venerdì 31 marzo 2017

Pixies: "Where is My Mind?"

Pixies. Li conoscete? ve li ricordate? molti li avranno scoperti (o forse sentiti senza sapere chi fossero), nella colonna sonora (scena finale) del geniale film diretto da David Fincher (tratto dall'omonimo romanzo di Chuck Palahniuk), "Fight Club" (1999). Per chi non lo sapesse, i Pixies sono un gruppo alternative rock, considerato tra le più influenti band americane del genere. Hanno aperto le porte a uno stile musicale particolare, una combinazione di noise, power pop, garage rock, surf (rock e pop). La band è nata nell'86, a Boston, dall'unione di Black Francis (chitarra e voce), David Lovering (batteria), Kim Deal (basso) e Joey Santiago (chitarra). Negli anni '80 spopolavano e dopo anni di fermo per via dello scioglimento avvenuto nel '93, si sono riuniti nel 2004 tornando alla ribalta con una serie di tour mondiali di grande successo, con pubblico in delirio e Paz Lenchantin al basso. Se non li conoscete e volete approfondire un po', potete trovare la discografia completa sul loro sito ufficiale www.pixiemusic.com. Per dirvene una, Kurt Cobain, affermò di essersi ispirato alle loro dinamiche per la composizione di "Smell Like Teen Spirit": "Stavo cercando di scrivere per i Nirvana la canzone pop definitiva. In realtà devo ammettere che stavo derubando i Pixies. Quando li ho sentiti per la prima volta mi sono immedesimato subito. Ho pensato che avrei voluto suonare con loro, o almeno essere in una cover band dei Pixies. Abbiamo usato il loro stesso tipo di dinamica sonora: prima morbidi e tranquilli, poi rumorosi e duri." Ai tempi, i R.E.M. rappresentavano "i buoni" e loro "i cattivi", anche se in realtà come spesso affermato da Black Francis, erano ragazzi tranquillissimi, solo che nessuno ci credeva. Forse per il mix tra voce instabile, il nome d'arte un po' nerd e un po' all'opposto e l'aspetto trasandato. Vi ripropongo qui sotto "Where is my mind?", non solo perché le sonorità di questo brano mi mandano in estasi, ma il testo, ragazzi, il testo è un viaggio con molti retroscena. In pochi versi, ci sono diverse esperienze di vita, interpretabili in mille modi. Quindi, pezzo e traduzione a seguito, senza dimenticare però di aggiungere il video di un altro paio di brani altrettanto gustosi.


 

"Con i piedi per aria e la testa sul pavimento,
provi questo giochetto e giri,
la tua testa collasserà
e chiederai a te stesso:
"Dov'è la mia mente?"

La via per uscire dall'acqua
la trovi nuotando.

Stavo nuotando nei Caraibi,
gli animali si nascondevano dietro le rocce.
Tranne il pesce piccolo.
Ma mi hanno detto: "giura",
cercando di parlarmi.

Dov'è la mia mente?


La via d'uscita dall'acqua... la trovi nuotando?"


 

giovedì 2 marzo 2017

Gianni Cazzola, la quercia swing

Gianni Cazzola, il batterista padre del swing italiano


Gianni Cazzola. Ecco. Dire Gianni Cazzola è come dire "jazz", è come dire "swing". Se non lo conoscete, ve lo presento io (giovani e non, siate furbi, accorrete). Quando io e mio marito lo abbiamo incontrato è stato incredibile. Sentivo in me un subbuglio emozionale ascoltandolo parlare e pensando a quanto ha fatto questo artista, quest'uomo, nella sua vita. È un uomo gentile, molto dolce e ha il fare saggio di chi ha visto il mondo e conosce la vita e, più di tutto, la musica. Settantanove anni di carica, grinta, voglia di suonare, suonare e suonare ancora; di gioire e far gioire attraverso la musa. Per rendere un po' l'idea di chi sia, per chi non lo conoscesse, questo batterista è citato nell'enciclopedia Treccani "Tra i musicisti di alto livello espressi dal jazz italiano" e lo presenta così: "Mr. Cazzola è più di un musicista: è un pezzo della storia del jazz. I suoi tamburi hanno sostenuto, suonato e corroborato i più grandi jazzisti che il globo abbia ospitato". Per citarne alcuni, beh, si parla di Billie Holiday, Art Farmer, Johnny Griffin, Clark Terry, Dexter Gordon, Gerry Mulligan, Tommy Lee Flanagan e molti altri padri del jazz internazionale; artisti italiani quali Gianni Basso, Renato Sellani, Giorgio Azzolini, Guido Manusardi e l'elenco è lungo, molto lungo. Si è cimentato anche nel pop, con Mina e l'Orchestra di Augusto Martelli. Non credo di dover scrivere molto altro, perché penso che già quel che ho scritto possa rendere l'idea della sua grandezza. Sentire e vedere suonare Gianni Cazzola, per un amante della musica, è come ammirare le radici di un'imponente quercia, per un amante della natura. Chiacchierare con lui, direi che è una forma di poesia. Alza la cornetta e si preoccupa subito di sapere come sto, ci facciamo due risate e iniziamo a parlare...

Gianni... come ti sei avvicinato alla musica? Ricordi una scena, un momento particolare di te bambino, ragazzino, in cui hai pensato per la prima volta che non avresti mai potuto farne a meno?

"Io mi sono avvicinato alla musica... e alla batteria chiaramente, vedendo mio fratello. Lui era un dilettante, un autodidatta e suonava nelle orchestrine da ballo in Emilia, negli anni '50. Siamo nati in campagna, vicino a Bologna - e stavamo in questa tipica casa in mezzo alla natura nella quale lui, in una stanza, teneva la batteria ed io vedendola ne rimasi subito fulminato, fin dalla prima volta. Così nacque la passione. Forse capii che quella era la mia storia e doveva andare così... Vidi questa stupenda batteria verde, era di una marca che ora non c'è più - Super Alberti si chiamava - ed era molto bella, grande; allora usavano le batterie grandi. Quando lui andava a lavorare io mi fiondavo nella stanza e suonavo. "Picchiavo" più che altro. Inizialmente così, un po' senza senso, poi ho capito - anzi, mi hanno fatto capire - che avrei potuto suonarla veramente. Ero piccolino all'inizio, avevo nove anni. Sono un autodidatta completo, non ho mai studiato con nessuno, dunque sono proprio un musicista della strada... ho imparato ascoltando gli altri."

Cosa ti ha portato ad amare in particolare jazz e swing?

"Eh sai, in casa in quel periodo avevamo un vecchio grammofono e mio fratello aveva i V-Disk, "I dischi della vittoria" della seconda guerra mondiale. In quei album c'erano tutti i grandi: Duke Ellington, Louis Amstrong, Gene Krupa, che al tempo era il mio idolo... e a me piaceva un sacco quella musica; mi piaceva il ritmo, mi piacevano le melodie, dunque il jazz mi è entrato nel sangue fin da allora e poi la passione è cresciuta nel tempo..."

Hai suonato con tanti grandi, ma essendo io particolarmente affezionata a Billie Holiday... ("Ehhh... una bella passione", aggiunge teneramente), ti chiedo... come la ricordi? Come vi siete incontrati?

"Beh, io suonavo in un club di Milano nel 1958, con un mitico quintetto, famosissimo, che si chiamava "Basso Valdambrini Quintet"* e con loro stavo iniziando la mia carriera; abbiamo suonato tantissimi anni insieme. Avevo iniziato l'anno prima con Franco Cerri, poi fui scritturato da loro e, quell'anno, suonammo in questo club che si chiamava "Taverna messicana". Era frequentato da tutti i musicisti perché era un club fantastico, in cui si suonava jazz. E una sera... la vidi entrare: vidi questa donna stupenda scendere le scale con la sua pelliccia meravigliosa e (ride)... si sedette vicino a noi. Era lì per ascoltare la musica, la sera prima era stata in un famoso teatro di Milano - "Lo smeraldo" - e lei era molto... triste; però là, quella sera, avevamo degli amici comuni e pensarono che avrebbe potuto farle piacere se l'avessero portata da noi e così... dopo un po' cantò con noi, tre pezzi. Era una donna dolcissima. Alla fine la ringraziai, lei mi carezzò la schiena e mi disse "Yeah baby...", con la sua voce roca... un'emozione molto bella..."

*Nato nel 1950 da Gianni Basso - sassofonista, direttore d'orchestra e compositore - e Oscar Valdambrini – trombettista tra i massimi esponenti del jazz italiano, il quintetto fu esteso talvolta fino a un ottetto, a seconda delle esigenze. I componenti dello straordinario progetto si esibirono in tutta Italia e all'estero, collaborando con molti dei grandi del jazz italiano. Da Dino Piana e Mario Pezzotta (trombonisti) a Glauco Masetti e Attilio Donadio (sax), Gianni Cazzola – appunto – alla batteria e Renato Sellani (al pianoforte) - ndr.  

Gianni, come spiegheresti la musica a una persona che ipoteticamente non sa cosa sia?

"Ah beh, questo è un bel casino! (ride) Non è per niente facile risponderti! La musica si percepisce, si sente, non si può spiegare. Come un swing, come fai a spiegarlo? è una cosa che hai o non hai, non la studi. Siccome ha il swing lo ha studiato... no, no..."

Lo so, ma te l' ho fatta a posta questa domanda, ero curiosa di sentire cosa avresti risposto tu! ah ah!

"Eh davvero, è un po' dura rispondere qui, ah ah..."

Ellade Bandini, visto che ne abbiamo parlato quando ci siamo visti... Come ti dissi lo adoro, è un musicista incredibile e una persona dolcissima...

"Beh, è un fratello per me, lo sai. Ci vediamo spesso, si, si..." 

Come vi siete avvicinati voi due? 

"All'inizio è lui che si è avvicinato a me. Lui ha otto/nove anni in meno di me e mi seguiva, mi veniva ad ascoltare in giro. Dov'ero io, lui arrivava. Mi ha sempre seguito perché ha sempre amato il mio modo di suonare. E io pure ho amato il suo, molto. Lui è veramente un grande... nel senso che oltre a suonare bene il jazz, è il batterista più completo che io conosca, anche nella musica più commerciale per dirti. Ha suonato con tutti i più grandi come ben sai".

Altra domanda abbastanza classica, ma vista la tua grande esperienza non è fattibile che manchi. Cosa dovrebbe tenere sempre presente un musicista emergente, secondo te?

"Ascoltare. Ascoltare con umiltà i vecchi musicisti, ascoltare la tradizione. Oggi ci sono troppi musicisti che... magari suonano anche bene, ma suonano "la moda". Non conoscono nemmeno, magari, certi batteristi, trombettisti, sassofonisti... perché oggi è cambiata la storia, non è più come prima. Prima era un ascoltarci continuo, adesso se la tirano pure."

E a volte sono pure delle schiappe e pensano di essere chissà chi... ne ho beccati a bizzeffe così – (commento io, ridendo per... non piangere?)

"Esatto!!! ah ah ah! è proprio così!"

E invece guarda caso, di solito i più grandi hanno anche un'umiltà pazzesca. Come dico sempre, se un artista perde l'umiltà...

"Ah si, manca tutto, perde tutto."

Ecco, una domanda che mi è venuta adesso. Visto che inizialmente ti veniva un po' da ridere perché in tutti questi anni, più o meno, ti hanno fatto sempre le stesse domande. C'è una domanda che magari avresti voluto ti venisse posta, ma non te l'hanno fatta? e se si dammi la risposta! ah ah!

"Ehh non mi viene (ride, in maniera dolcissima). Piuttosto, parliamo di questa cosa, a cui tengo molto. Ho creato, anzi non io perché è un'idea del grande Sandro Gibellini, un gruppo sulle musiche di Fats Waller che si chiama "Fatsology": è una delle cose più belle che io abbia fatto negli ultimi trentacinque anni di carriera. La formazione comprende appunto Sandro Gibellini alla chitarra, Alfredo Ferrari al clarinetto, Marco Bianchi al vibrafono, Roberto Piccolo al contrabbasso, io alla batteria e Alan Farrington alla voce. Questo è davvero un bellissimo progetto; saremo anche all'Umbria Jazz, tra le altre cose."

Com'è la tua anima Gianni?

"Tre volte jazz e cinque volte swing..."

Concludo con la mia domanda "canone". Dimmi, di che colore sei....

"Eh... il colore, beh, rosso blu! sono del Bologna! (ride di gusto) Però il mio colore preferito è il verde, fin da piccolo ho sempre amato questo colore. Forse perché sono nato in campagna e ho sempre visto un sacco di verde, che ne so, ah ah!"

Gianni, il primo sulla destra, con Billie Holiday e il Basso Valdambrini Quintet
 
O forse, ho pensato poi io, anche perché la prima batteria con la quale ha iniziato era... verde?

Grazie Gianni... e come dici sempre tu: "Un grande abbraccio swing"...

Gianni Cazzola, Nico Menci, Paolo Benedettini, "Aloner Together", "Smell Swingin' " 2016


"Gianni Cazzola's 4et", live in Jazz Club Torino, 2015


Gianni Cazzola in "Basso Valdambrini Quintet", "Mitigati", 1960

mercoledì 22 febbraio 2017

Claude Debussy, la "Suite Bergamasque" e "Clair de lune"

Claude Debussy

Claude Debussy (1862/1918). Il solo pronunciare il suo nome pare dare il via ad una musica, la sua musica. Di lui Paul Valéry scrisse: "Lo si vedeva concentrarsi non ad ascoltare la musica per se stessa, quanto a tentarne di farne suoi i segreti. Lo si vedeva, lapis tra le dita, prender nota di ciò che riteneva giovevole alla poesia nella musica, cercando di estrarne alcuni tipi di rapporti che potessero essere trasportati nel campo del linguaggio." Debussy è considerato l'iniziatore della musica moderna, per molti esponente massimo del simbolismo e dell'espressionismo in musica, nonostante il compositore negasse l'appartenenza a un determinato movimento artistico. La realtà, a parer mio, è che proprio come desiderava lui, Claude Debussy non è classificabile; non si può dare un genere alla sua musica, perché le influenze, la ricchezza, le sfumature e i diversi colori delle sue opere, fanno delle sue composizioni un prisma attraversato da una luce potente ed eccezionalmente ispirata. Amava Debussy, amava la poesia di Verlaine, amava assorbire come una spungna tutto ciò che della musica e della poesia lo rapivano maggiormente. Per questo nelle sue opere si possono sentire accenni di Wagner, così come di musica sinfonica; si possono percepire immagini e odori d'oriente o in altri casi udire e godere delle sue contaminazioni europee, romantiche, neoclassiche, fino al simbolismo e l'espressionismo, passando per ispirazioni popolari, danze e tradizioni e giungere persino al jazz. Visse in Italia, in Francia, in Inghilterra ed ebbe una vita movimentata sotto diversi aspetti e certamente, perché è un dato di fatto, anche molti di questi avvenimenti ispirarono all'autore diverse composizioni. Sono talmente tante le sue meraviglie, che elencarle e parlare di tutte sarebbe incauto in quest'occasione, perché per parlarne davvero ci vorrebbero pagine e pagine. Allora parliamo di "Clair de lune", uno dei pezzi di Debussy più amati in assoluto. Beh, io vi dico, che se non conoscete l'opera per intero, è davvero un gran peccato e si, dovreste rimediare. "Clair de lune" è il terzo atto de la "Suite Bergamasque", composta tra il 1888 e 1890 e ripresa da Debussy nel 1904, rivista e pubblicata l'anno seguente. E' una suite, appunto, una forma strutturata di più brani ispirati alle movenze di balli cortigiani e popolari: "Prélude" (Preludio), "Menuet" (Minuetto), "Clair de lune" (Chiaro di luna) e "Passepied" (non traducibile poiché si riferisce a un tipo di danza nata in Bretagna). Ciò che lega questa composizione all'Italia, come si può percepire dal titolo scelto, è il termine "bergamasque". Si lega, però, in maniera molto più intricata e interessante di quel che potrebbe sembrare. Al tempo la città di Bergamo era amata dai francesi, perché Stendhal, un secolo prima, l'aveva visitata e ne aveva descritto la parte Alta come il colle più bello che avesse mai visto. Non è questo però, il vero motivo del titolo. Il termine "bergamasque", in effetti, viene da Shakespeare. Ebbene si. In "Sogno di una notte di mezza estate", il grande Shakespeare fa riferimento, più di una volta, a una rustica danza che avrebbe avuto origine proprio a Bergamo; oltre a questo, rendendo il termine in inglese con "a bergamask", Shakespeare intendeva espimere il suo amore per la commedia dell'arte e le maschere (*mask). L'idea di utilizzare questa parola poi, venne in mente a Debussy grazie al suo poeta preferito, Paul Verlaine. Il terzo atto, "Clair de lune", si intitola proprio come la splendida poesia di Verlaine nella quale il sopracitato termine è presente: " "Votre âme est un paysage choisi/ Que vont charmant Masques et Bergamasques/ jouant du Luth et dansant et quasi / Tristes sous leurs déguisements fantasques" (La vostra anima è un paesaggio eletto / per il quale vanno maschere e “bergamasques” / suonando un liuto e danzando quasi / tristi per i loro travestimenti fantastici"). Detto ciò, se non avete mai ascoltato per intero quest'opera vi consiglio di farlo, al di la' del "genere" musicale a voi favorito. In questo modo, ve lo assicuro, potrete dire di aver vissuto qualcosa di magico, prima di riposare in vista del nuovo giorno.

domenica 29 gennaio 2017

La storia del cinema (parte 5): il cinema degli artisti, le avanguardie


Fin dagli anni Venti, accanto all'evoluzione così detta "tradizionale" del cinema, si sono fatte strada le avanguardie cinematografiche. In contrasto con il divismo e gli scenari che si stavano sviluppando, fecero il loro ingresso nel mondo delle pellicole poeti e pittori. Gli artisti infatti consideravano il linguaggio utilizzato nei film, solo una copia riportata e tra l'altro alquanto automatizzata del linguaggio già in uso nella letteratura e nel teatro. Consideravano così il nuovo mezzo di comunicazione, terreno fertile per lo sviluppo artistico, andando fuori dagli schemi considerati adatti al cinema "di massa". Ogni opera aveva così un valore aggiunto e soprattutto portò modelli estetici e ideologici. L'analisi del linguaggio che gli artisti portavano avanti, permise al cinema d'avanguardia e più in generale a tutto il cinema, di giungere ad un linguaggio proprio, non più legato alla sopracitata letteratura o al teatro. Nuovi elementi espressivi e formali, l'applicazione di nuove vie di sviluppo lontane dalla normale linguistica, portarono negli anni a un sempre più acceso e creativo sviluppo dell'estetica e del linguaggio stesso. Dopo i primi esperimenti da parte dei futuristi, il cinema d'avanguardia si sviluppò parecchio nell'ambiente del dadaismo internazionale, negli anni successivi alla prima guerra mondiale; il dadaismo diede vita a due poetiche: la poetica dell'opera globale e la poetica del caso. Le due poetiche, tra le altre cose, fungevano da punto di collegamento tra autori ed opere molto diversi tra loro. I pittori e i poeti, cercavano con l'avanguardia nuovi legami con le percezioni sensoriali e relative all'esperienza della realtà, attraverso basi morali ed estetiche certamente considerabili come moderne rispetto alla tradizionale visione. Nascono negli anni successivi anche nuovi legami tra cinema e musica e nuove ritmiche nell'immagine e nella narrazione. Il dadaismo, in sostanza, diede il via allo sviluppo delle avanguardie, che poi continuarono ad evolversi negli anni Venti attraverso il surrealismo. Entrambi i movimenti, pur se in modi ovviamente differenti, si ponevano al pubblico come posizione alternativa, un punto di vista nuovo sul mondo, con nuove filosofie dell'arte e della vita. Spesso nelle singole opere, nei singoli autori, si riconoscono anche influenze di avanguardie diverse, quali il futurismo, il cubismo o il razionalismo e l'insieme di questi autori e delle loro diverse influenze va a formare un discorso generale sull'arte e sul cinema – in quanto nuova arte – in periodi di continuo fermento, evoluzione e trasformazione creativa. Fernand Léger, ad esempio, portò un esempio eccezionale di cinema cubista con il suo "Ballet Mécanique" (1924). Léger è stato un pittore, ma anche un creatore di vetrate e arazzi, uno scultore, decoratore, ceramista, scenografo, costumista e illustratore. Questo film ispirò molti altri artisti, pur non avendo una trama. Si concentra infatti su oggetti inanimati e animati, ripetuti in diversi fotogrammi, con prospettive diverse, immagini a specchio, dettagli, dalle forme geometriche a un sorriso, la silhouette di un uomo, un cappello, una bottiglia, un volto che cambia espressione, miriadi di immagini destreggiate in maniera nuova, con tecniche differenti, il tutto presentato e accomiatato da uno Charlot composto da ritagli geometrici. Anche Marcel Duchamp, con "Anemic Cinema" (1926) si mosse in una direzione simile e l'opera è l'insieme di una serie di ricerche portate avanti dall'artista nel campo della cinetica delle forme; riprendendo oggetti in movimento da diverse prospettive, cercava la poliespressività degli stessi. Intorno al 1921 invece, Man Ray, pittore, fotografo e grafico statunitense, aveva scoperto il rayograph, vale a dire la fotografia senza macchina fotografica. Gli oggetti venivano posti su materiale sensibile, generalmente carta fotografica e posti sotto la luce di una semplicissima lampadina. Il risultato era appunto una rayografia (termine che naturalmente prende forma dal nome del suo scopritore). Il primo film di Man Ray, "Ritorno alla ragione" (1923), fu realizzato in una sola notte con diversi materiali cinematografici; durava pochi minuti ed era costruito al di fuori di ogni struttura formale o razionale; un'opera dadaista, che volutamente in contrasto con il suo titolo, determinava un significato culturale d'impatto, infrangendo le convenzioni della cultura e dell'arte. Un' altra opera molto importante per quegli anni fu "Entr'acte" (1924), realizzato da René Clair (attore, sceneggiatore e regista) in collaborazione con il pittore e scrittore Francis Picabia (anche lui francese), che divenne il simbolo del cinema dadaista nonostante le tecniche cinematografiche utilizzate per la realizzazione dello scenario facessero parte di un'avanguardia rifiutata dal dadaismo, ma essenziale nel cinema sperimentale di quegli anni. "Entr'acte" significa "intermezzo", poiché inizialmente doveva essere solo l'intermezzo cinematografico di un balletto, anche se poi, oltre ad essere esteticamente centrato per quel "ruolo", divenne molto di più. Il film rendeva i caratteri del non-sense dadaista: le situazioni, il gioco, la provocazione, la presa in giro antiborghese. La poetica del film dunque, lo rese, al di la' delle tecniche utilizzate, il più significativo esempio di cinema antitradizionale e dadaista; provocatorio e illogico, dedito al caso e al superamento della cultura e dell'arte borghesi.

rayografia, Man Ray

sabato 10 dicembre 2016

La traduzione di "Creuza de mā" (DeAndrè/Pagani)

 
Ombre di facce facce di marinai,
da dove venite? dov'è che andate?
Da un posto dove la Luna si mostra nuda
e la notte ci ha puntato il coltello alla gola
e a montare l'asino c'è rimasto Dio.
Il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido.
Usciamo dal mare per asciugare le ossa dell'Andrea,
alla fontana dei colombi nella casa di pietra.
E nella casa di pietra chi ci sarà?
nella casa dell'Andrea che non è marinaio?
Gente di Lugano, facce da tagliaborse,
quelli che della spigola preferiscono l'ala.
Ragazze di famiglia, odore di buono,
che puoi guardarle senza preservativo.
E a queste pance vuote cosa gli darà?
Cose da bere, cose da mangiare,
frittura di pesciolini, bianco di Portofino,
cervelli di agnello nello stesso vino,
lasagne da tagliare ai quattro sughi,
pasticcio in agrodolce di lepre di tegole.
E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli,
emigranti della risata con i chiodi negli occhi
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere.
Fratello dei garofani e delle ragazze,
padrone della corda, marcia d'acqua e di sale,
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.


giovedì 17 novembre 2016

La storia del cinema (parte 4): il disegno animato, dalla "Lanterna Magica" a Walt Disney

Walt Disney
Chi di noi non ha amato i classici Disney? Chi di noi non si è appassionato, da bambino – e non solo! - almeno a un film animato? Chi di noi non rimane affascinato, quando si trova a vedere, magari un po' per caso, sul web o in tv, un filmato che illustri le techiche di disegno usate in tempi lontani per creare animazioni fantastiche, così come le techiche odierne, così avanzate e attente al dettaglio? La "quarta parte" di questo susseguirsi di articoli, si concentra proprio sulla nascita del disegno animato. Già intorno agli anni dieci, parallelamente alla produzione comica, i "cartoons", in America, hanno cominciato a farsi notare, anche se le sue primissime origini sono da ricercare addirittura a prima dei fratelli Lumière. La maggior parte di essi, nel muto prima e nel sonoro poi, hanno preso ispirazione dai fumetti, che avevano interessato già da tempo generazioni intere di lettori. Assomigliavano molto, in effetti, ai loro "padri" cartecei. Raccontavano dello stesso tipo di situazioni comiche, avventurose o grottesche e presero sempre più piede nel decennio successivo, quando la produzione comica risultava essere troppo vuota di contenuti. Come in diversi ambiti del cinema però, anche il cinema animato entrò in crisi per almeno un decennio, nel momento in cui i produttori tentarono di passare ai lungometraggi, perché sostanzialmente non si trattava di grandi produzioni. Furono gli anni Trenta a dare vera vita al mondo animato. Se inizialmente si trattava solo di illustrazioni umoristiche in movimento, con l'arrivo di Walt Disney vi fu una vera e propria svolta, nelle tecniche e nei contenuti. Il cartone animato iniziò a raccontare storie più serie, più emozionanti rispetto alle prime produzioni e vi furono poi autori che al tempo stesso cominciarono a considerare il disegno animato un'arte sperimentale, da utilizzare anche per la satira o a scopo pedagogico. Nacquero miriadi di personaggi tuttora conosciuti: dallo storico Popeye, nato dalle "daily strips" e portato all'animazione, sino a Betty Boop (1931-1939), creata appositamente per il cinema. Disney, Warner Bros e Metro-Goldwyn-Mayer furono le prime grandi case di produzione nel campo dell'animazione. La Warner Bros lanciò personaggi quali Duffy Duck, Wile E. Coyote e Bugs Bunny e la casa di produzione Metro-Goldwyn-Mayer/ Hanna e Barbera presentò invece gli intramontabili "Tom e Jerry", "I Flintstones" e "Lo scoiattolo Picchiatello". E' Walt Disney, in ogni caso, ad essere considerato il vero padre del film d'animazione. Egli detiene tuttora un incredibile primato: le sue produzioni vennero candidate all'Oscar ben cinquantanove volte e di queste, ventidue furono le statuette ricevute, senza contare ben quattro Oscar alla carriera e un David di Donatello vinto nel 1956 per "Lilly e il Vagabondo". Walt Disney ebbe una visione nuova e fondamentale fu anche la sua collaborazione con l'eccellente disegnatore ed amico di una vita Ub Iwerks, interrotta solo per sei anni, quando dopo alcuni dissapori Iwerks fondò una propria casa di produzione che però, senza il genio creativo ed imprenditoriale di Walt, non ebbe successo. I due tornarono ben presto a lavorare insieme risolvendo i propri personali screzi e il binomio tra i due fu essenziale nella storia dell'animazione. Walt Disney sviluppò, tra le altre cose, un rapporto tra immagini e musica che mai nessuno aveva usato prima e creò effetti speciali assolutamente innovativi e decisivi. Al tempo, nonostante disegnatori e registi, facessero un lavoro enorme per portare al pubblico i loro film d'animazione, erano più i personaggi a rimanere nella memoria, oscurando un po' le fatiche di chi li aveva creati con grandi sacrifici. Persino Walt Disney ebbe delle difficoltà in questo. Gli fu rubato il personaggio di "Lucky Rabbit" e fu proprio quell'episodio a spingerlo ad aprire degli studi di produzione che portavano ben in evidenza il suo nome. I diritti poi, per il magico Rabbit, furono riconquistati dalla Disney solo nel 2006. Dietro al lavoro di quest'uomo vi furono non anche dei sacrifici naturalmente.. Ad esempio, quando la Warner Bros lanciò il primo film animato sonoro, Walt Disney, capendo di dover dare una svolta alle proprie produzioni, arrivò a vendersi l'automobile pur di raccogliere il denaro necessario per realizzare il primo film in sonoro di Topolino (un personaggio che poi, come sappiamo, diede il via ad altri meravigliosi soggetti, quali Minnie, Paperino ec ecc). Oggi ci sono film d'animazione a dir poco meravigliosi e tante volte ci pare quasi che i personaggi e le loro emozioni siano reali. Il film animato è diventato un mezzo per lanciare messaggi sociali, ma anche un modo per ricordare agli adulti cosa significa essere bambini o per sottolineare con dolcezza valori di pace ed amicizia che nel nostro tempo l'umanità fatica a portare con se. La fantasia, l'immaginazione, sono tra le cose più preziose che abbiamo e di certo, nel film animato, sono un ingrediente essenziale; ma torniamo più indietro, molto più indietro. Si perché, se fino ad ora vi ho raccontato di cose che più o meno tutti sappiamo, forse la maggior parte di noi – io compresa, prima di fare ricerche – non sa che i primordi del disegno animato risalgono addirittura al 1675. Si, avete letto bene! Il lontano 1675 è infatti l'anno in cui il gesuita e filosofo tedesco Athanasius Kircher inventò la "lanterna magica", il primo esempio di proitettore di immagini fisse. Grazie a questo strumento era possibile proitettare su vetri trasparenti disegni ingranditi e dipinti, utilizzando come fonte luminosa lanterne o candele. La "lanterna magica" conquistò tanto le persone da diffondersi in tutto il mondo e fu il primissimo passo verso l'invenzione di numerosissimi strumenti che portarono poi alla nascita ufficiale del disegno animato, nel 1892, con il "teatro ottico" di Émile Reynaud. L'ingegnoso strumento di quest'ultimo aveva il nome di "prassinoscopio" (1877) ed era costituito da un prisma di specchi, posizionati al suo interno in diverse angolazioni che permettevano una visione più chiara delle immagini riflesse. Prima di quest'invenzione invece, uno strumento d'animazione diffuso era il "cineografo" (1868), un piccolo libro illustrato in ogni sua pagina che sfogliato molto velocemente dava vita a piccole storie animate. Impossibile non citarlo, visto che molti di noi da bambini hanno provato a crearne uno! Passando per sperimentazioni e continue invenzioni (arrivando anche alla decisiva invenzione dei fratelli Lumière), si giunse alla creazione del primo cartone animato moderno nel 1908, con Emile Cohl. Egli creò infatti il primo vero e proprio personaggio, un piccolo clown di nome Fantôche sul quale Cohl lavorò per tre lunghi mesi per un prodotto finale di un paio di minuti. Per comprendere il perché di un periodo di lavorazione così lungo, basta pensare al fatto che quei due minuti d'animazione erano frutto di ben settecento disegni. Settecento. Avete presente quanti sono settecento disegni? Il problema di Cohl fu che non depositò mai un brevetto per le sue invenzioni e questo lo portò ad essere superato dagli americani che presero spunto dalle sue tecniche durante il suo soggiorno in terra statunitense. Nonostante avesse prodotto durante la sua carriera ben trecento film, morì in miseria e senza riconoscimenti e solo in tempi più recenti è stato ricordato e riconosciuto per il suo grande lavoro. Molti registi europei, oltre a Chol, viaggiarono oltreoceano e fu proprio questo, come accennato in parte prima, a dare il via anche in America a questo genere cinematografico. Prima di Walt Disney, nonostante come già detto gli anni Venti non si distinguano per giganteschi passi avanti perlomeno per quanto riguarda la parte tecnica, vi furono tre persone, in particolare, a risultare storicamente importanti per lo sviluppo di quest'arte: Pat Sallivan, creatore della serie "Felix the Cat" (1919) e i fratelli Max e Dave Fleisher inventori di "Popeye the sailor" e "Betty Boop", ma anche di "KoKo", un clown protagonista di diverse avventure. Pat Sallivan ebbe una vita molto travagliata; ebbe infatti una contesa per l'attribuzione della creazione di Felix, passò nove mesi in carcere e morì a soli quarantasei anni per alcoolismo e polmonite. La contesa fu mossa da Otto Messmer, che rivendicava la paternità di Felix. Ci fu un ricorso e alcuni sostengono che anche al giorno d'oggi non sia possibile sapere quale sia la verità, anche se in realtà, come sottolineato da molti, nel 1917 Sallivan aveva già creato un prototipo di Felix con un film intitolato "The Tail of Thomas Cat" e la grafia in "Feline Folies" nel quale Felix fu inserito, era la sua. Arrivato dall'Australia, il giovane Sallivan iniziò lavorando come assistente ad un altro animatore e dopo aver fatto un po' di esperienza, creando anche un paio di strisce a fumetti, decise nel 1916 di aprire un proprio studio e creò un cartone animato chiamato "Sammy Jhonsin" al quale aveva iniziato a lavorare anni prima. Il suo vero e proprio boom però arrivò proprio con Felix, il famoso gattino nero alle prese con avventure giornaliere. Il progetto ebbe un successo fenomenale, sia per la storia creata da Sallivan che per le tecniche utilizzate e così il famigerato gatto divenne una vera e propria star del cinema muto, tanto da arrivare anche in Italia con il "Corriere dei Piccoli", che pubblicava le sue storie ribattezzandolo Mio Mao. Così come lo aveva creato però, Sallivan lo distrusse. Alla fine degli anni Venti, con un successo sempre più in crescere di Mickey Mouse, egli si rifiutò di aggiungere il sonoro alla serie e la interruppe. Negli anni Trenta, volendo rilanciare il personaggio, annunciò che avrebbe convertito il suo Felix al sonoro, ma oramai era evidentemente troppo tardi e per il pubblico il divertente gattino era già un ricordo. Max Fleisher, a differenza di Sallivan, ebbe una vita più tranquilla. Nel 1914 inventò con il fratello Dave la tecnica del "rotoscopio", brevettata l'anno successivo, che permetteva una resa decisamente migliore nel movimento delle immagini e garantiva un aspetto dei personaggi nettamente superiore. Con il rotoscopio le immagini del cartone animato venivano prima di tutto fotografate; in seguito, le stesse venivano proiettate su un pannello trasparente ed ogni fotogramma era poi ricalcato con lo stile del fumetto ma in modo molto più realistico. Questa tecnica permise loro di dare vita a molti personaggi di successo e in particolare, come già detto, agli ancora amatissimi Betty Boop e Braccio di Ferro (1930/1933). Oltre a questi due noti personaggi però, la tecnica venne utilizzata con grande successo nella serie "Out of the Inkwell" (1918-1929), nella quale venne adottata una "tecnica mista" per la quale attori reali e cartoni animati potevano "recitare" insieme e così fu anche per la splendida invenzione del clown Koko. E' interessante, tra l'altro, il modo in cui Koko il clown fu ideato. Il prototipo usato per realizzarlo infatti, fu proprio il fratello di Max, Dave, che venne fotografato da lui vestito da clown proprio per sperimentare sulla sua nuova invenzione. Koko, che nel tempo fu modificato ed evoluto e cambiò anche diversi nomi, prendeva spesso vita nel cartone uscendo da un calamaio ed interagendo poi con oggetti, animali ed anche con il suo stesso disegnatore. Con il capolavoro di Betty Boop, Fleisher introdusse anche Braccio di Ferro, che fece la sua prima apparizione proprio in un episodio della bella e seducente ragazza jazz. Purtroppo, la serie di Betty Boop, anche se molto amata, dovette essere interrotta dopo nove anni a causa di diverse proteste. Il personaggio, seducente ed ironico, non piaceva a tutti perché "troppo succinto" secondo alcuni. Betty ricordava tra l'altro una cantante molto popolare in quegli anni, soprattuto per la sua voce da bambina e la cantante, Helen Kane, fece causa a Fleisher per aver utilizzato senza permesso la sua personalità nel personaggio creato, anche se poi in realtà perse la causa. Quando però, nel 1934, vi furono ampie proteste da parte del pubblico conservatore, Betty Boop venne rilegata in abiti diversi, venne vestita molto di più e portata ad occuparsi di faccende di casa e simili. Il che ovviamente le tolse tutto lo charme che l'aveva portata al successo e la serie fu per l'appunto interrotta, nel 1939. A livello commerciale, Fleisher continuò ad avere grande successo e guadagno per i diritti riguardanti le animazioni di Braccio di Ferro che addirittura divenne il più diretto concorrente di Mickey Mouse. E' importantissimo sottolineare però chi fu il padre originale di Braccio di Ferro. Fleisher lo portò all'animazione, ma il suo disegnatore originale, fumettista, fu Elzie Crisler Segar. Se non fosse uscito dalla sua matita, è ovvio che non sarebbe esistito nemmeno il cartone animato, così come per tutti i disegnatori, padri reali di molti dei personaggi che abbiamo amato. Proseguendo nella sua carriera, Fleicher si cimentò nell'animazione di altri personaggi già esistenti, tra i quali anche Superman e nonostante i costi fossero stati molto alti, egli riuscì ad ottenere grandi soddisfazioni anche da questo lavoro. La crisi per Fleisher giunse con alcune scelte sbagliate, tra le quali il tentativo – che non ebbe appunto grande successo – di animare “I viaggi di Gulliver”. A questo si aggiunse lo scoppio della seconda guerra mondiale e alla fine, dopo aver lavorato ad alcune pellicole didattiche per l'esercito ed aver avuto problemi anche con il fratello, Max perse il controllo dei suoi Studios e passò a lavorare dalla Paramount alla Columbia. Nel 1958 si risollevò producendo altri cento episodi di “Out of the Inkwell”, stavolta a colori e destinati alla tv. Contemporaneamente al lavoro di Sallivan e dei fratelli Fleisher vi furono ovviamente altri animatori d'interesse, anche se loro rimangono quelli di maggior successo e in sostanza sbaragliarono la concorrenza, perlomeno fino a che Walt Disney e le altre grosse case di produzione non iniziarono seriamente ad essere un passo avanti rispetto a tutti gli altri. Gli anni Quaranta e Cinquanta, in ogni caso, furono terreno fertile per la creazione di miriadi di personaggi, alcuni dei quali inventati e animati anche da disegnatori e tecnici che avevano lasciato gli Studios della Disney a seguito di uno sciopero, per creare – negli anni Quaranta - una propria casa di produzione, nota come U.P.A. (United Production of America). Questa diede i natali, tra gli altri, a personaggi come “Mr. Magoo” (di John Hubley), un miope personaggio alquanto scontroso e “Dick Tracy” (del fumettista Chester Gold), incorruttibile poliziotto di Chicago le cui avventure vennero ambientate negli anni Trenta. Rispetto ai lavori della Disney, della Warner e della Metro-Goldwyn-Mayer che puntavano molto alla resa realistica delle animazioni, la U.P.A. utilizzava sfondi meno realistici e personaggi molto più bidimensionali, ma nonostante questo, le loro tecniche – anche se più semplici – vennero apprezzate e riprese da diverse case di produzione fino agli anni Sessanta e Settanta. La U.P.A. chiuse ufficialmente nel '64, mantenendo licenze e diritti su personaggi come Mr. Magoo e rimanendo fonte di ispirazione per molte case che ripresero i loro personaggi, come ad esempio la Columbia Pictures, per la quale già prima aveva prodotto diversi cortometraggi di animazione. Per quanto riguarda l'Italia, i primi lungometraggi uscirono intorno agli anni Cinquanta. Il primo si intitolava “La rosa di Bagdad”, prodotto e diretto da Anton Gino Domenighini e il secondo, uscito lo stesso anno (1949), fu “I fratelli Dinamite”, prodotto da Nino Pagot. “La rosa di Bagdad” era una storia in Technicolor e narrava dell'amore tra Zelia, figlia di un sultano, e il flautista di corte Amin. Nella storia i due ragazzi vengono ostacolati da un visir, Jafar, che a tutti i costi vuole sposare la ragazza e impadronirsi del regno, anche se poi l'amore vince e i due giovani riescono a sposarsi e a vivere felici. La pellicola venne però apprezzata più all'estero che in Italia, anche se successivamente è stata rivalutata e restaurata. Ci sarebbe davvero molto altro da dire sulla storia del disegno animato, dai personaggi degli animatori francesi, terra dalla quale tutto era nato, agli altri innumerevoli capolavori della Disney (“Biancaneve e i sette nani”, “Dumbo”, “Pinocchio”, “Fantasia”, “Alice nel Paese delle Meraviglie”, “Cenerentola”, “Peter Pan”...). Dalla nascita, con MGM dell'Orso Yoghi e Braccobaldo, fino all'arrivo dell'animazione giapponese, di tutt'altro stampo e con una storia e uno stile molto diversi.

Tutte queste cose possono farci capire quanto il mondo animato sia una forma di cinema con una storia indipendente e al tempo stesso incrociata a quella del cinema "tradizionale" e quanto sia enorme, incredibile, l'evoluzione che quest'arte ha avuto in centinaia di anni. Da quella “lanterna magica”... fino ad oggi.

domenica 16 ottobre 2016

L'Italia siamo noi

Ho pensato e ripensato. Alla fine, anche noi dal basso, lo sappiamo che in Italia ci sarebbero i soldi per fare tutto, volendo. È quel "volendo", che fa la differenza, si sa. In Italia si sono succeduti governi d'ogni sorta, governi dei partiti, destra, sinistra, centro, interscambiabili a seconda delle situazioni. Abbiamo avuto i professori, i tecnici e miriadi di finti salvatori della patria. Ovviamente ognuno di loro si è sempre professato genuino; "è per il bene del paese", "è per il bene del popolo italiano" e bla... bla... bla... Io non sono un'esperta tale da poter dare soluzioni, è normale. Sono solo una cittadina italiana, orgogliosa della Terra Italia e non dello Stato Italia. Come molti. Mi pongo domade, cerco risposte, a volte riesco a farmi più o meno un'idea delle cose, perché alla fine quel che passa dai media, dai giornali, da tutte le informazioni disponibili per i comuni mortali o dai grandi discorsi, è sempre la solita brodaglia.  Io ho trentuno anni tra un mese e fin da piccola ho sempre sentito dire più o meno le stesse cose e chi è più grande di me potrà confermarlo credo. In un modo o nell'altro, l'arte della comunicazione è diventata una cosa terribile, perché lo sapete, no? quando un politico (o altro soggetto dotato di qualche tipo di "potere") parla, ha pure uno staff alle spalle: specialisti di "comunicazione". Comunicazione per come la vogliono loro, naturalmente. Teoricamente comunicare, sapete, è una parola bella. Il fatto è che è come una bomba. Mettiamo di essere degli artificeri (stima profonda, ovviamente è solo un esempio). Siamo di fronte a una bomba da disinnescare. Se siamo dei bravi artificeri, avremo tutte le competenze necessarie per far si che la bomba non esploda, se invece non saremo competenti, preparati, devoti al nostro lavoro, quella bomba farà miriadi di vittime. Un altro esempio, giusto per far capire dove vorrei arrivare: siamo in un locale con degli amici. Si parla del matrimonio di due ragazzi del paese, così, per far due parole. Uno degli amici dice all'altro: "Cavolo tra l'altro, lei ha avuto un incidente venti giorni prima del matrimonio, meno male che non si è fatta niente di grave, è solo un po' ammaccata". Una signora dalle orecchie lunghe sente il discorso dei ragazzi e dice al marito: "Oh! ma la figlia del panettiere ha avuto un incidente poverina! deve anche sposarsi!", poi sente che il ragazzo al tavolo pronuncia le parole "macchina distrutta". "Cavolo, cavolo! signur si sarà fatta proprio male!" e il discorso finisce lì. Qualche giorno il marito va al bar e dice a un altro: "Hai sentito della figlia del Beppe? pare che non stia bene!" e l'altro stupito: "Ma dai, cos'è successo?" "Eh, ha avuto un incidente, la macchina è distrutta!". La conversazione si limita a poco altro e poi ognuno va per la sua strada. Il sig. Pippo, conoscente del marito della signora orecchie lunghe, va a giocare a bocce il giorno dopo e sente che proprio accanto stan parlando dell'incidente, così incuriosito si avvicina ai compagni di bocce e chiede: "Allora? cos'è successo?" e uno risponde: "Ah, io ero lì, hanno bloccato la strada, ho visto che la tiravano fuori dalla macchina tutta immobilizzata povera stella" "E poi? si è saputo qualcosa?" "Si lamentava tanto coi soccorritori, aveva male la schiena, le gambe... ahi ahi ahi... poi però non ho saputo niente." Il sig. Pippo si preoccupa ancora di più, perché conosce bene il panettiere del paese e spesso ha visto anche la figlia in negozio. Va a casa e parla con la moglie che, vedendolo un po' turbato, gli chiede cosa lo affligga. "Eh, sai, la figlia del Beppe, il panettiere" e la moglie annuisce, così lui continua "Potrebbe anche rimanere sulla sedia a rotelle per quel che so, l'hanno tirata fuori dalla macchina e aveva tanto dolore alle gambe e alla schiena". La moglie sconvolta: "Povera ragazza, è così giovane... speriamo di no...". Passano i giorni e sul luogo dell'incidente ci sono ancora i segni, qualcuno dice sia in gravi condizioni, perché "qualcuno glielo ha detto ed era presente", non vedeva tutto da dietro le altre automobili, l'ambulanza, il carro attrezzi e così via, però per quel che ha sentito, 'sta povera donna è messa proprio male. Dopo una settimana, la ragazza dell'incidente va in piazza in paese a fare commissioni. Ha solo un collarino ed è un po' ammaccata. Le si avvicina il Pippo, quello un po' più preoccupato e fermandola le dice: "Ma non eri grave? santo cielo, meno male che stai bene!". La ragazza risponde, racconta l'accaduto, che le poteva andare molto peggio, ma che è solo un po' acciaccata, poi chiede: "Ma chi te lo ha detto? e perché non hai chiamato papà se eri preoccupato?". Il sig. Pippo imbarazzato, ammette d'aver seguito le informazioni ricevute da altri e si scusa dicendo che "temeva di disturbare". La ragazza e il ragazzo, felicemente si sposano alla data stabilita. Fine della storiella. Certo, è una storiella di paese, ma il punto è chiaro. La mancanza di comunicazione, quella vera, può far solo che disastri. La comunicazione, dice Treccani tra le altre cose, è questo: "In senso ampio e generico, l’azione, il fatto di comunicare, cioè di trasmettere ad altro o ad altri. In senso più proprio, il rendere partecipe qualcuno di un contenuto mentale o spirituale, di uno stato d’animo, in un rapporto spesso privilegiato e interattivo. Comunicazione d’idee, di pensieri. La comunicazione delle proprie ansie, della propria insicurezza; la comunicazione agli altri del proprio sapere. "L’accettazione della probabile sconfitta è costitutiva di ogni comunicazione che aspiri ad essere virtuosa (Giulio Mozzi)". Più astrattamente, relazione complessa tra persone (di carattere cognitivo, spirituale, emozionale, operativo, ecc.), che istituisce tra di esse dipendenza, partecipazione e comprensione, unilaterali o reciproche." Ora, mi pare che il termine comunicazione, abbia un bel significato, non credete? eppure... sono stati capaci di dare a una parola che solo cose positive dovrebbe far nascere, un'accezione negativa che non doveva avere. Non sappiamo più se chi ci comunica le cose, lo sta facendo perché "si preoccupa di non fare esplodere la bomba" o "se quella bomba la vuole far esplodere perché gli conviene". Non sappiamo più "se chi parla della ragazza si sta preoccupando per lei o se vuol solo far chiacchiere di paese". Noi siamo vittime di "artificieri" incompetenti e "pettegoli", che la comunicazione la usano solo per... i motivi che tutti sappiamo. Salvarsi il posto di lavoro profumatamente retribuito, salvarsi la poltrona quando c'è. Ipocrisia ed egoismo. Persino il Pippo, buon uomo, è stato un po' ipocrita nella storiella che vi ho raccontato. Continueranno a dirci quello che vogliono farci pensare, non certo la realtà. Solo lassù nell' "Olimpo" (senza offesa per l'Olimpo), sanno come stanno le cose. Noi però non possiamo certo darla vinta a questi soggetti, in qualsiasi campo essi operino. Non siate pigri, non dite che per qualsiasi cosa "tanto non cambia niente" oppure che "non ve ne intendete". Se non ve ne intendete siate curiosi!  cercate il più possibile di capire cosa succede attorno a voi. E tra l'altro, non solo in Italia, ma nel mondo intero. Passiamo la vita a lavorare, a correre come dei pazzi per portare a casa uno stipendio decente (se siamo tra i più fortunati che ancora hanno un lavoro) e a volte lo diciamo che "siamo noi i loro capi", perché è così, per loro e per tutti coloro che pur se non facenti parte della classe politica, finanziaria ecc. a loro sono inevitabilmente legati, in un modo o nell'altro. E quelle poche volte che qualcuno dice qualcosa di sensato, figurati, se ne inventano a bizzeffe "gli esperti di comunicazione". Non sono esperti di comunicazione, sono esperti di "come fottere la gente". Scusate il termine poco gentile, ma volete davvero continuare a "farvi fottere"? Almeno provateci, a cambiare le cose. Anche poco poco, con i mezzi che avete e nel modo che ritenete più consono a voi, ma vi prego... sento troppa gente dire "Non m'importa". È questo che vogliono: che a voi non importi. Oppure vogliono darvi l'illusione di aver capito qual è la verità, ma la verità, ragazzi, ragazze, signori e signore, la sappiamo tutti. La conosciamo molto meglio di tutti loro messi assieme, senza essere ministri o potenti di qualche altro genere. Noi saremo pure formichine, ma siamo tanti e dal mio punto di vista, farsi schiacciare da loro, è l'ultima cosa da fare. Noi. Siamo tanti. Se ognuno davvero facesse la propria parte, li metteremmo con le spalle al muro e non potrebbero far altro che far quel che devono. Non potremo mai essere tutti d'accordo su tutte le questioni che riguardano il nostro Paese, ma credo che su certe cose, nessuno possa batter ciglio, no? Lo so, questo discorso è lungo, ma abbiate pazienza, sono proprio stufa di fare la mia parte per quel che posso e stare zitta. "La propria parte", prima di altra qualsiasi altra cosa, è tentare di informarsi il più possibile, ma non dando retta solo a quel che dicono in TV o sui giornali, se no siamo fritti! Non dico di non leggere i giornali, dico solo di non prendere tutto quel che dicono per vero. Dico solo che se si parla, visto che è il periodo di grande discussione, di Costituzione, bisognerebbe cercare di leggerla, questa benedetta Costituzione, ma così dovrebbe essere per qualsiasi cosa. Tutte le leggi che vengono approvate ci toccano, direttamente o indirettamente. Vi faccio un altro esempio, questo più reale rispetto ai primi. Sapete che in Italia ci sono tanti falsi invalidi e per carità, in TV diverse volte vediamo che la Guardia di Finanza, facendo un buon lavoro, riesce a trovare i "furbi". Diversi governi hanno lanciato campagne di controllo aggiuntive, ci sono state sospensioni di assegni da parte dell'Inps, anche arresti a volte, ma nonostante questo i falsi invalidi continuano ad aumentare. Sembra dunque che i controlli non siano abbastanza o che la modalità (non certo per colpa della Guardia di Finanza), non porti realmente a bloccare questo ignobile fenomeno. È sacrosanto e doveroso, ci mancherebbe, che vengano fatti controlli per beccare i falsi invalidi, ma mi chiedo... poi cosa succede realemente? vengono forse recuperati tutti quei denari persi? uhm... sto cercado di capirlo, ma non credo. Comunque sia, tutto continua. Il problema dunque non è "solo" che ci sono tanti bastardi (perché scusate, ma è questo che sono), ma che ci sono anche miriadi di commissioni corrotte,  enti pubblici che dovrebbero controllare e non lo fanno, persone incompetenti, persone disoneste, intorno a questo fenomeno, che permettono che questo accada. Allora, perché non fare dei controlli seri su tutte le Commissioni, sui medici che ne fanno parte, sulle personalità pubbliche coinvolte ecc ecc ecc? È un lavoro lungo, capillare... e allora che lo Stato stabilizzi ed assuma più personale, per merito ovviamente, che si dedichi a questo compito. Avrà un costo per il personale che sia Guardia di Finanza o altra figura professionale (pregherei senza conflitti di interessi), ma poi salterebbero fuori davvero gli altarini che ci sono sotto, perché se ci sono i "bastardi", è perché qualcuno glielo permette, no? Ho fatto una ricerca e ho notato che più o meno si sa quanti sono i falsi invalidi in Italia, continua la lotta, ma se da una parte ne vengono smascherati una buona parte, dall'altra la spesa per le false invalidità continua a crescere. Trovo che ci sia qualcosa che non quadra. Voi che dite? E poi, in questo caos, ci sono persone veramente invalide che hanno difficoltà enormi per ottenere quel che gli spetta di diritto, dal sostentamento economico ai servizi (assenti o malandati). E gli invalidi civili? molti non sanno chi sia "l'invalido civile", magari ne avete sentito parlare, ma non vi tocca direttamente e quindi, magari, non avete approfondito. Anche tra gli invalidi civili ci sono quelli falsi, ma questo è ovvio no? se ci sono tra gli invalidi "in senso generico", ce ne saranno tanti anche tra quelli civili. La differenza qual è però? ve la dico io: alcune delle patologie, scientificamente riconosciute come limitanti, che non permettono alla persona di lavorare, come ad esempio accade per gli invalidi psichici (riconosciuti con miriadi di esami e documentazioni), sono praticamente abbandonati a se stessi. Secondo voi, è possibile che se una persona ha il 73 per cento di invalidità civile, lo Stato gli dia 279,47 euro mensili? come può una persona con un 73% di invalidità e con l'impossibilità, spesso sia psichica che fisica, vivere con 279,47 euro al mese? lo sapevate questo? Poi dovrebbero esserci programmi di inserimento lavorativo facilitato... dovrebbero. Primo perché i Comuni non hanno i fondi, spesso (o fanno finta di non averli in certi casi) per mettere in atto seriamente questi programmi. Secondo, perché sapete, pensando che sia possibile vivere con una certa cifra, se anche la persona trovasse un lavoretto che gli è possibile fare, inserito in un contesto protetto, con tutti i diritti che dovrebbero spettare a una persona con patologia, non potrebbe comunque superare un limite di reddito di 4.800,38 euro lordi l'anno. Perché mi pare ovvio no? con 4.800,38 euro lordi l'anno, una persona può vivere dignitosamente!!! (e tenete conto appunto, in ogni caso, della precedente premessa). Tutto ciò, ed è solo il primo di miriadi di argomenti che si potrebbero trattare, è FUORI LEGGE. Si. È proprio fuori legge. Perché se ogni legge approvata dai governi deve rispettare i principi costituzionali, beh... non mi pare che questa condizione garantisca i diritti fondamentali che riguardano salute, lavoro e dignità.

sabato 24 settembre 2016

Massimo Lanatà: falchi, aquile... i sogni in volo

Massimo Lanatà
Certamente vi sarà capitato di vedere in un documentario un'aquila, un falco, volare in mezzo alle montagne, tra le valli, sorvolando spazi immensi; e magari, come molti, avete pensato a quanto questi animali siano meravigliosi e a quanto sia grande il senso di libertà e forza che trasmette vederli volare, anche solo per un attimo, anche solo attraverso uno schermo, se non si ha la fortuna di poter frequentare certi luoghi della terra che sono... casa loro. Forse poi vi sarà capitato di vedere un rapace da vicino, in qualche fiera medievale e di rimanere incantati a contemplare la loro bellezza mentre sono sul pugno del loro falconiere, per poi, generalmente, passare oltre. Molti di voi avranno già visto quel luogo meraviglioso e fiabesco che è Gradara e, spero, molti di voi, avranno già provato le emozioni che Massimo Lanatà e il suo magnifico staff permettono di far provare al pubblico, entrando nel suo parco, vedendo questi animali meravigliosi da vicino e poi, con "Il Teatro dell'Aria", in volo. Se però non vi è ancora capitato, vi invito a farlo. Parlare con una persona come Massimo, dieci volte al primo posto in competizioni nazionali e internazionali di falconeria, un uomo che ha fatto della sua passione un lavoro, che ha dedicato e dedica tutta la sua vita a questi magnifici animali, è stata una bellissima esperienza perché è inevitabile, si impara molto, anche se quel che ci siamo detti non è nemmeno un millesimo di quella che è la sua conoscenza sull'argomento. Massimo Lanatà ha raggiunto i massimi livelli in ogni ramo possibile, riguardo ai rapaci, non solo per le competizioni sopracitate ed è un grande "modestone", non lo scrive sul suo sito, perché sarebbe come "voler stare su un piedistallo". Questo però non è il suo sito ed io preferisco dirlo che è un grande, perché la maggior parte delle persone non si rende conto che davvero, ci sono esseri umani che fanno cose grandiose nel nostro paese. Massimo si prende cura di esemplari unici, "protetti" e "particolarmente protetti" e dà l'opportunità a tante persone che nulla sanno di questi animali, di rimanere incantati, anche con quel che lui definirebbe "poco", ma che è già tanto, per chi non ha mai avuto prima l'opportunità di vedere e gustare la bellezza di questi volatili. C'è molto da leggere qui sotto, lo so, ma ne vale la pena. La potenza di un'aquila, di un gufo reale, di un falco... insomma, non vale la pena di approfondire? Questa è la chiacchierata che ho fatto con Massimo; leggete, gustate, aprite gli occhi. Forse anche a voi verrà voglia di continuare il suo sogno. Lui che sta lavorando non solo per portare avanti questa meraviglia diventata realtà, ma anche per far si che questa realtà continui, anche quando lui non potrà farlo più.


Come ti sei avvicinato alla falconeria? "Avevo undici anni e trovai un falchetto a cui avevano sparato. Lo volevo curare e all'epoca ovviamente non c'era Google! quindi l'unico strumento da cui potessi estrapolare qualche informazione era il vocabolario Zanichelli. Lì ho cercato e letto delle parole "falco", "falcone", "falconeria" e da quella definizione iniziò la passione per i falchi."

Ah, però, fin da bambino dunque. C'è un rapace al quale ci si può affezionare di più, con il quale è più facile stringere un legame? E se si, ci si può affezionare a un animale di questo tipo come ci si affezionerebbe a un cane, a un gatto, a un animale domestico? "Certo, ci si può affezionare in egual modo, dipende tutto dal tempo che dedichi a un animale, non c'è un animale a cui puoi affezionarti più che a un altro, parlando di specie, secondo me."
Charlie, Nibbio Reale
Ne hai uno tuo "personale", diciamo così? "Gli animali sono tutti di mia proprietà ed ognuno ha una caratteristica diversa che fa si che, di conseguenza, io possa affezionarmi ad ogni soggetto per un comportamento che ha rispetto ad altri ai quali mi affeziono in un altro modo. Può essere per il modo in cui l'animale si approccia all'uomo, come può essere un aspetto totalemente diverso. Ad esempio, l'aquila gratifica il sacrificio che fai salendo a mille metri d'altezza, mentre il falco mi accetta in un modo tale, così vicino, da potermi avvicinare al nido mentre sta badando alla sua prole. Dunque... non c'è un modo di affezionarsi di più o di meno, ma emozioni diverse, che non hanno più valore l'una rispetto all'altra, perché sono profonde tutte e due."

Dunque il falco si lega più facilmente all'uomo? "Non solo il falco, diciamo che gli animali che più si legano sono quelli più intelligenti e... i più intelligenti ad esempio sono gli avvoltoi. È ovvio che nell'immaginario collettivo l'avvoltoio è "quello che mangia le carogne" ed è visto un po' come un topo, come un rettile, per dire. Invece sono animali pulitissimi e particolarmente intelligenti, che si legano all'uomo e possono trasmettere affetto in quantità inimmaginabili."

Tra l'altro la specie di avvoltoi che avete al parco non è "il classico avvoltoio" che siamo abituati a vedere, quello un po' più "brutto" per l'immaginario collettivo diciamo. "Beh si... poi il brutto e il bello sono soggettivi, perché di solito c'è l'abitudine, purtroppo, di collegare la bellezza o la bruttezza di un animale a quello che rappresenta, non all'animale in se. Se si pensa all'avvoltoio lo si percepisce in un certo modo, come brutto, per quello di cui si nutre, non per quel che è realmente. Se poi invece ti avvicini a un avvoltoio e lo guardi, senza pensare a quel che mangia, in realtà ti accorgi che è un animale dalle fattezze bellissime, indescrivibili."

Di che specie sono gli avvoltoi che avete voi? "Noi abbiamo avvoltoi grifoni, fulvo e rupellis, avvoltoi capovaccai pileati, avvoltoi delle palme, avvoltoi Urubu' e avvoltoi Collorosso."
Coco e Mango - Avvoltoi delle Palme
Presumo che tu sia un amante della natura in generale, è così? "Si, non credo ci sia una grande differenza tra un falconiere o chi lavora con i delfini piuttosto che con i felini o gli orsi. Il problema è solo uno: nel momento in cui ci si avvicina con titolarità d'ignoranza si commettono degli errori, non si ha quel sapere finalizzato a poter interagire con l'animale nel modo corretto; nel caso in cui si conosca invece il linguaggio della specie dell'animale con cui si sta trattando, si riesce ad interagire con lo stesso perché si conosce la sua vera natura e dunque si raggiungono grandi livelli. Livelli per i quali spesso si dice "ci siamo affezionati di più". In realtà non è così, la realtà è che siamo riusciti a dialogare di più con l'animale. Il dialogo non necessariamente deve essere verbale, anzi il dialogo principale è il dialogo non verbale, del corpo. Se l'animale interagisce con l'uomo significa che ha trovato il modo per farlo; noi abbiamo un feedback e l'animale risponde."


Il linguaggio vocale, anche in lingue diverse, spiega Massimo a una mia richiesta di chiarimento, non fa la differenza. Non sono le parole, ma la voce del falconiere, a fare la differenza. Durante lo spettacolo, in quarant'anni di questo mestiere, Massimo ha raccolto ed assimilato frasi e linguaggi in diverse lingue, dunque capita che durante lo spettacolo possa dire "Vieni qui" in italiano, piuttosto che in inglese o in ungherese, ma non è la parola in lingue differenti che dà il via all'animale, bensì l'insieme di gesti e movimenti del corpo (ndr).

Dopo tutti questi anni senti ancora quella fascinazione, quella sensazione di forza, perfezione, che posso aver provato io nell'assistere allo spettacolo? "Il fascino viene dalla conoscenza... durante lo spettacolo è tutto diverso. Il pubblico nella maggior parte dei casi non ha conoscenza rispetto a questi animali, dunque è più facile che provi una grande emozione. Per uno spettatore non fa differenza vedere un'aquila volare a mille metri d'altezza o vederla volare a dieci centimetri dalla propria testa, sarà sempre comunque una grande emozione perché se una persona non ha mai visto un'aquila ne rimane comunque affascinato, anche se in realtà c'è un'enorme differenza tra farla volare basso e farla volare a mille metri d'altezza. Per far volare un'aquila a mille metri ci vuole una conoscenza tecnica impressionante, per farla volare basso... diciamo che è "una banalità" per un falconiere, ma per te che non hai mai visto volare un'aquila sarà lo stesso. Così sarà se faccio volare un gufo reale, non l'hai mai visto e ti affascinerà, senza però sapere che far volare un'aquila è molto più rischioso, ci vuole molta più preparazione e più tecnica. Ci sono dunque diversi tipi di fascinazione: se io parlo ad esempio con un ornitologo, prima che io dica qualcosa, lui saprà già di che cosa sto parlando, perché è scienza. Durante uno spettacolo io mostro quel che un animale può fare in quel contesto, ma è una cosa diversa. La sensazione che una persona prova è legata a quel che sa di quell'animale. Personalmente, ne sono sempre più affascinato"

Dipende dalle persone in sostanza... io sono uscita da lì con la voglia, avendone la possibilità, di provare a fare falconeria, poi c'è qualcuno che magari resta affascinato, però la cosa si ferma lì. "Si, è soggettivo, dipende dalle propensioni personali. Io ad esempio, mentre parlo con te, ho un ragazzino di undici anni attorno, che viene da Belluno, che è... diverso per così dire, ma è diverso perché non gli interessano le cose che generalmente interessano a un bambino di quest'età. Lui non ama i cellulari, non ce l'ha nemmeno il cellulare e per farsi una foto chiama il padre; non ama giocare con il computer o su Internet, non gli interessa e non sa nemmeno come accenderlo un computer, però magari sa che il canarino che ne so, ti dico una stupidaggine, beve acqua minerale anziché naturale, per dirti. Questo perché vive gli animali, vive la natura ed ha attenzione verso alcune sfumature esistenziali che altri bambini non hanno. Secondo me è ovvio che se cresce in questo modo cresce bene, mentre se cresce come la maggior parte dei bambini, beh, cresce incompleto. Mi spiego: tolto da un computer, senza uno schermo, che è un qualcosa che fossilizza, lui vive la realtà e viene stimolato ad usare la testa. Prendi un qualsiasi essere umano, toglilo dalla scrivania e prova a metterlo in campagna, ma per campagnia intendo, che so, ad aiutarti a disintasare una fogna, oppure a dirgli "dammi una mano che dobbiamo tagliare la siepe" o un semplice "guardiamo dove si è fermata la monetina nella lavatrice". C'è il modo di dire, "Il bisogno aguzza l'ingegno", ma se tu prendi uno che è sempre stato attaccato a un computer, aspetta e spera che aguzzi l'ingegno! C'è la lavatrice intasata dalla monetina? Bene, chiamiamo l'idraulico! Nemmeno ci pensa alla soluzione, ad ingegnarsi per risolvere un problema. Un bimbo che vive la natura si abitua spontaneamente a porsi la domanda e a cercare la risposta, la soluzione, cresce con la voglia di risolvere il problema e non si ferma di fronte a una mancanza di conoscenza. Un po' come in matematica: colui che impara a memoria la formula è un cretino immatricolato, perché se dimentica la formula non va da nessuna parte; colui che invece sa sviluppare la formula, andrà sempre a crescere, perché se anche dimentica un pezzo di formula saprà arrivarci in un altro modo o la saprà ricostruire unsando la testa."

È un po' come quando io dico che non è detto che un laureato sia intelligente... "Esatto. Un laureato può essere intelligente come non esserlo. Essere colti è una cosa, essere intelligenti è tutt'altra cosa. L'intelligenza è elaborazione: con i mezzi che ho, trovo una via e risolvo il problema che mi si pone. C'è chi ha, tornando all'esempio dell' idraulico, un martello, dieci cacciaviti e chi più ne ha più ne metta e non riesce nemmeno a svitare una vite per smontare il lavandino; c'è chi ha pochi strumenti, ma con quelli arriva comunque a sviluppare la soluzione e continua crescere."

Ti ho sentito parlare di diverse fasi, dall'ammansimento all'addestramento... "Certo, facendo l'esempio di un bambino... tu non puoi dirgli solo che due più due fa quattro, devi cercare il dialogo con lui prima di poterglielo insegnare."

Si appunto... e come funziona? Sono cuccioli? "Non necessariamente, sono diverse fasi o meglio è la stessa fase, ma si affronta in modi diversi. Se tu hai un bimbo che viene dall'Africa e uno che viene dalla Calabria, non puoi parlare a tutti e due in francese. Devi trovare il linguaggio per comunicare, ma prima ancora di far questo devi fare in modo che quel bimbo sia disposto a sedersi accanto a te e ad ascoltarti."

E come si fa con un falco, un'aquila...? "Prima lo devi calmare. Se una persona o un'animale, hanno paura di te, a prescindere dal linguaggio che usi non ti ascolteranno mai. Devi fare in modo che sia "disposto a sedersi al tuo fianco", dopodiché sta a te. Il linguaggio che metterai in campo viene in un secondo momento. Prima non deve aver paura, deve sapere che non rappresenti un pericolo, poi sta a te fargli capire che si può fidare. Non avere paura non comprende il fidarsi di qualcuno, mentre il fidarsi implica in se che non hai paura. La prima fase è dunque far si che l'animale non ti tema, poi che si fidi, poi che trovi in te la fonte per qualcosa. Cibo? Gioco? Quante volte noi insegnamo qualcosa a un cane attraverso il gioco o attraverso un premio? Quello è il primo passo del linguaggio; il linguaggio del gioco per raggiungere un obbiettivo. La mamma, attraverso un dialogo amichevole fa si che il figlio comprenda una certa cosa, per fare un esempio. Se il babbo è impaziente e gli dice: "O fai così o ti spezzo le ossa" è ovvio che l'approccio cambia, non c'è un dialogo, c'è timore. E visto che i rapaci sono animali selvatici, con una loro specifica natura, è normale che sia necesario trovare un dialogo preciso. Un colombo, una cornacchia, sono più propensi ad avvicinarsi all'uomo perché sanno che dall'uomo possono avere cibo. I falchi, nel medioevo, ai tempi di Federico II, quando venivano catturati, non amavano particolarmente l'uomo. Il rapace sa che l'uomo, in quanto predatore, non è una risorsa, bensì un pericolo. Nel Medioevo, quando venivano catturati dalla natura per essere addestrati, non come ora dunque, che sono animali nati già in un contesto non selvatico, il falco, l'aquila, tentavano di scappare e dunque il primo passo di quegli antichi falconieri era evitare che l'animale vedesse l'uomo, il falconiere. Al tempo purtroppo lo facevano attraverso la cigliatura, gli chiudevano gli occhi e continuando a passarsi l'animale, da braccio a braccio, l'animale trovava un suo equilibrio psicofisico, per cui si abituava alle voci. Dopo questa fase, gli venivano aperti gli occhi e veniva messo in una stanza senza troppa luce nella quale pian piano potesse cominciare a vedere il volto del falconiere e ad abbituarsi e via via così. Ora per fortuna non siamo più nel medioevo e per ammansire un falco si usa lo strumento del cappuccio, che lo aiuta a stare tranquillo, a sentirsi al sicuro. Rispetto poi a quei tempi è tutto diverso: devi pensare che per fare questo tipo di cosa, per abituare l'animale alla voce, al rumore, ad accettare tutto questo e ad accettare involontariamente di stare sul braccio, c'erano cinque o sei falconieri. Ora io, singolo falconiere, non potrei mai fare una cosa simile giusto? Perché posso anche stare con il falco sedici ore, ma poi dovrò pur dormire, mangiare e nel frattempo il falco si destabilizzerebbe e quando poi dovessi ricominciare dovrei ripartire da zero. Così mi sono inventato un modo per risolvere il problema. Se io tolgo il falco dal pugno quando ha trovato un equilibrio, il falco perde l'equilibrio e non si può addormentare tranquillo, dunque io lo metto su un altalena e lui si sente tranquillo. In secondo luogo c'è l'elemento della voce, del parlare, del suonare uno strumento e dunque io accendo la tv e lì scorre tutto ciò che serve. Musica, parole... e il falco mantiene l'equilibrio e non perde il contatto con il rumore delle parole o della musica o quel che è."

Che differenza c'è tra falco e falcone? "Il falcone è quello che un tempo poteva essere solo dei nobili, degli imperatori ed era il "falco col dente". Il dente è sulla parte ricuva del becco e tutti i falchi con questo dente, al tempo, venivano considerati falchi nobili perché di fatto, la maggior parte dei falchi detti "per la falconeria" avevano questo dente. Poi all'interno dei così detti "falconi" ci sono le diverse specie, può essere il Pellegrino, il Sacro, il Falco e così via. E poi c'era lo Smeriglio, che era considerato il falco delle donne perché era più piccolo, ma soprattutto perché era delicato e molto ambito per le sue capacità venatorie. C'erano poi altri tipi di falchi considerati nobili per la presenza di questo dente, ma che dal punto di vista venatorio erano meno ambiti perché magari si nutrivano di piccoli uccelli, lucertole e così via. In sostanza dunque il termine non è legato alla grandezza, ma alla rilevanza che questi falchi avevano nella falconeria antica. Ci sono poi rapaci detti "ignobili", ma non nel senso in cui lo si intende ora. Erano grandi cacciatori, come lo Sparviero ad esempio, citato anche da Dante ne "La Divina Commedia", ma solo falconieri esperti potevano possederne uno, poiché è un animale piccolo, delicato e se non sei un esperto falconiere è facile farlo morire, perciò non era adatto ai nobili."

Dicevi che la maggior parte degli animali che avete al parco sono specie protette? Mi spieghi un po' di questo? "Tutti i rapaci sono specie protette, ma si distinguono in due categorie: "specie protetta" e "specie particolarmente protetta". "Specie protetta" significa che in natura non ce ne sono tanti, ma non rischiano l'estinzione, però essendocene pochi esemplari, per evitare che questo accada, gli Stati che hanno firmato le convenzioni riguardanti questi argomenti, hanno stilato un elenco di animali, introducendo quelli che devono essere protetti perché numericamente pochi. Gli animali invece in via d'estinzione sono chiamati "particolarmente protetti", perché in natura ce ne sono pochissimi esemplari. La differenza sostanziale è che gli animali protetti possono essere prelevati dalla natura, con autorizzazione speciale. Ad esempio: parliamo di Avvoltoio Grifone Rupellis. È un avvoltoio che vive in Africa e appartiene alle specie protette, ma non rischia l'estinzione. Se un anno la riproduzione di questi esemplari va particolarmente bene e ci sono mille esemplari, per fare un esempio, in più rispetto a quel che il territorio stesso può ospitare e rispetto anche alla quantità necessaria perché questi animali non rischino l'estinzione, lo Stato, dopo aver fatto studi e censimenti, può prelevarli dalla natura. Seguendo le normative per il benessere animale, contrassegnandoli e rispettando tutti i paramentri, li può catturare e commercializzare. Per gli animali "particolarmente protetti" invece non si può assolutamente fare e il prelievo dalla natura può essere fatto solo ed esclusivamente per motivi scientifici. Fondamentalmente accade questo: sono rimasti quattro esemplari in natura e rischiano l'estinzione? Ok, si prelevano tutti e quattro, si fanno riprodurre in cattività con le moderne tecniche ora a disposizione e si eliminano i fattori che hanno portato l'animale all'estinzione. Dopodiché, i piccoli che nasceranno verranno messi in natura per ripopolare la propria specie e saranno così anche più forti. Questi esemplari unici, i pochi rimasti, vengono affidati a strutture riconosciute, in modo da essere sempre protetti."

Kubo, Aquila Pescatrice Americana - specie particolarmente protetta

Il calcolo della velocità: "Il calcolo della velocità generalmente viene preso in considerazione come avviene per i caccia militari, dunque in picchiata. Nel caso dei rapaci però, la velocità importante non è solo quella in picchiata, ma anche quella che riguarda la destrezza del volo in linea retta. Per fare un esempio, lo Sparviero è un animale che in volo ha l'abilità di fare acrobazie pazzesche e solo vedere un filmato rallentato può far comprendere quanto sia splendido e dargli giustizia. Per quanto riguarda il Falcone Pellegrino, la velocità è stata misurata ma, attenzione, con falchi addestrati. Un falco addestrato, nato in cattività, per quanto sia veloce, non avrà nemmeno un quarto del potenziale di velocità, forza e agilità che ha lo stesso animale in natura. Questo perché l'animale nato e cresciuto con l'uomo è condizionato ed anche un falco da medaglia d'oro o comunque da primo premio, avrà una struttura muscolare, uno sviluppo, nettamente inferiore a un animale selvatico. Persino il momento dell'anno in cui nasce fa la differenza. Per questo non ha senso reale prendere per buona la velocità misurata su falchi addestrati, che è già elevatissima, ma non è la reale velocità rispetto a quella che hanno in natura. Se un falco addestrato arriva in picchiata a 350 km/h, un falco in natura arriverà a velocità di gran lunga superiori."

Dorella, compagna di Massimo e preziosa collaboratrice, con Katia, splendido Gufo Reale Siberiano
Com'è nata l'idea del centro? "Beh, ai tempi facevo competizioni, nazionali e internazionali e nel frattempo per mantenermi producevo accessori per falconeria, cappucci, guanti, borse, questo tipo di cose, ma se avessi continuato in quel modo avrei dovuto vivere sempre in giro, fare l'ambulante da uno Stato all'altro inseguendo le competizioni e certo non era un guadagno che poteva darmi stabilità. Al tempo non era diffuso Internet, dunque la roba si vendeva, ma si vendeva più che altro ai raduni e alle competizioni. Volevo dunque trovare un'alternativa perché non potevo girare in lungo e in largo per tutta la vita e durante le competizioni mi ero accorto che negli altri Stati, Germania, Francia, Austria e così via, facevano gli spettacoli di falconeria. Ho pensato a una location che potesse permettermi di fare questo tipo di cose e all'inizio facevo spettacoli itineranti e competizioni e vivevo di questo; nel frattempo ho studiato quale potesse essere la zona migliore per avere una "base fssa" dove poter tenere gli animali e mostrarli al pubblico attraverso gli spettacoli, che oltre ad essere una bella cosa mi avrebbe permesso di far diventare definitivamente la mia passione un lavoro. Ho cercato quale fosse la zona a maggior attrazione turistica e tra le zone individuate ho scelto la riviera adriatica perché è una zona non solo dove c'è turismo, ma dove il turismo è particolarmente concentrato. Una volta scelta la zona ho cercato le zone con castelli, ma anche i castelli dovevano avere delle particolarità tecniche, un posizionamento, una struttura, un attraversamento di venti di un certo tipo. Doveva esserci l'ambiente ideale per il volo, ma anche lo spazio, sia per gli animali che per il pubblico, dunque parcheggi ecc. Scartandone uno dopo l'altro sono arrivato a scegliere Gradara e lì mi sono concentrato su tutte le possibilità che avevo per realizzare il progetto e per farlo conoscere una volta fosse aperto. Ovviamente il tutto è stato preceduto dalla fase di progettazione."

Che è stata molto lunga dicevi... "Si, perché l'unica area in cui poteva esserci lo spazio necessario era demanio dello Stato, aveva un vincolo storico culturale, dunque ho cercato con tenacia tutte le soluzioni possibili e alla fine ci sono riuscito. Certo, se si dice che la dea fortuna è bendata... come si dice, la mia sfiga ci vedeva davvero benissimo!" (Massimo ci ha messo quindici anni ad aprire il centro... ndr).

E la signora alla quale, durante lo spettacolo, hai dato merito di essere stata importante per la realizzazione di questo sogno? "Quella signora è parte di una storia particolare. Ero molto legato a suo fratello. Quando io tornavo dalla Germania, ragazzo del sud con la busta di plastica, trovavo appoggio da suo fratello, che mi ospitava a Cattolica. Tra l'altro, con molta delicatezza, senza mai volerlo far notare, questo signore – nonostante non fosse un falconiere, ma solo un appassionato – faceva sempre finta di aver bisogno di qualcosa. Accessori, cappucci, gli procuravo io i falchetti, ma non aveva una reale necessità, lo faceva solo per aiutarmi... Quando poi è mancato, prematuramente, per un tumore, sua sorella, la signora che hai visto appunto, mi ha chiamato e mi ha donato tutte le cose che suo fratello aveva comperato da me, tutti gli accessori fatti a mano, i libri... e me li ha dati in una scatola... che ancora io conservo, chiusa, perché è davvero difficile per me aprirla. Dunque a questa famiglia devo molto."

La parte più difficile è il dietro le quinte... "Si, il mantenimento del posto, prendersi cura degli animali e preparare lo spettacolo. Anche lo spettacolo se noti è molto dinamico, non si perde tempo tra una cosa e l'altra ed avendo poco spazio è ancora più difficile fare questo, perché ci deve essere sempre una persona che preleva l'animale dal box, un'altra che lo riceve dalle mie mani e così via..."

Dovete continuare a passarvi i rapaci perché tutto funzioni. "Si, perché potrebbero spevantarsi, attaccare, scappare; dobbiamo fare in modo, in maniera molto precisa, che gli animali siano a proprio agio e che lo spettacolo funzioni, senza incidenti per nessuno naturalmente. Poi appunto il mantenimento del luogo, la pulizia, il fatto che sono tutti animali in addestramento continuo, non sono animali da zoo, dunque ogni giorno vanno controllati, pesati, per il loro benessere e anche perché tutto vada come deve andare. La pulizia è un aspetto fondamentale, anche perché come tutti gli animali che mangiano carne, anche i rapaci fondamentalmente... puzzano, dunque noi siamo sempre con la canna dell'acqua in mano, a pulire e ripulire. C'è un lavoro davvero immane dietro a quel che si vede nello spettacolo."

Il peso ideale di cui parlavi anche durante lo spettacolo. Cosa si intende per peso ideale? "Il peso ideale o peso forma è chiamato Yarak. È il peso ideale sia per il benessere dell'animale che per far si che l'animale sia nella forma migliore per essere addestrato e interagire con il falconiere. Non deve sentirsi appesantito e non deve essere sottopeso o gli mancheranno le forze. È poi legato al singolo individuo. Anche all'interno della stessa specie. Non esiste un peso ideale "per specie", perché il peso è legato alla grandezza della testa, dunque ogni giorno io devo controllare che ogni singolo individuo abbia il peso giusto rispetto alle sue dimensioni specifiche. Oltre a questo, io definisco lo Yarak, non nella concezione più ufficiale di peso fisico, ma anche di equilibrio. Come succede a noi, anche a un animale può capitare di non dormire bene, di svegliarsi più nervoso, di non essere "dell'umore" e può capitare che il peso sia quello giusto, il peso forma, ma che l'animale non sia pronto a interagire con me."

E da cosa lo capisci visto che il peso è quello giusto? "Me ne accorgo nel momento in cui ho l'animale sul pugno, dal suo sguardo, se guarda me o guarda altrove, dai movimenti che fa, dall'approccio sul guanto, da una moltitudine di piccole cose difficili da spiegare, che io vedo perché sono quarant'anni che faccio questo lavoro e che mi fanno capire che l'animale non è in forma, non perché il peso non sia quello giusto, ma semplicemente perché, per qualche motivo che io non so, che non posso sapere, non è la giornata giusta. Dunque appena me ne accorgo, appena percepisco il suo disagio, praticamente subito, appena lo prendo sul pugno, lo rimetto tranquillo dov'era e lo lascio stare e quel giorno non farò nessun lavoro di preparazione con lui. Deve restare tranquillo."

Mi spiegavi poi della percezione del pubblico, rispetto alla percezione oggettiva e rispetto – appunto – a quello che è lo spettacolo. "Certo. La percezione del pubblico generalmente non è oggettiva, nel senso che è naturale che se noi hai mai visto un'aquila da vicino, non l'hai mai vista volare, la tua percezione sarà già alta; il discorso però è che io durante lo spettacolo, ora, non do al pubblico il massimo, perché sarebbe assurdo dare il massimo e poi non avere nulla di nuovo da proporre l'anno successivo. Di anno in anno io progetto cose nuove. Anche ora, sto progettando un sacco di cose, scenografie, una storia, effetti di luci, magia..." (segue la spiegazione di quel che Massimo ha ideato, qualcosa di straordinario che ovviamente non riporterò, dovete andare a vederlo! ndr).

Sei falconiere, imprenditore (tra le altre cose, Massimo, dai banchi ambulanti di vendita di accessori per falconeria fatti a mano, è riuscito ad arrivare a mettere in piedi un'azienda di produzione di questi accessori con cinquemila clienti, ndr) presentatore, scenografo, regista... poi? "Beh, bisogna essere così... sono uno e faccio io, anche perché al di la' dello staff fisso, sono io quello che si occupa di queste cose e non posso assumere la figura specifica del presentatore, quella dello scenografo, ecc ecc ecc... dunque faccio io!"

Durante lo spettacolo, quando hai fatto provare anche i bambini a ricevere sul pugno la Poiana del Deserto, dicevi che da mamma riconosce il bambino. È solo spettacolo o è una cosa reale? Al di là del fatto che, come spiegavi – e infatti non attaccano neanche gli adulti – per quell'esemplare c'è una storia di imprinting con te. "È vero, tutti gli animali riconoscono i cuccioli. Prova ne è che ci sono stati casi di bambini caduti allo zoo negli habitat artificiali dei gorilla e... il gorilla aveva la tendenda a proteggere il bambino. Poi è certo anche un collegamento che fa parte dello spettacolo, è una cosa dolce, è vera, ma è anche spetttacolo ed io, da falconiere/ presentatore, poi mostro e do l'informazione che riguarda invece l'imprinting, facendo vedere che – appunto – non attacca neanche un adulto."

Spiega l'imprinting. Avviene quando l'animale è cucciolo? "Ci sono diversi tipi di imprinting. Nel caso dell'imprinting territoriale non è detto che l'animale debba essere cucciolo. Può esserlo e crescendo in un posto si lega a quel territorio che riconosce come suo, ma può essere anche un animale che viene da un altro posto, ma che si abitua a quel territorio come faremmo noi e dunque poi, anche lui lo riconoscerà come suo. C'è poi l'imprinting nei confronti del falconiere. Il legame. Se è cucciolo avviene subito, se è più grande avverrà negli annni, convivendo con il falconiere, ma questa cosa avviene veramente in anni ed anni. Ti ricordi il Grifone grande? Lui ha trentotto anni, da venti ce l'ho io e ce ne sono voluti diciotto perché lui mi considerasse un potenziale punto di riferimento. C'è poi l'imprinting sessuale. Se l'animale cresce con te, una volta che raggiunge la maturità sessuale ti vedrà come un partner, un compagno vero e proprio e dunque sarai fin da subito il suo punto di riferimento."

Ma perché ti vede come compagno e non come padre o capo "branco", passami il termine. "È una cosa che l'umana concezione non può concepire. In natura, tra falchi, padre e patner hanno spesso ruoli interscambiabili. Se tu prendi una coppia di falchi e dopo un certo numero di anni provi a togliere la madre e lasci la figlia, la figlia prenderà il posto della madre; se poi rimetti la madre al suo posto, lei tornerà ad essere la madre e la figlia tornerà ad essere la figlia. Per la concezione umana è una cosa mostruosa naturalmente, ma nel contesto della natura selvaggia è un meccanismo sistematico che serve a rafforzare i caratteri."

Nel 2010, la falconeria, è stata dichiarata patrimonio immateriale dell'umanità.

Dopo tutte queste informazioni, posso solo dirvi che aver assistito a uno spettacolo ne "Il Teatro dell'Aria" di Gradara, con Aquile, Falchi, Gufi Reali, Poiane del Deserto e tutte le altre meravigliose specie presenti, è stata un'esperienza che a me ha lasciato molto. Se ne avrete l'occasione, andateci. La passione e la professionalità di chi lavora in questo luogo, sono impagabili.

Non smettete mai di stupirvi. Che si tratti di un cielo stellato, di un tramonto, di un albero, di un animale. Smettete di dare per scontata la loro esistenza. Stupitevi, sempre, come quando eravate bambini. Siate curiosi, tenete aperti gli occhi, guardate e vedete. Siamo a conoscenza di quanto lottino gli animali, ogni giorno, per sopravvivere. Per il normale decorso della specie, certo, ma spesso, sempre più spesso perché è l'uomo a rompere gli equilibri incisi nel loro DNA. La cosa preoccupante è che anche esserne a conoscenza non basta, è necessario volerle sapere le cose, non solo esserne a conoscenza. Persino l'umanità lotta per riuscire a vivere e la causa di questa continua lotta è sempre l'uomo stesso, di qualsiasi cosa si parli. Sappiamo che è così. La Terra combatte, sempre, per sopravvivere all'uomo. Cercate di pensarci ogni tanto, non date per scontato nulla o, come per ogni cosa si faccia e si pensi "dandola per scontata", sarete cechi.

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