Visualizzazione post con etichetta musica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta musica. Mostra tutti i post

sabato 25 febbraio 2023

Priorità ✔

Fare un'analisi degli elementi.
Trovare il jazz. Vivere il rock.
Fissare il tempo traditore e prenderlo in giro.
Amare il tempo prezioso e con lui danzare.
Sentire la temperatura di un'opera,
strappare fuori dal cassetto tutti i sogni.
Notare le sopracciglia quando sono stanche
e gli acquazzoni di emozioni.
Percepire le dita come se fossero su un piano, quando battono i tasti.
Ascoltare un pezzo gustoso, 
mangiarlo a gran morsi e farlo tuo.
Definire "vagabondo" e "corteccia".
Ridere di sé, piangere di sé, ridere di sé.

venerdì 3 febbraio 2023

Yokoano: "Il mio cielo nero" e "La musique" que "creuse le ciel"

Il 27 Gennaio è finalmente uscito l'atteso nuovo singolo degli Yokoano, "Il mio cielo nero".  Il 27 Gennaio. Ed io, che sarò presa pure per matta magari, ho visto un certo peso persino nella data di uscita (personale interpretazione, chiaramente).

Le sonorità di questo brano mi fanno venire i brividi. Ammetto di aver pianto più di una volta ascoltandolo. Come ho scritto anche a Dani (Dani, "Danno", Daniele Marceca, ammettendo che non conosciate lui, la sua carriera venticinquennale e la meraviglia degli Yokoano, visto il variegato pubblico di questo blog... andate, cercate, ascoltate.), "ho immaginato le persone, i visi sporchi di polvere, la fame e la Fame, lo sguardo al cielo, la consapevolezza, la speranza, la rabbia, le domande, il senso di abbandono" proseguendo col dirgli che la trovo "Dolce-onesta-cruda-toccabile al tatto" e che "i 7 cuori", posti come commento sulla pagina Instagram, degli Yokoano non erano casuali. E non lo erano (pian piano, ci arrivo...). Non ne abbiamo parlato però, nei termini in cui ne sto per scrivere ora. Quel che è arrivato a me, quello che ho pensato, visto, sentito, eccolo qui.

Dario, Fry, Mattia. Nel dare vita agli Yokoano, Dani, non poteva trovare compagni di viaggio migliori. Un mix perfetto di provenienze, esperienze, poetiche diverse e che al tempo stesso hanno così tanto in comune. Il pezzo è evocativo, molto. Come ogni brano di grande valore, può essere recepito in tanti modi diversi, a seconda di chi ascolta, di chi sente. Così è con tutta l'arte. Così è per un dipinto, una fotografia, una poesia, un libro intero. In questo brano vedo mille storie, tanto che potrei mettermi a scrivere un libro di racconti che le racchiuda tutte; sarebbero profondamente diverse e profondamente simili. Quante volte vi siete domandati: "Perché succede questo (a me, al mondo...)? Perché l'umanità è capace di così tanto odio? Cosa c'è, oltre questo cielo? E se c'è qualcosa, qualcuno, ci ha forse abbandonato?". Queste domande se le può porre chiunque abbia provato una qualche forma di dolore o chiunque, in ogni caso, non riesca ad essere indifferente rispetto a tutta la merda che ci circonda. In questo brano, io, però non vedo la storia di un singolo individuo o meglio, ce la vedo, ma in quanto Essere Umano. Può perfettamente vestire le esperienze di vita di molte persone, ma le lacrime che vedo qui dentro, sono tanto tragiche e crude da rendermi inerme di fronte alla bellezza del messaggio che mi arriva e terrorizzata per il sangue che contiene, come l'involucro di tutte le vite che sono e sono state spezzate, annullate, calpestate, da esseri che certo non si possono definire umani.

Il 27 Gennaio, pensavo, era proprio il giorno della memoria. Lo è ogni anno, da tanti anni. Ogni volta le immagini, gli "speciali in tv", le testimonianze, "i discorsi", ricordano quanto è successo. Beh, in questo brano vedo la potenza, grandiosa, di un "mi metto in quei panni" e "cosa avrei pensato/ sentito, cosa mi sarei chiesto?". Anche se è solo nella mia testa, non fa niente, il fatto è che mi ha portato a pensare a questo. E questo, va poi al di là della Shoah stessa, perché ahimè l'umanità non ne ha mai abbastanza. Prima e dopo nella storia, in passato ed oggi, nel presente.

"Dicono che sia importante restare liberi, ma il padre (o Padre?) delle mie memorie" (quante memorie, storia, speranze e fede, aveva il popolo ebraico?), mi ha dato buca all'improvviso"; provate a pensarci: non è la cosa più umana del mondo questo senso di abbandono? anche per chi, come il popolo ebraico, aveva ed ha una solida e storica memoria del divino? "E dicono che sia importante restare liberi dentro, ma libero è il dubbio del passato che è padre di chi ti ha abbandonato". È il grido di dolore di ogni uomo, donna, bambino, bambina, anziano ed anziana, morto o sopravvissuto, nel dirsi che solo se si è stati abbandonati, è possibile accadano certe cose. "Ed io, io non so niente di questo cielo, non so niente di questo cielo nero, non so niente di questo cielo. Ed io, io non so niente di questo cielo, non so niente di questo cielo nero, non so niente di questo cielo...". Cosa sappiamo? Cosa sentiamo? Cosa vediamo intorno a noi? Anche l'abitudine è orrore. Ho immaginato il viso di un ragazzino o di una ragazzina, i capelli quasi rasi, il volto sporcato dalla sofferenza e dalla fame, con degli occhi così belli, di un azzurro ghiacciato, ma così tristi e pregni di lacrime, seccate, perché di lacrime non né aveva più; l'ho immaginato/a col viso verso il cielo, non molto distante dal filo spinato, con la speranza di un bambino e la consapevolezza di uomo: "Sopravviverò? Morirò qui? Qualcuno ci aiuterà?". "E dicono sia la madre del coraggio, quell'infinita corsa al colle della paura": sarò pazza, ma io qui vedo il coraggio e la dignità, anche quando la dignità qualcuno te la distrugge, di andare incontro alla morte. E dio, quanto vedo quelle fosse e quei corpi. Così come vedo in tutto ciò la storia che in un modo o nell'altro continua a ripetersi (guardate, cosa abbiamo attorno... quanto c'è di diverso...?). "Ma il padre delle mie memorie,  mi ha dato buca all'improvviso. E dicono che sia importante restare liberi dentro" e si, dico, ma "provaci tu", sembra dire implicitamente  qualunque sia la reale ispirazione del brano. E di nuovo quel dubbio, che spacca l'anima: "ma libero è il dubbio del passato, che è padre di chi ti ha abbandonato. Ed io, io non so niente di questo cielo, non so niente di questo cielo nero, non so niente di questo cielo. Ed io, io non so niente di questo cielo, non so niente di questo cielo nero, non so niente di questo cielo". Non so niente, di questo cielo, ripete. Non so, niente, di questo cielo. Solo so che è nero e che "Non vedo niente oltre a questo cielo". E di nuovo, il dolore più profondo, la perdita della speranza, anche della più piccola, infinitesimale, che quel ragazzino potesse avere o che quella giovane madre, può aver perso nel deserto o in mare (e tornano "Le Onde" in questo senso) e… quel ragazzo di vent'anni che non sa perché, ma sta combattendo una guerra che non ha mai voluto, perché le guerre non le combattono mai coloro che scelgono di farle. E quel padre che si trova improvvisamente senza famiglia, in chissà quale luogo del mondo in cui mitragliatrici, terroristi, mercenari, arrivano e fanno fuori chiunque, lasciando brandelli di persone, esseri umani, al loro passaggio. Sono così tanti, gli orrori del mondo. E Dani poi lo grida, lo sfogo di quel ragazzino dagli occhi di ghiaccio, di quel ragazzo, di quella madre, di quel padre. Lo urla al cielo, con quella voce unica e meravigliosa che ha. "Dicono che sia importante" è anche il sottofondo della prima parte nel ritornello finale e poi, ancora un grido di dolore e di rabbia, uno sfogo, un "Perché?". "Non vedo niente oltre questo cielo". La culla musicale di queste parole, quasi protegge, la memoria di quel ragazzino, come a chiedere di non fare solo "speciali e discorsi", bensì di mettere la parola fine una volta per tutte, all'orrore che è "l'abitudine del mondo". Faccio un bel respiro, ci vuole. Penso che la primavera arriverà e in primavera anche gli Yokoano fioriranno di nuovo. Ah, ecco: ora l'avete capito il perché dei sette cuori, no? Fate un bel respiro, ci vuole dopo un articolo così. Grazie ragazzi, di nuovo. Qualunque sia il motivo per cui avete dato vita a questo pezzo. Aspetto fremente il secondo singolo perché come scrisse il mio amato Baudelaire, "la musique creuse le ciel". La musica spacca il cielo. E così sia.

domenica 8 gennaio 2023

Pablo Bacchetti e i Bambini Dell'Asilo


Pablo Bacchetti e i Bambini Dell'Asilo


Presentarvi Pablo non è cosa semplice. Chi conosce già la sua storia e la storia dei Bambini Dell'Asilo è al corrente di tutto o quasi, quindi non c'è bisogno di spiegare quel che avverrà il 4 febbraio 2023 alla Latteria Molloy di Brescia e quel che è accaduto fino ad ora. Vorrei tentare di raccontare a chi non sa di questo meraviglioso e fragile poeta e musicista, il motivo per cui ancora oggi, tante persone, lo sentono vivo. Del resto lo è, con la sua musica, le sue poesie, i suoi disegni. Nemmeno io ho avuto modo di conoscerlo o di vivere i Bambini Dell'Asilo nel periodo di attività, eppure la magia di questo spirito irrequieto che era Pablo, mi ha travolto come se lo avessi conosciuto, più di vent'anni fa, insieme ai suoi compagni d'avventura, Billi ed Ernesto.

Pablo Bacchetti è nato a Salò il 3 febbraio del '75 ed è cresciuto a Vestone (BS). Ha sempre avuto in testa i Bambini dell'Asilo, sin dalle scuole medie, ma non ha trovato subito le persone giuste e così, mentre scriveva ed immaginava il suo sogno, per qualche anno ha fatto parte di altre band, fino a che finalmente "ha incontrato i suoi Bambini Dell'Asilo", come racconta la sorella Alice. In realtà Billi (Roberto Rassegna) e Pablo, già si conoscevano ed avevano suonato insieme in altri progetti. Alle superiori poi, è arrivato Ernesto (Folli, n.d.r.) e tra loro c'è stato un vero e proprio colpo di fulmine, tanto che Ernesto si è messo a studiare batteria proprio per poter suonare nei Bambini Dell'Asilo. Il nome l’hanno scelto ispirandosi alla celebre canzone di Vasco e in particolare alla frase "i bambini dell'asilo stanno facendo casino", il che la dice lunga sullo spirito fanciullesco, ribelle e desideroso di dire la propria tipico di un’età come la loro.

Nascono così i BDA e i tre ragazzi portano i loro pezzi per la prima volta in un live, all'Auditorium di Vestone nel settembre del 1994. Seguiranno naturalmente anche altri concerti, tra i primi anche il ben riuscito evento all'Altaquota di Carpenedolo (BS). Quel che segue è un pot-pourri di live, incontri, amicizie, emozioni forti. Tutti coloro che hanno suonato con i Bambini dell'Asilo li ricordano con grande stima e affetto. C'è chi li avrebbe "adottati in blocco", come dice Franci Omi nello splendido articolo/testimonianza che trovate qui e che vi consiglio di leggere per intero, scoprendo così anche la carriera artistica di Francesco stesso. Tutti coloro che hanno conosciuto Pablo sono tuttora innamorati del suo talento e tuttora, pensandoci, rivivono ogni cosa con la stessa emozionalità che hanno avuto in quegli anni. L'anima di Pablo era difficile, complessa, profonda. Non era certo un ventenne qualunque o non sarei qui, nel 2023, a scrivere di lui.

A guardarlo ora, in fotografia o nei pochi video che girano, vedi un ragazzo giovane, dolce, che si sa divertire, ma anche un ragazzo che ha qualcosa in più e che cela una profonda insofferenza anche quando sorride. Da quando ho ascoltato i pezzi dei BDA, letto i pensieri e le poesie di Pablo, le testimonianze di persone che lo hanno conosciuto, da quando ho visto i suoi disegni, le pagine della Smemo piene di parole, disegni e graffi, riesco a immaginare il suo sguardo come se ce l'avessi di fronte ed è strano, in fondo, perché come dicevo non l'ho vissuto. Eppure Pablo, con il suo talento tormentato, ha ancora questo effetto sulle persone. 

Realizzare un sogno, creare una band a cui pensavi e sulla quali facevi progetti da anni, iniziare a incidere il primo album sul serio, dopo aver raggiunto già i cuori di tantissime persone. Il tutto grazie a pezzi che giravano su una semplice cassetta prima (registrati in sala prove con una grande radio) e su una demo poi, una versione "più pulita", realizzata grazie a Francesco e al cugino Davide “Dade” Mahony (musicista e produttore). Sono tutte belle emozioni, intense e appassionate, che chi ha una band che fa pezzi propri conosce bene. Eppure, qualcosa in Pablo non andava per il verso giusto. Alternava periodi di tranquillità, in cui era sereno, entusiasta, sognante ed energico, a periodi in cui i suoi turbamenti si leggevano chiaramente sul suo bel viso e nei suoi occhi scuri. Periodi nei quali si perdeva, ma dai quali è sempre tornato, fino a un certo punto.

Franci Omi, nell'articolo di cui sopra, scrive che persino la sera in cui hanno registrato la demo, Pablo sembrava felice e al tempo stesso turbato. Pensavano fosse per un piccolo incidente avuto con un'altra auto prima di entrare a incidere i pezzi, ma - Francesco scrive - "la storia futura avrebbe dimostrato che forse non era solo per quello". Fatto è che grazie alla demo, nel giro di un anno i Bambini Dell'Asilo sono diventati un punto di riferimento della scena bresciana e coloro su cui si accentravano le attenzioni di tutti nell'ambiente musicale della provincia e non solo.

Dopo il concerto all'Altaquota tutti erano felici ed entusiasti per quel che avrebbe portato il futuro. Tutti tranne Pablo che, il giorno seguente, chiamò Francesco dicendogli che avrebbe voluto smettere di suonare perché il live gli creava troppa agitazione; era molto giù di morale, ma Billi ed Ernesto, che lo conoscevano da anni, sapevano che dopo momenti di esaltazione e gioia, Pablo tendeva ad avere momenti di sconforto anche pesanti, solo che poi se ne andavano così com'erano venuti. In effetti, così successe anche in quel caso e i BDA, dopo una pausa, ricominciarono a fare le prove. Passava, insomma, dalle fasi creative, agitate, iperattive, a fasi di completo buio. Quel che è certo è che l'arte (e soprattutto la musica) era il suo modo per comunicarlo, per comunicare tutto. Si vedono, si sentono, nelle parole e nella voce, la sua sofferenza, la rabbia, la non accettazione di determinate cose e al tempo stesso la voglia di cambiamento, l’ironia e il sarcasmo. Me lo immagino come un bel tipetto, che quando stava bene non riusciva a star fermo un attimo per tanta era la creatività che il suo spirito e la sua mente generavano. Una mente che andava a mille all’ora, piena di idee ed entusiasmo. 

I momenti di equilibrio purtroppo erano sempre più rari e brevi, ma le cose peggiorarono seriamente quando in macchina Pablo investì un motociclista procurandogli dei danni abbastanza seri. A quanto si sa, non era nemmeno stata colpa sua, ma al di là di chi potesse essere stato a causare l'incidente, questo evento per lui fu un colpo fortissimo. Iniziò a scrivere sempre meno, anche se sempre meglio. 

Me lo vedo, ora, che sorride, scrive, suona, mentre osserva tutto quel che sta accadendo con orgoglio, libero da qualsiasi sofferenza, forse un po’ nostalgico, ma felice. Come potrebbe non essere felice, adesso, vedendo quanto amore, negli anni, è stato dimostrato a lui e ai Bambini Dell’Asilo? E quanta ammirazione, quanti segni positivi hanno lasciato nelle vite delle persone, in così poco tempo.

Riprendiamo, però, con la storia: in quel periodo Francesco e la sua band "Il Grande Omi" erano sotto contratto con il C.P.I., il Consorzio Produttori Indipendenti nato dalla fusione dell'etichetta "I Dischi del Mulo" con la casa di produzione "Sonica Factory". Pablo aveva mostrato picchi di creatività e voglia di fare, come quando una notte gli aveva fatto sentire "Diva", registrata al volo in quel momento e arrivata a noi grazie alla prontezza del fonico Carlo dell’Asta, che viveva ai tempi con Francesco e la sua compagna. Francesco, in seguito, fece ascoltare i pezzi dei ragazzi a Gianni Maroccolo, che per chi non lo sapesse è stato uno dei fondatori del C.P.I., insieme a Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti dei C.C.C.P., con Giovanni Gasparini, Marzio Benelli e Gianni Cicchi.  Se volete capire meglio di cosa si tratta cercate semplicemente su Google. Nonostante in quel momento l'etichetta non fosse nel suo miglior periodo ed avesse diversi problemi con la Polygram, Gianni mostrò grande interesse. Anche lui era stato conquistato da Pablo e dai Bambini Dell’Asilo.

I Bambini Dell'Asilo, con Omi e Carlo dell'Asta (fonico, come dicevo, e collaboratore della band di Francesco), si spostano dunque, per iniziare la pre produzione del loro primo album. I ragazzi, come per il demo tape, lavorano benissimo e tutto è molto veloce. Iniziano prima Billi ed Ernesto, poi Pablo registra le chitarre e, nonostante sia giù di corda, fa un gran lavoro. Il giorno dopo, dopo due tracce, Pablo molla la chitarra, annuncia che la tensione per lui è troppa e che non avrebbe mai più suonato.

Billi ed Ernesto si preoccupano, ma pensano sia un momento passeggero, com’ è già successo in altre occasioni; tutti tornano a casa, in attesa del momento migliore per riprendere e definire gli ultimi dettagli dell’album.

Il giorno dopo, però, Pablo non c’è più e il gelo avvolge un mondo in un lampo. L’album dei Bambini Dell’Asilo si ferma lì, dove Pablo lo aveva lasciato, congelato anch’esso, immobile.

Qualche tempo dopo, suo padre Mauro Bacchetti (compositore e musicista), fa in modo che l’album venga pubblicato. Alice lo aiuta con gli aspetti più formali, come l’iscrizione dei brani alla SIAE. La musica dei Bambini Dell’Asilo, così, non smette mai di suonare.

Tanti sono i pezzi inediti, rimasti su cassette e demo, senza la possibilità di farsi sentire e così accade che oggi, nel 2023 (iniziando mesi e mesi fa), Gianluca Braga, uno dei cari amici ed estimatori di Pablo e dei Bambini Dell’Asilo, in collaborazione con la Latteria Molloy di Brescia, crede sia il momento di fare una festa per lui e per rendere giustizia a quei magnifici pezzi rimasti inascoltati. Così, avviene una magia. Ventidue band partecipano a un enorme progetto in onore dei BDA e di Pablo. Ad alcune band viene proposto di reinterpretare brani editi dei BDA (dal loro primo ed unico album, postumo) e di riarrangiarle a seconda del proprio stile e delle proprie emozioni. Altre band hanno l’onore di portare alla luce brani inediti. Totalmente inediti. Rimasti solo su cassettine registrate alla meno peggio in sala prove, mentre venivano create e di cui erano nate le basi. I testi di Pablo, le melodie, i primi abbozzi ritmici di quando una band va in sala e inizia a mettere giù un pezzo.

A queste ventidue band si aggiungono altri due progetti musicali e tutti loro incidono i pezzi. Ventiquattro canzoni dei Bambini Dell’Asilo, dunque, saranno racchiuse in un album realizzato come tributo e omaggio ai BDA, alla loro storia e all’arte di Pablo. E mentre il tutto è in lavorazione, tante persone si muovono per continuare nell’organizzazione dell’evento. Sabato 4 febbraio, esattamente il giorno dopo il compleanno di Pablo, ventidue band si esibiranno sul palco della Latteria Molloy, per festeggiare la continuità, eterna, del talento. Per ricordare il viso fanciullesco di Pablo e la sua immensa profondità. Per rendere giustizia a brani rimasti praticamente inascoltati e rendere omaggio ai Bambini Dell’Asilo con tutti i pezzi che saranno portati sul palco, in quella che sarà certamente una serata da pelle d’oca e che, se ci sarete, non potrete dimenticare mai. Io di certo la porterò sempre con me, ne sono certa sin da ora, lo so già. L’energia di Pablo regna tra le note di ogni basso, ogni chitarra, si adagia dolce tra le sue parole, nel canto di ogni cantante che le pronuncerà. L’energia di Pablo è in ogni colpo di rullante, di tom, di piatto. L’energia di Pablo è, e sempre sarà, in ogni battito.

 

Link:



mercoledì 9 novembre 2022

I Piccoli Bigfoot "Tra Bergamo e il Far West"

 

Piccoli Bigfoot Tra Bergamo e il Far West

"Tra Bergamo e il Far West" è il piccolo capolavoro (piccolo solo perché è un EP di cinque pezzi e perché "i Bigfoot sono Piccoli") dei - mi ripeto, lo so - Piccoli Bigfoot. Il titolo del mini album è perfetto, perché non solo riprende parte del testo di uno dei pezzi, ma rappresenta in un tragitto immaginario fantastico, quello che è musicalmente. È un cantautore, il Piccolo grande Bigfoot che ha dato vita a questo progetto, ma non è comune, anche quando lo conosci di persona (chi lo ha avvistato lo sa). I suoi testi sono una meraviglia che si staglia tra ironia, profondità, giochi di parole da Cappellaio Matto (scusate, da Piccolo Bigfoot matto), allegria, tristezza che si prende in giro, tematiche importanti trattate con dolcezza, simpatia, rispetto e voglia di far sentire la voce di personaggi palpabili e persino amore. Iniziamo dal principio, come si dice: "la Bella" dei Piccoli Bigfoot è una di quelle che belle o meno è sempre Bella, perché "arriva al fosso" con un peso e se ne libera. Si libera dalle maschere e finalmente fa vedere al mondo chi è realmente. I panni e la cenere, che ricordiamo come scene di un'andata tradizione, prendono un significato molto, molto più profondo. Tutta la storia della sua vita, le esperienze che l'hanno formata, le sconfitte, i dolori e le gioie, tutto ciò che l'ha resa una donna capace di sbattersene di tutto e tutti, le danno lo slancio per tornare in mezzo alla gente a viso scoperto, messa a nudo senza timori, pronta a dire basta e a urlare al mondo il suo amore: la donna che la rende felice, che la fa ridere, con la quale vuole passare la sua esistenza. Smette così di sprecare fiato con chi non comprende e forse mai lo farà. Finalmente, al fosso trova refrigerio lavando le ferite, bruciando le cicatrici con l'acqua per mostrarle al mondo con l'orgoglio di una guerriera, determinata a difendere la sua libertà. Arriva poi un'altra bella ed anche se è molto diversa, anche lei ha sofferto tanto. Tanto da essere "La più bella che c'è". Un inno, una coccola, un abbraccio, alla propria città. Bergamo, che con Brescia è stata epicentro di un terremoto devastante con la pandemia del Covid, è straziata da tutto quel dolore, dalle vittime, dal  silenzio assordante. Una città che di suo è meravigliosa e che, in compagnia ed unione alla Leonessa, braccetto e braccetto, ha affrontato qualcosa che solo chi ha visto e vissuto, può comprendere davvero. Tutta l'Italia è stata travolta, ma le condizioni delle due province in quel periodo, sono davvero difficili da descrivere. Non si percepiva solo nelle grandi città, lo si percepiva e vedeva tra le strade di paesi minuscoli ed ogni sirena era un dolore forte come una spada conficcata nel cuore. Il Piccolo Bigfoot lo sa bene e sa che la sua cara Bergamo si rialzerà, quindi le scrive. Mano nella mano con Brescia, con la quale sarà capitale della cultura 2023, Bergamo si è rialzata e anche se ferite, l'Aquila e la Leonessa, hanno ridato vita a se stesse. Ascoltatela e basta  questa canzone forte e delicata e, magari, non dimenticate. "Prima gli immigrati", il terzo pezzo dell'EP, in realtà parla di miriadi di cose ed è il culmine dell'adorabile sottigliezza dei giochi di parole da cappellaio di cui accennavo: "Prima i partiti, poi gli arrivati" o "Prima compro l'oro, poi compro loro". Giochi di parole che non sono solo giochi di parole. Sono tutti schiaffi ben piazzati, crudi e dolci, di quelli che svegliano un po' chi si sta addormentando quando non è il caso. "Se se se": dolce, amara, romantica, vissuta, commuovente, verace. Sono parole che per forza ti senti dentro, pensando a tutti i se che a volte passano per la testa se ti ci metti, ma alla fine il tempo passa, quindi basta restare ai "Se". Senza dirlo, ci consiglia poeticamente di evitare di accumularli. La vita è una sola, non perdiamocene dei pezzi. Infine, anche se le adoro tutte, la mia preferita: la "Sindrome di Peter Punk". A parte il fatto che rivela le origini musicali del Piccolo Bigfoot ora cantautore (che non ha perso in questa veste alcuni aspetti tipici del pensiero, quello giusto e non cazzaro, del punk), è un brano che - porca miseria! - ti entra dentro. Potrebbe sembrare solo "nostalgico", ma non lo è. Da questa strana sindrome magari non è necessario guarire del tutto, anzi, è un po' come lo spirito bambino da mantenere vivo perché senza che gusto c'è? ma è anche la consapevolezza della crescita, della maturazione, delle domande importanti. È come un passaggio, dall'adolescenza all'età adulta o "da quando sei bambino" a quando capisci che è sacro mantenere in te lo spirito bambino, perché solo continuando a sgranare gli occhi, potremo vivere a pieno. Ed ora, dopo tutte queste parole, vi dico solo di ascoltare, di sentire. Oh, i Piccoli Bigfoot sono quattro, ma sono uno. Insomma, sono/è, tutte e due le cose. Se non c'è un po' di mistero e confusione, non è, non sono, i Piccoli Bigfoot. Mi auguro che arrivi presto un album, perché questo EP, per me personalmente, ha l'asticella già molto alta e chissà... cosa verrebbe fuori da un album vero e proprio. In fondo, "Tutti i migliori sono matti".

Link:

"Piccoli Bigfoot - YouTube"

"Piccoli Bigfoot - fb"

"Piccoli Bigfoot - Instagram"


lunedì 11 luglio 2022

Cifra

fuoco, la voce che viene da dentro, senza cifra

La voce che viene da dentro, dal profondo, che ti pesca e ti spacca, così trovi, così chiami, così torni. La voce istantanea, vera che urge di grida, di canti, di tempi e temporali, armoniche grida, sussurri mai vuoti, mai vani. Così calda dalle corde, che fatica,  che infuoca. Ottovolante, vomito emozioni, dammi una ragione per non urlare. Sono sogni che vivo sempre e sono anche sogni infranti, sono vene e sangue e "Mon coeur mis à nu". Sono fuori forma in forma, fuori stampo, avvelenato fuori tema, polmone nero fumo. Quest'aria fresca che consola, eppure il tempo non mi ha dato scampo oggi, mi ha mangiato viva. Sei lì, ti sento, non riesco, ora, a raggiungere il varco. Lo rifarò, ti rivedrò, mi sentirai. Fiume stonato, mi fa male al petto, ma che ne sanno che ne fanno del suono; io ho bisogno di un tuono e forse di un perdono. Come lo spieghi? come lo dici? uno su un milione intravede le radici. Nuvole stanche. Piovi cielo appena puoi, piangi anche per noi. E vaffanculo l'ordine e la cifra e quel che so, posso andare altrove, perché paura qui non ho. Non temo quel che vedo e sento, non più di me stessa; la rabbia è solo una punta di erisimo per la voce, per me stessa. Eppure poi vedo e mi dispiaccio della mancanza di pace altrui, soccorro e accorro, cosa succede mai? Sono solo inchiostro e musica. Solo, "che dici mai". "La tolleranza che smette di esistere nel momento in cui la nomini", il silenzio non sentito, non ascoltato, non capito. Ho il cielo in fronte, l'universo in mente, il peso in spalla. Sii la tua esistenza, perché non serve immaginarla. E pur sapendo e conoscendo il non sapere, giungendo al punto ancora mi fermo, esplodo e tremo; non sto più nel corpo mio. Firmo righe di parole in coda, che forse comprendo solo io.

lunedì 15 maggio 2017

About Rock: un piccolo viaggio nel grande mondo del Rock




Rock. A volte sento usare questo sacrosanto termine fuori luogo. Non è bello. Il rock è storia, cultura, società, ramificazione, carattere, identità, collettività ed unicità. Al giorno d'oggi se non si sta attenti si rischia di sentir accostare la parola rock alle barbabietole. Il rock è una macrocatecoria della "popular music", da non confondere assolutamente con la "pop music" - dalla quale da metà del ventesimo secolo, anche in musicologia, si è fatta una netta distinzione. E' all'aba fu il rock 'n roll, nato negli USA tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, originato da generi quali il blues, il country, l'r&b, il gospel, il bluegrass, il folk, il jazz. Se A ha origine da B e B ha origine da C, allora A ha origine da C. Dunque si, il Rock è nato dal Rock'n Roll, ma per logica conseguenza nasce anche da tutti i generi sopracitati e si ramifica negli anni come le radici assetate di un gigante verde. Attorno alla metà degli anni cinquanta il rock 'n roll raggiunge un pubblico vasto ed inizia ad avere un impatto sociale non indifferente. Nel 1957, Chuck Berry, pubblica con la Chess Records "School Days" (conosciuta anche con l'alternativo titolo di "School Day (Ring! Ring! Goes the Bell) e quel pezzo rappresenta la meravigliosa rivoluzione del rock 'n roll. Il semplice racconto di un giorno di scuola, le sensazioni di un'adolescente, la pesantezza che come molti giovani il protagonista si sente addosso. Emozioni che prima del rock 'n roll non avevano granché modo di avere sfogo, ma quando la lezione finisce e i libri si chiudono, ora c'è il rock' n roll ad attenderlo: "Hail, hail rock and roll/ Deliver me from the days of old/ Long live rock and roll/ The beat of the drums, loud and bold/ Rock, rock, rock and roll/ The feelin' is there, body and soul. "Hail, hail, rock and roll". Versi che si potrebbero tradurre con un "grandinami addosso", "sconvolgimi" rock 'n roll. "Deliver me from the days old", "liberami dai tempi antichi". Mentre Chuck Berry cantava queste parole, il rock 'n roll stava facendo proprio questo. Finalmente, come Berry stesso scrive nel testo. Dunque, "Long live rock and roll", lunga vita al rock 'n roll e ancora "Il battito dei tamburi, forte e audace/ rock, rock, rock and roll/ La sensazione è lì, corpo e anima", perché basta "Sentire la musica dalla testa ai piedi" ("Feeling the music from head to toe"). Questo accade con il rock 'n roll. E' l'inizio della liberazione mentale, dell'evasione sociale, la nascita del coraggio di dire, fare, rivoluzionare. Spiegare per bene le origini e l'evoluzione del rock' n roll, le ragioni storiche, gli incontri e i confronti culturali che ne hanno dato i natali, i primi accenni e le influenze, le sfumature che negli anni sono entrate a far parte del genere, è cosa assai lunga e complessa (perciò come scrivo sempre, se volete approfondire - semplicemente... fatelo!). Facciamo dunque un salto alla successiva evoluzione. Dal rock 'n roll al rock. Da Jimmy Preston, Roy Brown, Hank Williams... attraverso Sam Phillips, Bill Haley (and His Comets), Bo Diddley e l'eterno Chuck Berry ed ancora Jerry Lee Lewiws, Little Richard e innumerevoli artisti del rock 'n roll dei primordi e del suo sviluppo, arriva poi l'influenza del folk e del cantautorato, prima con Woody Guthrie e Pete Seeger e poi con Bob Dylan e l'usignolo di Woodstock Joan Baez, che al folk dei primi aggiungono la sostanza di tematiche impegnate, a favore dei diritti civili e sociali. E come non parlare della poesia di Dylan... "Mr. Tamburine Man", ad esempio, pubblicata da Dylan nel '65 e riarrangiata lo stesso anno dai Byrds che la inserirono poi nel loro primo album con ulteriori contributi da parte di Dylan stesso o l'eterna (come tutte i pezzi di Dylan del resto) "Like a Rolling Stone" e la sua "miss solitude". Leonard Cohen che inizia proprio come poeta incidendo nel '57 un reading album e pubblicando poi nel '61 la raccolta di poesie "The Spice-Box of Earth" a cui seguiranno altre pubblicazioni. Ed è nel '67 che Cohen porta la sua poesia in musica con il suo primo album da cantautore, intitolato proprio "Songs of Leonard Cohen", passando durante la sua carriera attraverso i generi disparati, dal jazz al folk rock e al soft rock.  Quelli furono anche gli anni in cui Simon&Garfunkel si unirono a New York dando vita a "The Sound of Silence", prima in versione acustica e successivamente remixata con chitarra elettrica e batteria. Nel '67 arrivano altri gruppi, artisti, molto influenzati dal folk rock, quali i Fairport Convention e Pentagle (che unirono al folk anche jazz e blues). Nel anni sessanta, dal Regno Unito parte la "British Invasion": arrivano i Beatles e i Rolling Stones. I Beatles, che portarono al vasto pubblico generi quali il folk rock (dai Byrds) e il rock psichedelico e i Rolling Stones, che si distinsero fin dai primi album dando un colpo di coda alla musica, portando una svolta dalla quale innumerevoli gruppi avrebbero tratto ispirazione. Nascono il garage rock, genere considerato "padre del punk rock" e il freakbeat (di ispirazione beatlesiana). Negli stessi anni, giungono al successo anche gli Who e il mod degli Small Faces. A seguire, mentre prende il volo il garage rock, anche il rock blues, che a differenza di altre ramificazioni si è sviluppato come "genere a se", si espande (sin dalla metà degli anni sessanta). E come non pensare a Johnny Cash, che da molti è ricordato come icona della musica country e certo, è vero, ma ha attraversato nella sua storia e facendo la storia, generi quali rock, blues, rock ' n roll, folk, alternative e chi più ne ha più ne metta. E fu proprio dal rock blues che poi nacque l'hard rock degli anni settanta, come estremizzazione del rock blues stesso. Pionieri del genere, naturalmente, i Led Zeppelin. E poi la surf music, con Dick Dale e successivamente i Beach Boys, il rock psichedelico nelle sue più svariate formeil movimento grunge con gruppi quali i Nirvana e i Soundgarden, se parliamo di tempi più recenti. E il movimento punk, con tutto il suo scoinvolgimento sociale. Altri grandi della storia, così grandi, come Frank Zappa, Tim Buckley, Captain Beefheart e poi... Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Velvet Underground, i Doors, i Queen, tutti giganti. Sarebbero talmente tante le cose da dire e ovviamente un articoletto non può contenere tutta la storia del rock. La questione in ballo è sempre quella di "stuzzicare" e il punto centrale poi, non è solo scrivere un articolo che può risultare piacevole alla lettura per chi il rock già lo ama e lo conosce, ma appunto, incuriosire chi lo conosce meno, far venire quel "pizzicorio" che ti porta con curiosità ad andare a sentire, leggere, perché "questo non l'ho mai sentito, aspetta un po' che...".

venerdì 15 luglio 2016

Rinaldo Donati: "La meraviglia si grida e si tace"


El coche - Rinaldo Donati
"Some say that we're reckless./ They say we're much too young./ Tell us to stop before we've begun./ We've got to hold out till graduation./ Try to hang on Maxine." Questi versi sono tratti da "Maxine", un prezzo di Donald Fagen, dall'album "The Nightfly" (1982). "Alcuni ci dicono che siamo spericolati, dicono che siamo troppo giovani. Ci dicono di fermarci ancor prima d'avere iniziato. (Che) Dobbiamo aspettare fino alla laurea. Provo ad aggrapparmi a Maxine." Questo tratto di "Maxine" è la prima cosa che salta all'occhio sul sito www.maxine.it di Rinaldo Donati, fotografo e musicista, che tra poco, qui sotto, potrete conoscere un po' di più. L'album di Fagen era un concept album autobiografico, in cui sostanzialmente lui ripercorreva la sua giovinezza e Maxine, il suo primo amore, è raccontata nel pezzo per come allora vedevano il mondo, con nostalgia e probabilmente con gratitudine perché quelli erano gli anni della scoperta, dello stupore, della meraviglia per il mondo e della curiosità nei confronti della vita e del mondo stesso. Per Donati il nome "Maxine" è diventato simbolo della propria visione della vita. Nel parlarne, Donati esprime un'intepretazione del pezzo e di come lo ha vissuto. "E' come il piccolo principe [...]. I bambini sono la luce del futuro, per essere così prossimi al massimo livello di creatività per il quale un legnetto diventa una vera astronave, quindi Maxine è la mia isola, non di separazione ma di salvezza." Le migliori parole per farvi capire chi è Rinaldo Donati, sono proprio le sue perché "entrare nelle sfumature e nei chiaroscuri è il senso della sua vita" e la cosa va oltre la fotografia, oltre la musica, poiché oltre è la sua visione, uno stile di vita, appunto. "Sono un uomo in viaggio che esprime un ideale di bellezza attraverso la musica e le arti visive" dice Donati e si descrive come "un compositore e un fotografo". "L'uno vive nell'altro. [...] Sono attratto dagli spazi ampi, dalle forme seducenti e dai volti che, come gli oggetti che ci guardano, vivono sul confine misterioso fra realtà e immaginazione. Così quello che vedo e sento diventano una cosa sola, musica e immagine. L'una contiene sempre l'altra. Amo la musica dal linguaggio complesso e un certo tipo di musica pop, ma mi entusiasmo per lo stridore di una locomotiva di inizio secolo." Il progetto fotografico e quello musicale si uniscono nel live. Simple, il suo progetto musicale/d'arte visiva e i musicisti che con Donati prendono parte al progetto, suonano con lui improvvisando – perlopiù – una colonna sonora per le immagini che vengono proiettate in ordine casuale sugli schermi. L'invito al pubblico è quello di provare a farsi trascinare, nella musica e nelle immagini, perché in ogni sequenza, in ogni fotografia, in ogni accostamento, c'è una storia da poter immaginare. Personalmente ho avuto la fortuna di poter visitare la mostra fotografica in contemporanea alla performance musicale e d'arte visiva del progetto Simple, dunque in quel caso la mostra è stata visitabile durante, prima o dopo il live stesso. La mostra fotografica appunto, si chiama "Grace Roule Hot" ed è allestita in una piccola roulotte, simbolo del viaggio. La liaison linguistica fa intendere la volontà di guardarsi attorno, di guardare il mondo e osservare, le grandi cose e i piccoli dettagli, la Grazia della Bellezza. Il calore della vita e della vitalità fanno da contorno a questa visione alla quale il visitatore può approcciarsi attraverso microfotografie e lenti speciali per osservarle. Non posso aggiungere altro, se non proporvi la nostra chiacchierata e presentarvi di conseguenza la visione artistica di Rinaldo Donati. Dunque, buona lettura...

Mi pare di aver compreso - visione che adoro - che sono più le immagini a catturare te, piuttosto che tu a catturare le immagini... giusto?

Cachinho - Rinaldo Donati
"Le foto più belle sono quelle nel ricordo degli occhi, così come la musica più alta non è quella incisa nei dischi ma è quella che volteggia nell’aria. Così le immagini si colgono nell’incontro casuale, all’incrocio di una via, uno sguardo, sono loro che decidono di concedersi mentre le cerchiamo per fermarle. Adoro scattare foto con il grand’angolo dove tutto è convesso, spaziale come in un grande abbraccio al mondo, ma per una questione metrica significa addossarsi molto al soggetto invadendo il suo spazio privato e può diventare complicato, quasi aggressivo, come un furto. Con un teleobiettivo, da lontano, è molto più semplice ma non c’è prospettiva quindi non l’ho mai usato. A volte mi diverto a scattare foto molto ravvicinate fra la gente, per strada e succede che, per come le persone stesse si muovono, si compongono il movimento, la luce e gli spazi. Le foto progettate, luci, riflessi e posture non mi interessano... così come quelle che ritraggono la realtà esattamente com’è : per quella ho già i miei occhi … cerco la meraviglia."


Nativa - Rinaldo Donati
Cos'è per te la Bellezza? E cos'è Poesia?

"Entrambe sono gratitudine, come senso di appartenenza al mondo, una forma di dovere."

Ti capita mai di sentire, dentro di te, le fotografie che scatti o la musica che crei, come se vivessero di vita propria? hai mai questa sensazione nel rivedere le immagini o nel sentire la musica che tu e i tuoi musicisti state improvvisando? O per tentare di esprimermi al meglio: essendo il tuo un progetto che comprende diverse arti, musica, fotografia che diventa ed implica nella performance l'arte visiva... come senti tutte queste cose? ti perdi tu stesso in quel viaggio ogni volta? 
 
Il granchio
"La musica e le immagini vivono sempre di vita propria ancor di più quando non sono preordinate o non esiste il controllo .. sono un po’ come la vita che decide per ognuno di noi e tutto è sempre perfetto anche quando stride. Non è così semplice perdersi perché per riuscirci bisognerebbe aver raggiunto una meta molto alta, di simbiosi fra suono e non pensiero… percorriamo una strada. Per il pubblico può essere più semplice rispetto a noi che siamo nell’azione del suono; il pubblico può abbandonarsi ai simboli e appunto al gioco creativo dei suoni."

Mentre suoni, sei realmente consapevole di quel che sarà? non a livello pratico di quel che stai facendo ovviamente, ma a livello sensoriale, di percezione tua e del pubblico e... le immagini, alle quali tu stesso ogni volta ti approcci in modo diverso in qualche modo, a seconda della casualità in cui sono proiettate (e i tuoi musicisti con te)... immagino tu le senta e le viva in modo diverso rispetto a quando le hai scattate... è così? 
 
Tremzinho - Rinaldo Donati
"C’è un software appositamente progettato che invia le immagini in sequenze casuali ai proiettori, quindi ogni volta si “scrivono” storie diverse che noi stessi attraversiamo con la musica, cercando un equilibrio nel quale la musica possa diventare colonna sonora e le immagini colonna visiva della musica."

Quando vedi un paesaggio, un dettaglio, un volto, una scena di vita... avrai certamente delle sensazioni, emozioni che ti spingono a scegliere di scattare proprio in quel momento e in quel luogo. Pensi mai, una volta fatte o visualizzate le immagini, cosa potrebbero evocare - a livello sensoriale e/o emotivo - per le persone?

Bonde boy - Rinaldo Donati
"Si, mi capita di pensare cosa potrebbero evocare quando le rivedo io stesso e scopro cosa evocano in me. Ho vissuto per tanto tempo lontano dal mondo reale, immerso nella musica, in un modo solitario ed immaginario, quindi la fotografia è arrivata quando potevo comprendere il senso di vivere nel presente, nel “qui e ora”. Scattavo le foto poi le riguardavo di notte per scoprire di far parte di quell’universo di persone, di essere per quelle strade. Non sarebbe mai avvenuto con foto “realistiche” ma con questi scatti alterati ho trovato nelle immagini la traduzione visiva di ciò che nel mio immaginario vedevo con la musica quindi, oggi, i due aspetti si fondono. Non ho preoccupazioni intellettuali, mi basta fotografare la vita semplice, le forme, gli oggetti, frammenti di vite non vissute, riverberi da viaggi immaginati e credo che altre persone potranno sentirsi attratte da questa traduzione se troveranno aspetti che li riguardano, così come capita nel condividere la musica."

Come spieghi durante le performance Simple e anche sul tuo sito, le immagini non sono modificate nei colori o nelle forme facendo uso di software, bensì sono utilizzati filtri e "white setting". Ci spieghi meglio questo aspetto? ad esempio, usi filtri "manuali" sulla macchina o filtri digitali? e riguardo al bilanciamento del bianco, lo fai attraverso strumenti digitali appunto o - per così dire - da artigiano?

Sombras - Rinaldo Donati
"Posso spiegarlo … ma non proprio svelarlo! Così come un pianoforte è accordato nel sistema temperato, la macchina fotografica chiede parametri di bianco per restituire i colori di tutta la gamma cromatica. I miei scatti nascono nella combinazione di filtri e riferimenti “white/bianco” completamente fasulli. Questi riferimenti sono passe-partout - chiavi diverse del bianco - né avrò costruiti una cinquantina ma ad oggi me né funzionano una mezza dozzina e portano la macchina ad avere buchi cromatici. Questo fa si che, per strada, prima di uno scatto, in combinazione con la luce e il “senso” del luogo io indirizzi la macchina verso “tonalità relative”. Bronzo, gamma degli arancioni, verde bianco, argenti, pirite .. in combinazione con lenti fortemente convesse ne esce un mondo parallelo che mi affascina. Quelli sono i negativi, nessun edit dopo lo scatto."

Nella sezione dedicata proprio ad alcune delle tue immagini, appare evidente la scritta "The truth is out there", dunque "La verità è là fuori". Anche questa frase, come spesso accade nelle espressioni artistiche, è interpretabile in diversi modi, un po' come il viaggio che tu proponi con i Simple. Cosa però, vorresti trasmettere tu con questa frase?

Indian Love Call - Rinaldo Donati
"Credo che il senso ultimo stia sempre nascosto dietro le cose. Il viaggio da soli in luoghi sconosciuti è l’occasione perfetta per osservarci ed osservare dunque il cambiamento. La nostra crescita, la nostra libertà... sono in mezzo alla gente, fuori per le strade."




Come è nato il nome "Simple" per il progetto musicale e visivo che proponi con i tuoi musicisti?

Lou - Rinaldo Donati

"Simple è un occasione per giocare, un “luogo”, anche per il pubblico per entrare nel proprio spazio creativo. Nella creatività c’è il senso dell’uomo e non sta nella chitarra o nella scatola di colori in sè, bensì è un attitudine da coltivare fermando il turbine dei pensieri, così come un bambino trasforma un legnetto in un astronave." La musica da sola sembra non bastare più, oggi siamo accellerati, la mente si distrae e diventa impossibile dedicare un’ora di silenzio solo per ascoltarla. Le immagini... ci riempiamo gli occhi negli schermi. Le due, insieme, possono avvolgerci e trascinarci, sta a noi lasciarci andare. Riguardo al momento di scelta del nome, beh... era notte e rientravo da un viaggio solitario in Messico con una macchina fotografica. Avevo rimesso “Chavez Ravine” di Ry Cooder e “Mulholland Falls” di Dave Grusin, che erano state la “colonna sonora” di quei giorni e rivedevo le foto che il computer inviava sullo schermo. La sequenza casuale delle immagini e del suono, mi fece rendere conto che nasceva una storia, così ho provato con altre musiche e foto di altre latitudini, altre vite, altri colori. Senza volere, mi sono accorto di come nel senso si costruissero nuove narrazioni. Un esempio? Un bimbo con lo sguardo severo, una donna che ride sguaiata, un pescespada in una pescheria, una bici caduta … ognuno ha la sua storia anche se gli scatti vengono da diverse parti del mondo. Simple è un termine che per me significa... "voglio fermare il flusso di pensiero? è semplice (simple), dovrò entrare nel mio spazio creativo, in questo caso la narrazione, il viaggio."

Spiega a chi non ha ancora avuto la fortuna di assistere alla tua meravigliosa mostra fotografica, in cosa contiste, in sostanza, la visione di queste microimmagini e il perché, anche, di questa scelta, di questa visione. 

"Grace Roule Hot, è una "mobile microphoto exhibition" (esposizione mobile di microfotografie, ndr). Pensavo a quanti uomini hanno messo la loro vita in una valigia andandosene dall’altra parte del mondo. Se volessi scoprire chi sono, nella mia metterei delle piccole foto e la musica che amo. La roulotte è una casa e molti si avvicinano ad essa con pudore, come fosse la camera da letto dei genitori. E' un mezzo "per andare", quindi, metaforicamente, il viaggio, la vita, sono in corso. La musica, che amo, è un filo nell’aria. Le lenti di ingrandimento sono la chiave dell’esposizione perché inducono gli ospiti al gioco, quindi ciò che colgono è nella loro creatività, nella leggerezza e nel non giudizio. Ho visto occhi meno colorati di fronte a foto giganti guardate da dieci metri. Avrai notato che su Grace c’è un libretto per le firme di chi passa di li: è fatto con carta da lucido, da disegno tecnico. Una firma, un commento, le frasi, traspaiono e si intravedono anche nelle pagine seguenti facendolo diventare un mondo trasparente di energia grafica e di “segni”. Osservo come ci alterniamo nella ricerca del nostro territorio o ci mischiamo come acqua scrivendo fra le firme degli altri."

Luz - Polo
Quanto è importante per te la dimensione del gioco? quanto è importante la meraviglia?

"Il gioco è la forma più alta di creatività, di concentrazione assoluta, di presenza nel qui e ora. E’ la freccia che scocca, la curva perfetta, il boomerang che ritorna è l’acqua di Marzo. La meraviglia? è l’anima del gioco, "la meraviglia si grida e si tace" (cit. Claudio Sanfilippo "La Meraviglia")."
 
Mi chiedo anche quanto, in un artista come te, siano importanti o meno, le altre discipline artistiche. Cinema, pittura, scultura... anche perché la mia sensazione è che questo progetto, consapevolmente o meno, comprenda un po' anche di queste arti. Tu che lo proponi come la vedi?

"Il Cinema è una meravigliosa forma di raccontare storie, ma di fronte ad un film lo spettatore rimane passivo, reagisce a ciò che riceve ma senza creare un percorso attivo e personale (dipende poi dall'immaginazione che una persona ha... aggiungo io - ndr). Pittura e scultura .. sinceramente non saprei."

Orologio - Rinaldo Donati
Navio na baia - Rinaldo Donati




Cosa ami di più della vita e cosa di più del mondo?

"L’immaginazione."


Danny Car - Rinaldo Donati




Se tu dovessi dare un colore e una nota a te stesso e alla tua arte, quali sceglieresti?

"Viola e Rosso Cardinale: sacro e profano. Una nota...? Re bemolle maggiore 7, che è parente del Fa minore." 

Beh, non posso far altro che ringraziare Rinaldo Donati per questa interessante chiacchierata ed invitarvi a visitare i link sotto riportati e naturalmente, se ne avete occasione, vi consiglio vivamente di andare alla sua mostra fotografica e/o ad assistere alla performance del progetto Simple.




sabato 30 aprile 2016

Garrapateros: "Garrapata Sound System"


"Garrapata Sound System", il nuovo album dei Garrapateros. Ve li ricordate? (per chi  li avesse scoperti sul blog ); ci avevo fatto una luuunga chiacchierata, molto interessante, andando a fondo, tra i testi, la musica, i pensieri, le visuali di vita (per rileggere cliccate qui). Il nuovo album ha quella formazione della quale Nic mi aveva parlato, nuove entrate nella band che andavano a costruire quel sound nuovo che già al tempo chiamava "Garrapata Sound System". Da bravi spiriti patchanka rebelde, i Garrapateros si sono evoluti ancora di più. E' stato fantastico ritrovare in questo album versioni molto più energiche (nella maggior parte dei casi) e "romantiche" (nel caso di "Cenere e Fuoco") di pezzi ripresi dal primo album "Vida no mata". Le ho percepite come più reali, più palpabili, come nei live e infatti... dei live sentiti/ visti, mi ricordano la struttura musicale, gli arrangiamenti, l'interpretazione, il tutto ripreso e fissato nell'album. Poi, riguardo ai pezzi del primo album che si sono evoluti durante gli innumerevoli live per poi racchiudersi in questo "Garrapata Sound System" (un po' come se i live fossero stati - nel passaggio - il bel paesaggio di fronte a un pittore impressionista), ti vai a riascoltare il prima e il dopo e pensi al fatto che la prima versione ti piace come ti piaceva allora, ma che qui trovi quell'evoluzione, quel groove in più, sempre più patchanka rebelde, la maturazione, il crescendo che in una band ci deve essere o non sarebbe una band di talento. Poi gli inediti. Dopo l'uscita dell'album a novembre 2015, la band presenta come singolo, con video, "Zona Rossa", una bella botta di energia che non manca - perché con un autore come Nic non potrebbe mancare - di profondità di concetti. I testi di Nic non sono mai superficiali, ha da sempre la capacità di scrivere in pochi versi una miriade di cose interpretabili in molteplici modi, sia quando i testi sono più lunghi e dettagliati sia quando sono - solo fisicamente - più brevi. Molto bello il video che rispecchia la canzone a pieno dal mio punto di vista. Il viaggio, gli amici, la vita, lasciare una scia, la scalata, il sudore, l'inizio, il tramonto. "Somos", la mia preferita. Un pezzo che inizia come una poesia, recitata da Nic naturalmente. Perché una poesia? beh, per il testo e per l'intepretazione fantastica che ne da l'autore. Traducendo al meglio possibile... "Mi dici qualcosa che non so, non capisco. Mi dici che non è una storia [questa], è quello che è successo a me (!) e il futuro delle tue parole è presente, qui (!). E non... se ho quindici anni ribellione, se ho quartant'anni responsabilità, se ho ottant'anni fatica o... se non sono ancora nato... innocenza; non tocco, non ascolto, non parlo. Vedo soltanto, eppure penso già [così tanto]: "Chi sono?"." La musica, in questo pezzo, ha addirittura influenze jazz (è patchanka, perché dunque limitarsi?). Si perché senti una batteria che in certi punti lo ricorda, senti un assolo di tastiere che in un pezzo jazz ci starebbe a pennello e senti un "canticchiare" di Nic che dal vivo potrebbe avvicinarsi a uno scat, perché no; senti poi, anche quel tipo di ritmato che ricorda il charleston e con cui è difficile star fermi. "Musica che accarezza la pena", dice, perché come spesso accade Nic ripropone tematiche che puntano alla riflessione sulla vita, su quanto sia dura a volte, ma su quanto sia necessario e sacrosanto godere di ogni momento, crescere e non credere mai che un sogno sia impossibile o che la vita "ammazzi" perché "La vida no mata", è un controsenso no? E così, se c'è una pena... la musica la accarezza. Felice a mille poi, di aver sentito "Hijo de Puta". Durante i live in duo acustico, Nic e Cannibal, avevano già iniziato a deliziare il pubblico con questo pezzo strumentale fantastico nel quale il sound di chitarra e percussioni di due musicisti già bastava a ribaltare un locale. Mai incisa prima, decidono - per fortuna - di farlo con "Garrapata Sound System" e nella versione dell'album arrivano i suoni spaziali dei synth e delle tastiere deliranti. Come ultimo pezzo dell'album, "Sigo" ovvero "Continuo", come il cammino dei Garrapateros, che - per citare il testo - sono come "una lucertola a cui continua a ricrescere la coda, in qualsiasi punto essa sia stata tagliata", perché Nic c'è, perché Cannibal c'è e perché hanno trovato lungo il loro cammino Petardero (basso e cori), Papy Chulo (chitarra elettrica e acustica) e Tio (tastiere, synth e groove), coi quali hanno sentito accendersi la giusta miccia, per continuare a crescere, in questo sogno diventato realtà.


 



martedì 1 dicembre 2015

Enrico Mantovani: la musica che si vede


Ernico Mantovani. Venerdì 26 Settembre ho assistito, non per la prima volta, ad uno dei suoi magnifici, emozionanti e sempre unici concerti (a "La Taverna delle Fate Ignoranti" di Quinzano d'Oglio (Bs), un luogo delizioso). Enrico Mantovani è un "OneManBand", perché definirlo "solo" un chitarrista di talento è poco; non a caso "OneManBand" è il suo biglietto da visita e quando lo senti suonare, quando lo vedi suonare e le emozioni si trasformano in musica, percepisci che le melodie, le armonie, il ritmo, diventano colori, temperatura, immagine, suono percepibile al tatto ed allora comprendi perché Enrico Mantovani non è "solo" un chitarrista di talento e a quel punto non è più necessario spiegare perché il suo biglietto da visita è "OneManBand"; però ve lo spiego, perché molti di voi magari non l'avranno ancora mai sentito nonostante giri in lungo e in largo l'Italia (come invece alcuni già adoreranno il suo sound). Al di la' di questo, mi capita spesso di partire dalle emozioni quando parlo di un talento, perché la differenza tra un "bravo musicista" e un "musicista di talento" sta nell'anima, nella grinta, in quel che arriva alle persone. È così per tutte le discipline artistiche, naturalmente a parer mio. Enrico Mantovani è un artista bresciano, polistrumentista, ma la chitarra è nel suo nome. Vive a Orzinuovi ed ha collaborato con grandi artisti quali il cantautore Massimo Bubola, Giorgio Cordini i più noti (al grande pubblico si intende) Massimo Ranieri, Francesco Renga, Eugenio Finardi... ed ha suonato anche con Alex Britti (spero vi sia capitato di sentire una volta almeno il Britti blues), Gianna Nannini, Fausto Leali e molti altri. Le ho scritte, le collaborazioni, perché è giusto, per far capire a chi non dovesse conoscerlo che di cose ne ha fatte e pure tante (e non solo queste, poi ci arriviamo), ma il mio intento non è parlare dei nomi con cui Enrico Mantovani ha collaborato; il mio intento è parlare di Enrico Mantovani, un musicista come pochi, della musica che si vede, dunque, delle infinite sfumature dell'arte.

Enrico Mantovani chi è? E poi... è abbastanza classico chiederlo, ma è sempre interessante per capire di più: come hai iniziato a suonare, quando, cosa ti ha spinto a imbracciare la chitarra?

"Direi che la mia fortuna è stata di iniziare molto giovane, con mio padre quando avevo sedici, quindici anni e già suonavo il blues e i pezzi degli Stones insieme al mio amico Riccardo Maffoni... ho iniziato con mio padre, dicevo, scriveva canzoni e racconti brevi ed era il mio consigliere su libri e dischi che mi hanno poi accompagnato fino ad oggi; mi sono subito reso conto, sin da adolescente, che non era solo una questione di “musica“, ma anche di parole, di pensieri e di poesia. La chitarra ok, saper suonare ok... mi veniva facile e spontaneo... ma sentivo che la magia vera erano le storie che le canzoni mi raccontavano... Così, assieme a mio padre, iniziai a suonare la chitarra nei suoi spettacoli sulla seconda guerra mondiale, sui partigiani, sulle storie dei partigiani nella nostra pianura e l'ultimo spettacolo si intitolava proprio "Novecento" e... sia i libri che le sue canzoni parlavano sempre di queste vicende e di storie che abbiamo dietro l'angolo, che risalgono a cinquanta, sessant'anni fa, non è un tempo poi così lontano. Del resto un piede nel novecento ce l’ho avuto anche io: da piccolo si passavano giornate intere in cascina, a giocare sui fienili, a contatto con gli animali, ci tuffavamo nei fossi e di sera, dopo cena, spesso mio padre imbracciava la chitarra e cantava canzoni di Nanni Svampa e di altri cantastorie. Più che la musica in se, sono le canzoni che mi hanno affascinato sin da piccolo."

Hai tanti progetti in corso: i meravigliosi Matmata, i concerti "OneManBand", la collaborazione costante con il grande Bubola ed altre collaborazioni. Raccontami un po' cosa stai combinando.

"Beh… con Massimo Bubola ho avuto la fortuna di partecipare ad un percorso sulla Prima Guerra mondiale, sulla Grande Guerra, che mi ha dato modo di rivedere la storia dell' Italia e degli italiani negli ultimi duecento anni; un lavoro a ritroso nel tempo, con brani e melodie popolari di fine ottocento e anche più antiche che hanno resistito fino ai giorni nostri. Massimo ha fatto il primo disco sulla guerra nel 2004, "Quel lungo treno", il secondo nel 2013, "Il testamento del capitano" e l' anno prossimo dovrebbe uscire il terzo; una trilogia con brani degli alpini e canti popolari riarrangiati in chiave folk e rock; tratti da una letteratura popolare e contadina, questi brani vanno a comporre parte della musica detta "poplare", che è quel tracciato dal quale nessun musicista dovrebbe mai discostarsi troppo secondo me. Purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura che ad esempio è molto radicata in Irlanda, dove i nonni suonano con i nipoti e tutti conoscono un repertorio di duecento, trecento canzoni folk... e lo stesso vale anche per gli americani e sicuramente per molti atri popoli.

Un incontro raro e fortunato è stato poi quello con i Matmata; mentre con Bubola, con Massimo Ranieri, con Giorgio Cordini e altri ero maturato come musicista o come turnista, imparando a fare questo mestiere, con i Matmata c’è stato un’incontro tra musicisti maturi e già più consapevoli, grazie ai quali ho scoperto il valore della "Band", trovarsi tutti i giorni, suonare insieme più volte alla settimana per il piacere di suonare e per la volontà di creare un groove comune, un sound, un feeling, lavorando sui pezzi che Gianmario continua a creare ancora oggi con grande abilità. Infine nei Matmata ho trovato una famiglia; non è un lavoro da "turnista", è un lavoro con la tua band, coi tuoi amici, coi quali si condividono tantissimi momenti di vita, al di la' della musica…. è stato davvero magico incontrarli."

Per me che ho assistito più volte a tuoi live, con i Matmata e come OneManBand, sapendo quante emozioni, diversificate, trasmetti, mi viene istintivo chiederti: in quei momenti, sul palco, cosa provi, cosa pensi, cosa senti tu, cosa ti passa per la testa?

"Quando suoni.... non pensi a niente, suoni e basta; la musica ce l'hai nel cervello e nel cuore, è li che ti gira attorno, come fanno gli avvoltoi, come una giostra con tante lucine e tu sai già quali vanno accese e quali spente, senza pensarci.... suonare mi fa stare mezzo metro sopra terra, è una droga, la droga più bella e sana che esista e il concerto, il live, è il vero motivo per cui ho imparato a suonare e per cui, grazie al Cielo, continuo a suonare."

Hai fondato nel 2013 l'Accademia di Musica Hendrix (cliccate, cliccate ragazzi). Com'è nato questo progetto e come lo senti? Qual è il contesto?

"L'Accademia... mmmm…... Non credo moltissimo nelle scuole di musica, credo che all'uomo siano più utili i corsi di cucito o di giardinaggio. Le scuole di musica quando io avevo quindici anni non esistevano, o quasi; c'era qualche insegnante che dava lezioni private e se volevi suonare dovevi essere davvero portato, perché dovevi imparare ascoltando i dischi in vinile o la radio, quindi dovevi avere orecchio ed essere molto svelto nel capire le note da riportare sullo strumento. Oggi invece, forse anche a causa dei "talent", molta più gente vuole fare musica, ma siccome da sola non ci riesce, nemmeno con i video di youtube, si rifugia nelle accademie di musica. L’accademia comunque l’ho aperta per portare un po' di fermento sul territorio dove sono nato e dove ho sempre vissuto, sperando di imbattermi in qualche talentuoso futuro musicista."

Ora ti faccio una delle mie domande strane. Altre volte ho fatto questa domanda perché è per me parte dell' "andare oltre" e potrebbe sembrare una domanda semplice, ma non lo è affatto. Di che colore è secondo te la tua musica? E la tua anima? Combaciano?

"Mi piace suonare con le luci blu... e poi il blu è indubbiamente blues..."

Hai un pezzo che su tutti, per te, è il migliore?

"Beh, un brano è troppo poco, ne amo troppi, ma tra i miei artisti preferiti spiccano Bob Dylan e i Rolling Stones. Il resto è tutto sotto."

La tua parola preferita... (Enrico qui è favolosamente indeciso, ma poi la prima parola che gli viene in mente è...)

"Grembo."

Ecco qui, Enrico Mantovani. Penso non ci sia altro da aggiungere se non che, come ho detto anche a lui, una delle cose che lo rende più speciale è che non si rende conto davvero di quanto è raro.

Grazie infinite Enrico.

Link: