, se il gallerista si inventa che sono suoi, non può riaverli indietro; a me è capitato questo nella mia esperienza di vita, quindi meglio tutelarsi... Poi un gellerista può essere bravissimo nel vendere, nell'espandere il tuo mercato, però bisogna rendersi conto che ci sono tanti fancendieri, tanti delinquenti, come altrettante persone molto piacevoli e brave che fanno bene il loro mestiere. Molti giovani spesso si lamentano del mercato dell'arte, mi scrivono e poi scopri che hanno fatto sette quadri ed io suggerisco sempre "ci vediamo al cinquantesimo quadro!"."

E secondo te è comunque sempre meglio proporsi per inziare ad esporre nelle gallerie d'arte o è meglio magari iniziare con un percorso alternativo per poi magari arrivare alle gallerie in un secondo momento?

"Guarda io sono molto snobbato da una grande parte del sistema dell'arte, perché vige la regola per la quale – e condividevo questo principio con Jérôme Sans, uno dei critici d'arte più grandi al mondo - se uno scultore famoso o un pittore famoso imbraccia una chitarra o suona il piano "è argento", mentre un musicista o uno che è conosciuto per la musica si mette a fare un quadro o una scultura è "un cretino che lo fa per hobby", perché poi c'è molto snobbismo... però è un problema prettamente italiano..."

Si perché infatti quando sei andato in America ti hanno adorato...

"Ah si a Miami ho venduto i miei quadri tranquillamente. Non esisteva il problema che fossi "quello dei Bluvertigo" o meno, perché c'è un'altra attitudine verso quel che piace."

Musica e pittura, "due entità che si alimentano" hai detto una volta in una bellissima intervista di Silvia Borsari. E' molto bello perché credo che sia così per molti artisti, le ispirazioni esterne che vanno verso l'arte e viceversa e l'arte che influenza se stessa... si può dire secondo te che l'arte ha un'anima unica al di la' delle discipline?

"No a mio parere... l'arte è un flusso cosmico, poi sta a noi singoli individui dare un'interpretazione e "cavalcare il cavallo", nel senso... io trovo nella pittura e nella musica dei punti di condivisione e cerco di farne un unico percorso creativo, però non dipende proprio dall'arte in se, l'arte in se è un'altra cosa, un flusso cosmico appunto; poi per come porsi o per quello che piace fare è assolutamente a discrezione dei singoli individui, tutti sono dei potenziali artisti."

Andy. Hai sempre detto e dimostrato che i tuoi colori favoriti, per accostamento e anima sono il giallo fluo e il viola... e tu? dentro di te ti senti... di questi colori?

"Si, rappresentano uno Ying e uno Yang, l'allacciamento di due opposti e poi... appaiono nella medicina cinese, cosa che mi interessa molto..."

Grazie mille Andy per la tua innata gentilezza d'animo; e di cuore, buon lavoro.


 



mercoledì 2 luglio 2014

Laura Campisi: quando una voce jazz prende il volo a New York





Laura Campisi. Molti di voi ancora non la conosceranno e d'altronde lo scopo di queste mie presentazioni è proprio quello di mettere in risalto artisti italiani eccezionali ma conosciuti solo in parte e che meritano, meritano molto di più. Laura è una cantautrice italiana eccezionale, nata nella bella Sicilia nel 1984 e immersa nella musica, nel vero senso della parola, fin dalla tenera età. I suoi genitori portavano in giro per la Sicilia brani della tradizione regionale antica, facendo al tempo stesso un lavoro di raccolta e selezione delle composizioni tipiche di ogni paese in cui si trovavano ad esibirsi. E' inevitabile dunque che l'avvicinamento di Laura alla musica sia stato naturale e immediato. “Sono cresciuta con grandi cantate, chitarre e controcanti improvvisati, tra la musica tradizionale e quella dei vari cantautori italiani” dice e aggiunge: “Fu mio padre che, notando questa mia passione, mi chiese un giorno “Ti piacerebbe studiare canto?”. Io risposi di sì senza nemmeno pensarci, come se fosse stata la cosa più naturale da farsi.” Nel 2011 Laura si trasferisce a New York, con la più assoluta spontaneità, dopo aver portato avanti vari progetti in Italia e dopo aver terminato la sua formazione: una laurea in Discipline della Musica, anni di Masterclass e corsi di perfezionamento – tra i quali il “Nuoro Jazz” e il “Roma Jazz's Cool” (con i nomi più illustri del Jazz) - e dopo aver partecipato e vinto diversi concorsi - da solista e da band leader dei “Lalla Into The Garden”; tra gli altri spiccano la vittoria al “Lucca Jazz Donna 2009” e al “Bianca d' Aponte 2010”- il primo è un concorso Jazz al femminile e il secondo un festival che si tiene ad Aversa dove, lo stesso anno, Laura riceve anche il Premio per la Migliore Interpretazione. Vive attualmente a Brooklyn a cui è arrivata dopo essersi resa conto di aver bisogno di nuovi stimoli, nuovi spazi e possibilità concrete per la sua crescita e la sua creatività. Resta naturalmente legata la suo paese, alla musica italiana e ovviamente ai suoi cari: “In Italia cerco di tornare due volte all’anno, per vedere la famiglia e gli amici, ma anche per tenere vive le relazioni artistiche con i colleghi e la scena musicale italiana.” Basta ascoltare la sua voce, il suo stile, la sua interpretazione, per aver voglia di approfondire la sua storia, per aver voglia di scoprire la sua musica.
Allora Laura... è difficile decidere da dove partire con te, hai una miriade di progetti alle spalle e in corso... Direi di parlare principalmente del progetto che stai realizzando ora (a fine articolo potrete leggere altre info e un sunto degli altri progetti, ndr). Si tratta della lavorazione del tuo primo album ufficiale a quanto ho letto sul sito, anche se in realtà non è il primo album che incidi. Raccontaci un po' di cosa si tratta, come si intitolerà, le collaborazioni e, già che ci siamo, dicci per quando è prevista l'uscita dell'album.
La storia di questo album è un racconto ancora in fase di scrittura. Non so ancora quando uscirà e se verrà pubblicato da un’etichetta o se sarà invece un’auto produzione dalla A alla Z. Al momento comunque, io ne sono stata la produttrice esecutiva ed artistica, con l’aiuto fondamentale di un generoso deus ex machina dietro le quinte e naturalmente degli stupendi musicisti che hanno collaborato. È infatti una soddisfazione nonché un privilegio aver raccolto una squadra davvero d’eccezione per un progetto direi poco usuale: un doppio trio (due bassi e due batterie) ad accompagnare una voce. Il gruppo è composto da Gregory Hutchinson (celebre musicista americano) alla batteria, Ameen Saleem al contrabbasso (mio carissimo amico, americano di Washington DC e membro fisso del Roy Hargrove Quintet e Big Band), Gianluca Renzi (ciociaro trapiantato a New York) al basso elettrico e al contrabbasso e il mio concittadino espatriato a Londra Flavio Li Vigni, alla batteria. Non mancano anche due stupendi special guests: Giovanni Falzone alla tromba e Vincent Herring al sax. Il repertorio è una miscela di pezzi riletti e reinterpretati dalla tradizione jazzistica, rock e più in generale “moderna” con mie composizioni in lingua inglese. La band si è andata formando pian piano, dapprima nella mia mente per poi diventare reale, come un bel puzzle. La disponibilità e la professionalità di ognuno dei ragazzi che hanno preso a cuore il progetto ognuno a proprio modo, ha reso quest’esperienza unica. Ho imparato tantissimo da ognuno di loro, e sto imparando molto anche da me stessa; dagli errori commessi imparo a rialzarmi ogni volta e ad inventarmi e reinventarmi sotto luci e ruoli diversi.
Premettendo che la tua voce è jazz, è vibrazione pura e lo è anche quando non stai cantando una canzone dalle evidenti sonorità jazz dal mio punto di vista, sul tuo sito si trovano pezzi in cui l'anima jazz si percepisce fin dalle prime note, proprio perché come accennavo le caratteristiche del jazz sono ben percepibili, ma si possono ascoltare anche pezzi più legati alla musica cantautorale italiana, pur se affrescata da un tocco alternativo e ho potuto ascoltare anche un delizioso pezzo in dialetto siciliano... Tu come come ti vedi? come ti senti? Più vicina al jazz in ogni caso o... come dire... una miscela di stili?
Diciamo che non sento la necessità di definirmi e credo sarebbe anche un compito abbastanza arduo... Sono nata col Jazz ma sono sempre stata attratta da tutta la buona musica e in ogni fase della mia esperienza artistica fino ad oggi posso ritrovare le influenze non solo di quello che ho studiato e cantato, ma anche di quello che ho ascoltato, ballato, fischiettato. Per ciò sì, mi sento più una miscela di stili. Questo vale sia per ciò che canto che per ciò che scrivo. Anzi, è proprio nella scrittura che i vari stili e generi hanno totale libertà di confluire creando contaminazioni.
E come ti sei innamorata del jazz? in che contesto lo hai scoperto?
Al Jazz sono arrivata quasi per caso: la scuola di canto che ho frequentato a Palermo per vari anni era una scuola di musica Jazz ed è così che mi sono avvicinata a quel genere; prima solo durante le lezioni, poi sempre di più nei miei ascolti di piacere e nella vita quotidiana. Anche se quando ho cominciato a studiarlo, a tredici anni, non lo ascoltavo ancora, nel cantarlo ho sentito da subito una profonda affinità, un senso di appartenenza, come uno specchio nel quale riconoscermi.
I testi dei tuoi pezzi li hai sempre scritti tu e sono poetici, accurati, colmi di emozione. Ciò che si percepisce è la volontà di trovare la parola giusta per ogni secondo per poi interpretarla per come quella singola parola va interpretata e vestita. Questa è la mia impressione insomma. La stesura dei tuoi testi è sempre stata un atto spontaneo, istintivo, fin da quando hai iniziato a cantare e magari ancora non avevi un gruppo o c'è stato un momento in particolare che, come dire, "ti ha dato il La"?
In realtà ho cominciato a scrivere molti anni dopo aver cominciato a cantare. La scrittura è arrivata per caso, senza bussare, è sempre stato un atto istintivo e, come tale, spesso repentino ma anche poco costante. Ci sono stati naturalmente periodi in cui ho scritto di più e periodi in cui non ho scritto, momenti in cui era difficile mettere insieme le idee e altri in cui la scrittura ha invece rappresentato un vero e proprio strumento di chiarezza e guarigione ed è così tutt'ora.
E scrivi "solo" testi di canzoni o ti dedichi anche alla scrittura in generale?
Delle mie canzoni scrivo tutto, sia la musica (melodia e armonia) che i testi, ma mi è anche capitato di scrivere testi per pezzi già esistenti o di tradurre e, per meglio dire, creare liriche italiane su canzoni pre-esistenti in inglese. Ho scritto versioni in italiano per due brani di Tom Waits (“San Diego Serenade” e “Long way home”) e per lo standard jazz “Never will I marry” e creato testi su pezzi strumentali come “Nardis” (Miles Davis e Bill Evans), “Naima” (John Coltrane), Torre Ligny (Salvatore Bonafede), “Mirella” (della pianista romana, da molti anni a New York, Patrizia Scascitelli – brano che, con il mio testo originale, è parte della colonna sonora del documentario sul Jazz del regista Gianluca Bozzo “Walnut Street Station, di recente presentato in Italia). Mi piacerebbe molto provare l’esperienza della scrittura a quattro mani, collaborare con altri cantautori e musicisti, magari anche ritrovarmi a dover scrivere la musica su un testo pre-esistente.
Oltre alla musica qual è la disciplina artistica che più ti attrae?
Amo leggere e mi attrae l’ipotesi di scrivere, sono affascinata dal mondo del giornalismo, soprattutto della critica. Ho la sensazione che prima o poi mi ritroverò a scrivere dei racconti o un romanzo. D’altra parte anche le canzoni sono racconti a modo loro e sarebbe stupendo potermi ritagliare del tempo per cimentarmi in qualcosa di tanto nuovo per me.
La mia amata e spesso utilizzata richiesta finale. Dimmi tu ora, quello che ti passa per la testa per concludere...
Naturalmente un ringraziamento a te per questa opportunità di raccontare qualcosa di me e per costruire un ponte in più con la scena italiana, dalla quale manco – se non per brevi tratti – da quasi tre anni ormai (quattro se si considera la prima volta che mi sono innamorata di New York). Spero di trovare sempre più opportunità per portare la mia musica dove sono nata e dove mi sono fatta le ossa, come spero che l’Italia presto si risollevi da un momento tragico non soltanto per la musica e l’arte, ma per tutti. Quello che sento di dire in conclusione è che è bello avere due cuori, uno qui e uno là.
Laura Campisi... Ora qualcosa in più di lei lo sapete, ma credetemi non basta... Potrete leggere di seguito, come promesso, il sunto dei suoi principali progetti, ma soprattutto... entrate nel suo sito e andate a ascoltare la sua musica, le sue composizioni, la sua voce incredibile.

Grazie a te Laura, ti auguro il meglio del meglio e che il mondo della musica ti scopra davvero come meriti, all'estero come in Italia.

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Performance e collaborazioni:
Laura ha suonato con varie formazioni musicali in tutta Europa e America e continua a produrre una vasta gamma di musica: dal jazz al folk e al rhythm&blues sino alla tradizionale musica siciliana e mediterranea. Scrive canzoni in inglese, italiano, siciliano e canta in italiano, inglese, spagnolo, portoghese, francesce, siciliano e napoletano. Da segnalare tra le performance internazionali e nazionali il tour italiano a Gennaio 2014, con il "Back Home Trio" (special guest l'internazionale sassofonista Gianni Gebbia), ma anche quello del Gennaio 2013, con il "Laura Campisi Roma Quartet" e ancora, un'apparizione nel documentario del registra Nello Correale nel film documentario "La voce di Rosa" ottenuta grazie al suo ruolo attivo nella diffusione della musica e della cultura siciliana nel mondo. E poi New York, con il tour avviato nell'inverno 2010, il primo posto al al "Bianca d'Aponte Award" e al "Lucca Jazz Award" e una performance, assolutamente da sottolineare, all'Ambasciata italiana a Lisbona per la Festa della Repubblica. Nel 2008 un tour a Parigi e una serata anche al "Langau Jazz Festival" nel 2004, in Svizzera. Nel 2014 Laura appare anche nel film documentario dedicato alla scena jazz amercana e italiana intitolato "Walnut Street Station", del regista italiano Gianluca Bozzo. Si esibisce regolarmente con il bassista Ameen Saleem ed ha suonato con numerosi musicisti affermati a livello internazionale: Jon Davis, Tommy Campbell, Saul Rubin, Paul Jeffrey, Salvatore Bonafede, Gianluca Renzi, Fabio Morgera, Christos Rafalides and Gianpaolo Casati, per nominarne alcuni. Laura si sta anche cimentando in una collaborazione con la comunità culturale pakistana a New York, suonando con musicisti del luogo e mescolando così le sonorità tipiche della cultura pakistana con il jazz e la musica italiana, sperimentando tra l'altro le tradizionali composizioni in sanskrito e la musica Panjabi. Di recentissimo avvio anche un gruppo al femminile ("The Shook Ones") di genere completamente diverso, un'esperienza punk rock. Si è esibita in molti prestigiosi locali e luoghi di New York, tra i quali "The Kitano", il "Bar Next Door", il "Zeb's", la "New York University", il "Westchester Italian Cultural Center" e l' "Italian American Museum" nonché al "Lincoln Center’s Avery Fisher Hall", con un bel pubblico di tremila persone, in compagnia della SGI Youth Ensemble.

Progetti:

"Vedrai Vedrai" Luigi Tenco & More:
Un progetto che parte dalla selezione dei pezzi più intimi del grande Luigi Tenco e passa per gli altri grandi cantautori italiani, da Fabrizio DeAndrè a Sergio Endrigo sino a Ivano Fossati. Miscelando con i suoi musicisti il cantautorato italiano con le sonorità jazz, Laura traduce pezzi italiani in inglese, senza rinunciare però a qualche assaggio in siciliano e napoletano. Un viaggio musicale arricchito da pezzi firmati proprio da lei.

"Overseas Quartet":
Quattro musicisti, tutti nati a Palermo e un dialogo musicale. Questo è il "quartetto d'oltreoceano", un progetto nato nell'inverno di quest'anno dalla riunion di Laura Campisi con il bassista Gabrio Bevilacqua e che sarà presentato al pubblico, con molta probabilità, proprio quest'estate. Ed è così che Laura ha incontrato anche Marcello Pellittieri, anche lui stabilitosi a New York, batterista e insegnante al Berklee College of Music. I tre, con l'arrivo del pianista Mauro Schiavone, diventano appunto un quartetto e propongono un repertorio sofisticato, che spazia dagli standard jazz ai classici italiani e americani, fino a composizioni proprie, portando al pubblico la propria, a dir poco unica, voce.

"Face & Bass":
Un duo, voce e contrabbasso, un incontro musicale che Laura ha sempre amato e che l'accompagna sin dai suoi inizi in Sicilia. Con il suo caro amico e bassista affermato Ameen Saleem, propone un divertente, scintillante, repertorio. Unendo sensualità e ironia, intimità e scalanatura, questo duo mostra contagiosa allegria e la bellezza di un dialogo musicale basato sull'ascolto reciproco e la vera interazione.

"Lalla Into The Garden": E' il primo progetto cantautorale di Laura Campisi. Iniziato nel 2009 nella sua terra d'origine come sestetto (voce, due chitarre, violoncello, fisarmonica e percussioni), si trasformò negli anni continuando a mutare nella tipologia di strumenti e nelle sonorità sperimentate. Il nocciolo però è sempre stato lo stesso: i pezzi in italiano di Laura Campisi, alcuni dei quali l'hanno portata a vincere diversi premi nazionali e internazionali.