Eravamo
rimasti ad Ince, Sennett e Griffith, i primi tre grandi del cinema
e... agli anni dieci, con relativi sviluppi, innovazioni e nascita di
generi cinematografici, tra i quali il western americano. Dunque ora
il passo successivo: nei primi anni della Grande Guerra. In quegli
anni Hollywood si consolidò del tutto a capitale mondiale del
cinema, grazie a una base finanziaria solida, vasti canali di
distribuizione, miriadi di artisti, tecnici, attori e produttori che
contribuirono a rendere il cinema americano tipico e ben
distinguibile e grazie a una prestigiosa organizzazione tecnica che
faceva la differenza, insieme a tutti gli altri aspetti sopracitati.
Negli anni dalla fine della prima guerra mondiale sino alla crisi del
'29, si trovò nel cinema americano uno specchio della realtà nei
suoi molteplici aspetti e due artisti, in particolare, fecero la
differenza: Eric von Stroheim e Charlie Chaplin, i migliori allievi –
rispettivamente – di Griffith e Sennett. I due iniziarono a creare
quelle che poi sarebbero state e rimaste nel tempo le migliori opere
del cinema americano degli anni '20. La struttura artistica e
produttiva americana di stampo hollywoodiano si impose con il marchio
di fabbrica di grandi case cinematografiche come la Fox, L'Universal,
la Paramount e la First National, che fin da allora furono sinonimo
di qualità. Nacquero in quel periodo, i primi divi del cinema. Il
divismo era frutto del crescendo di una realtà che sempre più
diventava per il pubblico un mondo a se, lontano dalle leggi comuni
della società. Il pubblico non distingueva più, così, la realtà
dalla finzione, la vita privata degli attori da ciò che era solo
frutto del lavoro artistico. La vita e l'arte di apparteneva a questo
mondo, si fondevano in un'unica dimensione dell'esistenza. Gli
spettatori che affollavano le sale riversavano le proprie
preoccupazioni, le proprie angosce e speranze, nel sogno che lo
schermo poteva dare agli occhi e al cuore a poco prezzo e la
stabilità, la libertà che avevano i registi, gli attori, i
produttori, permetteva al grande cinema di distinguersi dalle
produzioni fatte solo per "il consumo"; potevano essere
così affrontati argomenti d'ogni sorta, c'era una grande varietà di
generi e potevano essere affrontati argomenti anche profondi e
attuali. Fin da allora poi, nacquero due tipologie di "divo"
o "diva". Per intenderci, attori quali Douglas
Fairbanks (eroico e cavalleresco) e la moglie Mary Pickford (chiamata
anche "la fidanzatina d'america", "la piccola Mary"
ed altri appellativi simili) rappresentavano "i buoni" e
divennero modello di un certo tipo di americanismo, sia in patria che
all'estero, che portò loro grande un grande successo, anche al di là
delle loro reali capacità di attori. Furono la prima coppia celebre
del cinema americano. Fairbanks era vitale, simpatico, acrobatico e
pur se non fu un grande attore, aveva tutte le qualità per essere,
appunto, un divo, un personaggio che incarnava il mito
dell'autoesaltazione come strumento del successo. La moglie, dal
canto suo, fu anche produttrice e fondatrice dello studio
cinematografico United Artists e una dei trentasei fondatori dell'
Accademy of Motion Pictures Arts and Sciences. Al divismo "buono",
considerato "educativo" e che poteva essere "d'esempio
agli spettatori", si contrapponeva il divismo "trasgressivo",
quello scandaloso, provocatorio, di attori quali Theda Bara e Rodolfo
Valentino. Theda Bara fu la prima "vamp" (termine che
deriva tra l'altro da "vampire", non a caso). Venne portata
al pubblico come la donna tentatrice, la donna fatale e perversa che
si diverte a rendere gli uomini suoi schiavi per poi liberarsene una
volta conquistata la loro adorazione. Il tutto palesemente
progettato, fin dal nome d'arte, fin dal primo ruolo secondario con
il quale venne lanciata dalla Fox: un melodramma, "La vampira"
(1915), attraverso il quale nacque per l' appunto il suo pseudonimo
di Theda Bara, anagramma di "Arab Death". Immagini
conturbanti in abiti egizi, contornate da ragnatele e serpenti. Ecco
come è nata la "cattiva ragazza" del cinema di quei tempi.
E Rodolfo Valentino? Beh, anche chi non è un grande appassionato di
cinema, almeno una volta nella vita avrà sentito dire qualcosa che
lo riguarda. Ancora oggi è considerato il divo per eccellenza.
Latino, passionale, non il "cattivo" in realtà, quanto
piuttosto l'uomo fuori dai canoni del tempo, il primo vero sex
symbol, il "Latin Lover", con qualità recitative e uno
stile inconfondibile ammirato da tanti grandi del cinema, tra i quali
anche Charlie Chaplin. Bello e provocatore, ballerino eccelso e
grande attore, venne ben presto consegnato alla leggenda come "il
divo insuperabile". Il marchio di fabbrica hollywoodiano, con la
sua adattabilità di temi, la sua qualità palesata, la sua
meccanizzazione a livello di "industria cinematografica",
si considera essere stata rappresentata al meglio dal regista Cecil
Blount De Mille che passò da opere drammatiche a film passionali che
diedero il via alla "commerdia libertina" e posero le basi
per i successivi "anni folli", per poi occuparsi di western
ed altri temi leggeri e ricambiare, ancora, proponendo "I Dieci
Comandamenti", un film biblico di grande spettacolarità, senza
lasciare da parte però le sue produzioni drammatico-passionali. Il
cinema di De Mille porta gli spettatori, in ogni caso e al di la'
delle tematiche trattate, fuori dalla realtà; ipnotizza il pubblico,
addirittura troppo preso dalle immagini che scorrono, per poter avere
il tempo di riflettere sulle tematiche che gli vengono proposte.
Charles Spencer Chaplin
Charles
Specer Chaplin. Anche lui si affermò negli anni dieci. Iniziò dal
teatro - come anche altri del resto – e giunse al cinema muto nel
1914, lavorando per Sennett. Con il cinema poteva finalmente dar
libero sfogo a tutto ciò che il teatro, per tempi e spazio, non
poteva consentire. Il personaggio che lo rese celebre, Charlot, ebbe
una sua evoluzione, fino al perfezionamento raggiunto dall'attore nel
1915, quando Chaplin smise di lavorare con la Keystone di Sennet e
firmò un contratto con la Essanay che gli permetteva di scrivere e
dirigere i propri film. In questo passaggio la comicità esteriore si
fa più profonda e porta al personaggio quella velata amarezza che
non vuole nascondere gli aspetti più negativi della società e della
realtà. Nel 1916 Chaplin passa alla Mutual e con questa casa di
produzione il personaggio di Charlot perde totalmente il carattere
della "macchietta". La poesia di Chaplin non ha più
limitazioni e diventa simbolo di contestazione verso il sistema
borghese e capitalistico, non si tratta più di sola satira di
costumi e umorismo, bensì di un personaggio che ha le sue radici nel
giudizio della società e della politica, un personaggio ideologico
che mette in risalto tutte le contraddizioni di quei sistemi che
contesta. Chaplin non smette mai di far evolvere il suo personaggio e
successivamete, pur mantenendo lo schema del film comico e pieno di
gag, il sentimento prende il sopravvento, il nucleo del dramma non è
solo la solidutine di Charlot e la critica, la satira, prendono forme
umanamente più dolci, nonostante non manchi mai, in ogni caso,
l'accenno alla critica stessa. Charlot si raffina nel tempo anche dal
punto di vista stilistico e pur mantenendo come base la mimica del
personaggio, lo spessore psicologico del personaggio si fa sempre più
nitido, le tecniche espressive sempre più fini e si arricchiscono
così anche le ambientazioni e la tempistica, che diviene sempre più
ritmata e scorrevole. Con l'arrivo della crisi del 1929 Charlot
riacquisisce le sue caratteristiche principali, con opere
comico-politiche di stampo chiaramente satirico (v. "Tempi
Moderni", 1936). Trovandosi nel mezzo della prima e della
seconda guerra mondiale, Chaplin riesce con le sue opere a concludere
il ciclo di tutto il lavoro precedentemente proposto con il
personaggio di Charlot. Nell'alta tensione internazionale degli anni
appena precedenti al '40, progetta una continuazione del personaggio
che si rivelerà poi con l'uscita de "Il dittatore" (1940),
la prima esperienza di Chaplin nel cinema sonoro. Nel 1947 esce
"Monsieur Verdoux" e il personaggio di Charlot è
sostituito appunto dal sig. Verdoux: cinico, egoista, avventuriero e
cattivo, Verdoux è il simbolo della perdita dei valori morali
dell'umanità, amarissimo ritratto di un mondo in cui l'interesse dei
singoli o di un gruppo prevale su qualsiasi cosa, un mondo in cui il
delitto è diventato solo un mezzo del potere, giustificabile, per
gli assassini, come se nulla fosse. Nei periodi successivi escono
film legati alle esperienze personali di Chaplin ("Luci della
ribalta", 1952 - "Un re a New York", 1957 e "La
contessa di Hong Kong", 1967). "La contessa di Hong Kong",
tra l'altro, è l'unico film da lui creato e diretto in tempi
recenti, in cui egli stesso non appare come attore, il suo unico film
a colori e l'ultimo film della sua incredibile carriera di attore e
produttore. E' un film in cui i protagonisti sono la nostra
meravigliosa ed eterna Sophia Loren e il grande, memorabile, Marlon
Brando. Da sottolineare inoltre, è che Chaplin è sempre stato anche
il creatore dellemusiche presenti nelle sue produzioni. Un artista a
tutto tondo, che è stato e rimarrà sempre unico, conosciuto da
tutti ma non abbastanza (nei tempi d'oggi) è diventato modello
difficilmente superabile di arte pura, leggera e brillante, senza
sconti e in continua fase di trasformazione, proprio come il mondo
che lo circondava. In una posizione di unicità, rispetto allo sfondo
delle produzioni hollywoodiane.
Per
quanto riguarda invece la storia professionale di Eric von Stroheim,
si parla di un uomo fortemente influenzato dal fascino che aveva,
rispettivamente, per il mondo aristocratico e per quello militare.
Figlio di un cappellaio viennese ebreo, egli si ritagliò inizlamente
ruoli da "rampollo aristocratico", ebbe poi molti ruoli in
cui interpretava ufficiali di vario grado dell'esercito americano e,
durante la seconda guerra mondiale, diversi furono anche i ruoli in
cui interpretava ufficiali nazisti. Il suo stile e il suo carattere
rigido si adattavano bene a ruoli duri e divenne così, in quel
periodo, la rappresentazione cinematografia del cattivo per
eccellenza. Alcune scene da lui intepretate come soldato tedesco, tra
l'altro, suscitarono grande scalpore e sdegno nell'opinione pubblica.
Questo però era il suo ruolo. In un' America oramai in guerra, egli
doveva portare al pubblico l'immagine del cattivo contro il quale il
Paese stava combattendo. Stroheim fece molta fatica ad iniziare la
carriera di attore, anche se poi, tra altri e bassi, fu interpete di
molteplici pellicole. Quando poi si dedicò alla creazione e alla
regia (una volta finita la guerra e con la fine delle richieste di
attori che interpretassero quel tipo di ruoli), riscontrò sempre
grossi problemi con i produttori, poiché era tanto pignolo, duro e
maniacale si può dire, da metterci ore ed ore ed ore già solo per
girare una scena di apertura. Questo lo screditò parecchio
naturalmente, poiché i suoi lavori da regista risultavano troppo
lunghi e costosi, ache se essendo a corto di offerte talvolta riuscì
a risollevarsi con lavori più adatti al cinema hollywoodiano, per
poi ripiombare nelle problematiche con i produttori una volta
riottenuta carta bianca. Per intenderci, uno dei suoi lavori, arrivò
a durare otto/dieci ore e fu integralmente proiettato una sola volta
in forma privata, per poi essere tagliato dai produttori fino a una
durata di due ore e rivenduto come film di serie B (cosa che
ovviamente non fece piacere al suo creatore, ma appunto, questo suo
modo di girare, fu in sostanza la sua rovina come regista). Dopo
diversi tentativi di proporre questo suo anomalo ma allo stesso tempo
geniale e titanico stile, si dedicò di nuovo solo alla recitazione e
negli anni ebbe ruoli talvolta nella scrittura di sceneggiature o
altri lavori come il tecnico, l' aiuto regista ecc... E' stato definito in
sostanza un altro grande della storia del cinema, capace di creare
capolavori riconosciuti quali "Rapacità", nel quale
realismo e mertafore visive si fondevano in un'unica cosa, con la
ricostruzione scenografica in studio, tra l'altro, di un'intera
strada di San Francisco dell'ottocento, curata nei minimi dettagli.
Usando, a differenza della gran parte dei registi americani del
tempo, la profondità di campo, egli creò sfondi ricchi di dettagli,
meno facili da accogliere per lo spettatore ma più ricchi di
significati diversi tra loro, anche contrapposti a quelli portati
dalle immagini in avanpiano. Nel 1955, Abel Gance – regista,
attore, sceneggiatore, produttore e montatore cinematografico
fancese – disse di lui: "Un genio, un uomo di immense capacità
che è stato messo nell'impossibilità di nuocere, costretto per
vivere a fare l'attore agli ordini di registi mediocri."
Stavo
pensando a tanti film che mi sono piaciuti, a quelli che ho adorato a
quelli che proprio non mi hanno convinto. Ho pensato a grandi
registi, attori e attrici, al grande lavoro che c'è dietro a ogni
film che vediamo, a quante persone al mondo vedono film ogni giorno;
mi sono venuti in mente i fratelli Lumière e così mi sono detta: ma
poi? Dopo di loro che è successo? E qui è partita la ricerca che
tenterò di condividere con voi al meglio. In effetti, addetti ai
lavori e studenti/ studiosi del settore a parte, credo siano rare le
persone che conoscono quello che è stato il grande percorso che ha
portato fino ad oggi, dunque, eccomi qui a riassumere il più
possibile quel che ho scoperto nelle mie ricerche, con un primo
articolo dedicato, a cui seguiranno poi altri articoli.
I
fratelli Lumière - Louis e Auguste - furono i primi,
alla fine del 1895, a far scoprire il cinema al pubblico e
questo lo sappiamo più o meno tutti. Come naturale che sia, non è
che la cosa sia nata all'improvviso e i due fratelli, prima di questa
prima proiezione, sperimentarono a lungo, si impegnarono in messe a
punto e richerche tecniche fino a che Louis riuscì a creare
l'apparecchio da cui tutto è iniziato: il Cinematografo.
L'apparecchio aveva le funzioni di ripresa e riproduzione di immagini
fotografiche animate; era azionato a manovella e consentiva la
riproduzione delle immagini per un tempo abbastanza lungo da
rappresentare azioni compiute e continue. Vista la scoperta ed
essendo consapevoli di quanto potesse avere successo una tale
innovazione, i fratelli Lumière, si cimentarono nella
commercializzazione su vasta scala della loro invenzione, ottenendo,
fin dal primo spettacolo del dicembre 1895, un grande riscontro da
parte del pubblico. Nelle prime proiezioni lo spettacolo era
costituito da una serie di brevi film di un minuto o poco più
ciascuno, per un totale di mezzora di spettacolo intervalli compresi
ed era costituito da scene familiari, di attualità,
piccoli sketch comici e informazione documentaristica.
Immaginate lo stupore degli spettatori. Noi siamo abituati al grande
cinema, ma pensate a quei primi spettatori, alla loro meraviglia, la
curiosità, le emozioni, nel vedere per la prima volta nella storia,
persone ed oggetti, la realtà, enfatizzata nei dettagli drammatici
come in quelli comici, riprodotta sotto forma di spettacolo animato.
La cinecamera era fissa e sembrava proprio essere come una porta
aperta su un mondo fino ad allora sconosciuto. La produzione dei due
fratelli si intensificò tra il 1895 e il 1899 e si concentrò
soprattutto sull'informazione alternativa, non pilotata, e
documentaristica. Nel 1896 assunsero alcuni fotografi e
questi signori avevano il compito di assicurarsi della corretta
riproduzione degli spettacoli e allo stesso tempo di catturare
fotograficamente scene, panorami francesi, stranieri ed esotici,
durante la loro permanenza nei diversi luoghi dove lo spettacolo
veniva proposto. Nacquero così anche la "carrellata" e
altri effetti cinematografici inventati da Eugène Promio, un
operatore francese d'origini italiane, che studiò questi espedienti
tecnici durante le riprese di alcuni film girati in differenti parti
del mondo. Andando avanti il cinema divenne sempre più un mezzo
d'informazione, con la funzione di far conoscere luoghi lontani e di
presentare fatti di cronaca tramite i primi veri e propri inviati
della storia. Iniziò così una folle corsa, la corsa dei vari
produttori di film dell'epoca per essere sempre i primi ad arrivare
sul posto dove qualcosa accadeva. Questa continua corsa, così
intensta, portò poi alla riproduzione di fatti accaduti realmente,
d'attualità e cronaca appunto, in scenari ricostruiti in studio.
Anche l'illusionista francese Geroge Méliès rimase ammaliato
dal cinematografo, poiché vide nella macchina la possibilità di
riprodurre illusioni che aveva già proposto a teatro. I fratelli
Lumière però decisero per questioni commerciali e di profitto di
non vendergli il Cinematografo e Méliès, nel 1896, costruì
un proprio apparecchio (il Kinetografo), dando il via a
spettacoli di fotografie animate, non molto lontani - per il primo
anno di attività cinematografica - dai primi lavori dei Lumière.
L'anno successivo però, fece un balzo di qualità, aprì un vero e
proprio studio cinematografico con il quale realizzò poi "film
con trucchi", che diventeranno la sua specialità ed erano
sostanzialmente una continuazione e un'amplificazione del suo
lavoro teatrale. L'illusione ottica, la meraviglia, il mistero,
erano alla base dei suoi lavori teatrali e il cinema permetteva di
amplificare tutto questo. Fu Mélies, in questo senso, a dare vita
allo spettacolo cinematografico. Furono girati negli anni
diversi film fantastici, d'avventura e anche comici,
continuò la produzione del cinema a trucchi portando le sue
illusioni in scena e rispetto agli altri aveva anche tecniche e
approcci diversi. I suoi film erano più lunghi,
suddivisi in scene ed episodi, erano ricchi di
ambientazioni e personaggi e lo schema era tratto dal dramma
tradizionale o dal romanzo d'avventura, con uno stile di recitazione
molto teatrale da parte degli attori. Gli stessi fratelli Lumière
riconobbero Mélies come il creatore dello spettacolo cinematografico
che avrebbe dato i natali a tutte le successive produzioni.
Nonostante ciò, nel 1912, la sua produzione si fermò a causa
delle grandi case cinematografiche che non lasciavano più spazio ai
produttori indipendenti e alle piccole case. Nei primi quindici
anni dalla creazione del Cinematografo, il cinema si era già
evoluto in qualcosa di molto più ampio, sia dal punto di vista
tecnico che dal punto di vista commerciale. Nacque in Francia,
Stati Uniti e in Gran Bretagna, una vera e propria
industria del cinema, con produzione e distribuzione delle
pellicole. Il cinema continuò ad arricchirsi, visto il grande
gradimento del pubblico, grazie ai produttori e naturalmente ai
creatori dei film e così nelle principali città vennero aperti
numerosi studi. Il primo grande industriale cinematografico,
che creò a partire dal 1896 un vero e proprio impero di produzione,
distribuzione e noleggio dei film, fu Charles Pathé, per
molti anni dominatore del mercato mondiale (in particolare tra il
1903 e 1909). Tra i suoi primi collaboratori vi fu Ferninand Zecca
(relizzazione, supervisione, produzione dei film e creazione di
un'equipe di persone specializzate: registi, operatori e tecnici).
Insieme, i due, daranno vita a film di ogni genere. Pathé cominciò
a ridimensionare il suo impero intorno al 1918, pressato dalla
concorrenza e nel 1929 decise di ritirarsi. Nel frattempo, nel 1895,
anche Lèon Gaumont aveva dato vita alla sua società di
produzione. Precedentemente impiegato in una fabbrica di materiale
ottico e fotografico, intraprese la via delle grandi produzioni
cinematografiche; inventore e costruttore di apparecchi di
proiezione e cineprese, commercializzò anche macchine di altri
inventori e la sua modalità di commercializzazione era ben precisa:
la vendita di ogni apparecchio era accomagnata da pellicole
dimostrative, che tra l'altro erano create dalla segretaria della
società, Alice Guy, considerata la prima regista donna.
Nel 1911, il Gaumont Palace di Parigi divenne la sala cinematografica
più grande al mondo, con 3400 posti a sedere. Nel 1930 la società
venne messa in liquidazione e riaperta con nuovo nome nel 1938.
Accanto alle grosse produzioni, si mantennero comunque attive
produzioni meno spettacolari, con scenografie meno costose, a
cui però partecipavanoattori di fama e letterati. Al
centro di queste produzioni c'era l'attenzione per lo spettacolo
cinematografico in se, l'evoluzione dell'espressione artistica
(oltre che tecnica). In particolare con Emile Cohl, Max
Linder, Louis Feuillade e le loro produzioni nei primi
decenni del novecento, si ebbero le maggiori novità dal punto di
vista artistico/espressivo. Negli Stati Uniti invece fecero da
pionieri Thomas Edison (inventore, tra le altre cose, del
Kinetoscopio e fondatore della sua casa di produzione, la
Edison appunto), William Kennedy Dickinson (casa di
produzione Biograph), Stuart Blackton e Albert E.
Smith (fondatori della Vitagraph). L' approccio americano
però – più che in altri Paesi – fu fin dall'inizio palesemente
speculativo, perciò per diversi anni le produzioni americane non
riuscirono ad avere una struttura tecnico/artistica che gli
permettesse di realizzare produzioni di qualità come invece accadeva
in Francia. Visto lo svilupparsi di una vera e propria guerra ai
brevetti, durata negli Stati Uniti fino al 1908, nel 1909
venne fondata la "Motion Pictures Patent Company",
che raggruppava le sette più importanti case produttrici americane
(Edison, Biograph, Vitagraph,
Essanay, Selig, Lubin e Kalem) e che aveva lo scopo di mettere
ordine nel settore, eliminando anche le piccole case indipendenti che
venivano inglobate dalle grandi case. Fu dal 1905 in poi che la
produzione statunitense cominciò a prendere una reale forma, con
la costruzione di sale specializzate. Anche in America le produzioni
si concentrarono inizialmente sull'attualità, sulle pellicole
comiche, storiche, avventurose o documentaristiche, con micro film
che messi insieme porgevano all'attenzione del pubblico uno
spettacolo di circa mezzora, come accadeva in Francia. Il primo
esempio di cinema narrativo per come viene inteso ancora oggi
però, è attribuito proprio all'americano Edwin Porter, che
realizzò il progetto per Edison nel 1902. Le immagini
documentaristiche dell'intervento di una squadra di pompieri, vennero
unite alla storia di una mamma e del suo bambino: in pericolo tra le
fiamme in cui viene avvolta la loro casa, c'è una successione di
momenti di tensione, che porta infine al salvataggio di entrambi.
Happy Ending. Pur non utilizzando ancora le techiche di
montaggio e varietà di piani che verranno usate in seguito, Porter
diede una svolta essenziale al cinema americano e ancora di più e in
modo decisivo lo fece con le produzioni successive. Si devono a lui i
primi film con suspance, i primi prototipi di western, le prime
storie di gangster e le prime narrazioni di dramma sociale. Se la
Edison puntava molto sulla messa in scena della realtà, la Vitagraph
si sviluppò maggiormente nella direzione della qualità tecnica
e Stuart Blackton fu infatti un grande esperto di
cinematografia e un grande sperimentatore. La tecnica a scatto
singolo, con la quale è possibile animare oggetti inanimati,
deve la sua diffusione ai suoi film d'animazione e fu il
successo dei suoi lavori a spingere anche altre case di produzione a
dedicarsi al ramo del disegno animato. Negli anni la Biograph
aumentò le sue produzioni affiancando la Edison per tipologia
e generi. Furono proprio le due case a porre le basi dell'odierna
Hollywood. Fu in quel periodo infatti che i produttori
cominciarno a girare film in esterna e la California, Hollywood, con
il suo clima più mite, era la meta ideale degli addetti ai lavori e
portò così truppe di registi, attori e operatori a radunarsi per
lavorare sulle coste californiane. Da segnalare assolutamente è
inoltre il lavoro del regista David Wark Griffith (Biograph)
che, ancora in piena corsa ai brevetti, fu artefice di un
cambiamento fondamentale: cominciò a considerare il cinema
un'arte e non un oggetto di consumo. Il suo approccio diverso , i
suoi lavori, il buon fiuto nello scovare talenti tra gli attori e il
suo modo di dirigerli, lo misero in tempi brevi in primo piano, per
quel che concerne la storia del cinema. Introdusse forme espressive
nuove, elaborate, trasformò l'idea di cinema per come era stata
concepita fino a quel momento dagli altri registi e produttori. Per
lui il cinema era un linguaggio artistico ed espressivo autonomo, la
psicologia dei personaggi era accurata, umana, i personaggi non erano
più solo "mascherine", bensì uno specchio realistico dei
sentimenti del pubblico. Dalla Biograph passò poi alla Mutual,
ottenendo ancora grandi successi e ponendo le basi espressive per
rendere il cinema l'arte popolare che è tuttora. In Europa
nel frattempo il cinema continuò il suo sviluppo in diversi paesi e
in particolar modo in Gran Bretagna con i lavori di George Sadoul
e la sua "scuola di Brighton". Quest'ultima, aveva
come principali caratteristiche l'utilizzo dei primi piani e dei
montaggi alternati. Prima ancora di Sadoul, fondamentali furono anche
i lavori di Robert William Paul, che partendo da film semplici
sullo stile dei fratelli Lumière ampliò gli orizzonti del paese
verso nuove direzioni, producendo anche quello che viene considerato
il primo film comico britannico. Paul sul fronte dello
spettacolo cinematografico, James Williamson e George Albert Smith
– sempre della scuola di Brighton – sul fronte del realismo,
diedero così i natali alle produzioni più innovative. Nonostante
ciò, nemmeno in Gran Bretagna, come negli altri paesi europei, vi fu
un reale salto di qualità. Per vedere l'affermarsidi
alcune realtà cinematografiche nazionali (Italia, Danimarca,
Svezia, Germania, Spagna ecc.) si dovrà attendere a lungo, ovvero
gli anni appena precedenti alla prima guerra mondiale. In
Italia, ad esempio, le prime produzioni sono considerate
"ambulanti", in quanto erano perlopiù spettacoli da fiera
e ad ogni modo la produzione era perlopiù francese (nonostante
l'italiano Filoteo Alberini avesse brevettato nel 1895 il
Kinetografo). Aprirono diversi anni dopo le prime sale e nel
frattempo Alberini e Santoni, diedero i natali a "Il Primo
Stabilimento di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni",
trasformata l'anno dopo nella "Cines", che
diventò in seguito una delle più importanti case di produzione
italiane. In contemporanea, in Francia e Stati Uniti, nacquero
nel 1913 i "serials". Vi fu, in sostanza, un
passaggio dalla carta stampata allo schermo di quel tipo di
narrazioni a puntate che erano così diffuse sui giornali e che
sempre più avevano avuto successo negli anni. In breve tempo i
serials si diffusero diventando addirittura una moda. Per quanto
riguarda il cinema d'oltre oceano, fu il western a diventare
il genere americano per eccellenza, soprattutto con l'arrivo
degli anni dieci e Thomas Harper Ince ne fu
immediatamente il rappresentate più qualificato. Con il western il
pubblico poteva apprezzare l'apertura dell'uomo verso spazi infiniti,
l'azione, il sentimento storico di un tempo non molto lontano e il
richiamo alla tradizione culturale e alla letteratura. Per questi
motivi la gente lo amò fin da subito. Dopo il 1912 Ince, dopo
centinaia di film, lasciò il testimone ad altri registi e in
particolare a Ford, Barker e Hart. Hart, come attore e
regista, fu per anni il simbolo del West e i suoi film furono
spesso prodotti in collaborazione conBarker. Ebbero
comunque una rilevante supervisione da parte dello stesso
Ince, che in sostanza divenne il terzo grande del cinema
americano accanto a Sennett e Griffith.
Quando svariati anni fa ho scoperto questa canzone, me ne sono innamorata al primo ascolto. Essendo il dialetto comasco comprensibile per una persona della mia zona, non ho avuto problemi a comprenderne il testo. Davide Van De Sfroos è fantatico, tantissimi lo seguono, qualcuno lo ascolta di tanto in tanto e c'è poi chi non lo conosce, perché i suoi testi sono perlopiù dialettali o perché non l'ha mai sentito al di la' di questo. Un giorno feci ascoltare a una ragazza del sud questo pezzo: ne amava la melodia, la fonetica, ne percepiva al di la' di tutto la dolcezza e la genuina poeticità, ma ovviamente non comprendeva il testo a pieno, dunque gliela tradussi parola per parola e anche lei, la adorò. L'ho riascoltata proprio oggi, così mi è venuta voglia di condividerla con chi leggerà e ascolterà, scrivendone anche la traduzione per chi non comprende il dialetto in questione. È la storia di un uomo, della sua vita, dell'amore per quello che fa e per la sua famiglia, della sua genuina ironia, delle sue speranze e riflessioni. La storia di una vita, in una canzone.
"Dicono tutti che il lago di Como... è fatto come un uomo, ma io sono sicuro che è una donna; devi farle il filo, se vuoi averla, perché sotto la gonna, c'è la... (profondità). E per poter seguire ogni suo capriccio, ho imparato a curvare il legno e a raddrizzarlo quando è storto. Perché quando mi preparo un motoscafo, dev'essere come una spada e dev'essere come una foglia. E forse sono nato con questa canottiera, con questo cuore fatto di acqua e lamiera... Con questa schiena larga e questa testa dura, sempre sporco d'olio e segatura. E per coprire le mie barche, ho usato le lenzuola del letto matrimoniale. La vita gira finché gira l'elica, ma gira a vuoto se non hai un timone. Paola, che mi chiami dal balcone, insieme a questi tre figli che mi faranno diventar matto, ma che impareranno quel che faccio... e che farò. Paola, tre figli, tre matti... o forse tre campioni... L'unica cosa che so bene, è che faranno il mio mestiere... questo mestiere. I ghirigori sopra l'acqua e la mia firma sopra l'onda, con la barca che s'impenna, con la barca che dondola e poi arriverà la "brèva", a cancellare questa mia scia, ma il segno della mia storia, non la porterà mai via. E arrivano da Como e da Milano e voglion tutti la barca pronta; gli spiegherò imprecando o parlando come Shakespeare... che la barca ha una poppa e una prua! E non mi interessa per niente se tutti dicono che è la plastica il futuro dei motoscafi. Ho trascorso la mia vita in mezzo ai pezzi di legno e tra quattro pezzi di legno partirò per l'altra sponda. Paola, che mi chiami dal balcone, insieme a questi tre figli che mi faranno diventar matto, ma che impareranno quel che faccio e... che farò. Paola, tre figli, tre matti! L'unica cosa che so bene è che faranno il mio mestiere... questo mestiere... I ghirigori sopra l'acqua e la mia firma sopra l'onda, con la barca che si impenna, con la barca che dondola... E poi arriverà la "brèva", a cancellare questa mia scia, ma il segno della mia storia, non la porterà mai via." - Davide Van de Sfroos, "Il costruttore di motoscafi", dall'album "Pica!" (2008).
"Garrapata Sound System", il nuovo album dei Garrapateros. Ve li ricordate? (per chi li avesse scoperti sul blog ); ci avevo fatto una luuunga chiacchierata, molto interessante, andando a fondo, tra i testi, la musica, i pensieri, le visuali di vita (per rileggere cliccate qui). Il nuovo album ha quella formazione della quale Nic mi aveva parlato, nuove entrate nella band che andavano a costruire quel sound nuovo che già al tempo chiamava "Garrapata Sound System". Da bravi spiriti patchanka rebelde, i Garrapateros si sono evoluti ancora di più. E' stato fantastico ritrovare in questo album versioni molto più energiche (nella maggior parte dei casi) e "romantiche" (nel caso di "Cenere e Fuoco") di pezzi ripresi dal primo album "Vida no mata". Le ho percepite come più reali, più palpabili, come nei live e infatti... dei live sentiti/ visti, mi ricordano la struttura musicale, gli arrangiamenti, l'interpretazione, il tutto ripreso e fissato nell'album. Poi, riguardo ai pezzi del primo album che si sono evoluti durante gli innumerevoli live per poi racchiudersi in questo "Garrapata Sound System" (un po' come se i live fossero stati - nel passaggio - il bel paesaggio di fronte a un pittore impressionista), ti vai a riascoltare il prima e il dopo e pensi al fatto che la prima versione ti piace come ti piaceva allora, ma che qui trovi quell'evoluzione, quel groove in più, sempre più patchanka rebelde, la maturazione, il crescendo che in una band ci deve essere o non sarebbe una band di talento. Poi gli inediti. Dopo l'uscita dell'album a novembre 2015, la band presenta come singolo, con video, "Zona Rossa", una bella botta di energia che non manca - perché con un autore come Nic non potrebbe mancare - di profondità di concetti. I testi di Nic non sono mai superficiali, ha da sempre la capacità di scrivere in pochi versi una miriade di cose interpretabili in molteplici modi, sia quando i testi sono più lunghi e dettagliati sia quando sono - solo fisicamente - più brevi. Molto bello il video che rispecchia la canzone a pieno dal mio punto di vista. Il viaggio, gli amici, la vita, lasciare una scia, la scalata, il sudore, l'inizio, il tramonto. "Somos", la mia preferita. Un pezzo che inizia come una poesia, recitata da Nic naturalmente. Perché una poesia? beh, per il testo e per l'intepretazione fantastica che ne da l'autore. Traducendo al meglio possibile... "Mi dici qualcosa che non so, non capisco. Mi dici che non è una storia [questa], è quello che è successo a me (!) e il futuro delle tue parole è presente, qui (!). E non... se ho quindici anni ribellione, se ho quartant'anni responsabilità, se ho ottant'anni fatica o... se non sono ancora nato... innocenza; non tocco, non ascolto, non parlo. Vedo soltanto, eppure penso già [così tanto]: "Chi sono?"." La musica, in questo pezzo, ha addirittura influenze jazz (è patchanka, perché dunque limitarsi?). Si perché senti una batteria che in certi punti lo ricorda, senti un assolo di tastiere che in un pezzo jazz ci starebbe a pennello e senti un "canticchiare" di Nic che dal vivo potrebbe avvicinarsi a uno scat, perché no; senti poi, anche quel tipo di ritmato che ricorda il charleston e con cui è difficile star fermi. "Musica che accarezza la pena", dice, perché come spesso accade Nic ripropone tematiche che puntano alla riflessione sulla vita, su quanto sia dura a volte, ma su quanto sia necessario e sacrosanto godere di ogni momento, crescere e non credere mai che un sogno sia impossibile o che la vita "ammazzi" perché "La vida no mata", è un controsenso no? E così, se c'è una pena... la musica la accarezza. Felice a mille poi, di aver sentito "Hijo de Puta". Durante i live in duo acustico, Nic e Cannibal, avevano già iniziato a deliziare il pubblico con questo pezzo strumentale fantastico nel quale il sound di chitarra e percussioni di due musicisti già bastava a ribaltare un locale. Mai incisa prima, decidono - per fortuna - di farlo con "Garrapata Sound System" e nella versione dell'album arrivano i suoni spaziali dei synth e delle tastiere deliranti. Come ultimo pezzo dell'album, "Sigo" ovvero "Continuo", come il cammino dei Garrapateros, che - per citare il testo - sono come "una lucertola a cui continua a ricrescere la coda, in qualsiasi punto essa sia stata tagliata", perché Nic c'è, perché Cannibal c'è e perché hanno trovato lungo il loro cammino Petardero (basso e cori), Papy Chulo (chitarra elettrica e acustica) e Tio (tastiere, synth e groove), coi quali hanno sentito accendersi la giusta miccia, per continuare a crescere, in questo sogno diventato realtà.
Ernico Mantovani.
Venerdì 26 Settembre ho assistito, non per la prima volta, ad uno
dei suoi magnifici, emozionanti e sempre unici concerti (a "La
Taverna delle Fate Ignoranti" di Quinzano d'Oglio (Bs), un luogo
delizioso). Enrico Mantovani è un "OneManBand", perché
definirlo "solo" un chitarrista di talento è poco; non a
caso "OneManBand" è il suo biglietto da visita e quando lo
senti suonare, quando lo vedi suonare e le emozioni si trasformano in musica, percepisci che le melodie, le
armonie, il ritmo, diventano colori, temperatura, immagine, suono
percepibile al tatto ed allora comprendi perché Enrico Mantovani non
è "solo" un chitarrista di talento e a quel punto non è
più necessario spiegare perché il suo biglietto da visita è
"OneManBand"; però ve lo spiego, perché molti di voi
magari non l'avranno ancora mai sentito nonostante giri in lungo e in
largo l'Italia (come invece alcuni già adoreranno il suo sound). Al
di la' di questo, mi capita spesso di partire dalle emozioni quando
parlo di un talento, perché la differenza tra un "bravo
musicista" e un "musicista di talento" sta nell'anima,
nella grinta, in quel che arriva alle persone. È così per tutte le discipline artistiche, naturalmente a parer
mio. Enrico Mantovani è un artista bresciano, polistrumentista, ma
la chitarra è nel suo nome. Vive a Orzinuovi ed ha collaborato con
grandi artisti quali il cantautore Massimo Bubola, Giorgio Cordini i più noti (al grande pubblico si
intende) Massimo Ranieri, Francesco Renga, Eugenio Finardi... ed ha
suonato anche con Alex Britti (spero vi sia capitato di sentire una
volta almeno il Britti blues), Gianna Nannini, Fausto Leali e molti
altri. Le ho scritte, le collaborazioni, perché è giusto, per far
capire a chi non dovesse conoscerlo che di cose ne ha fatte e pure
tante (e non solo queste, poi ci arriviamo), ma il mio intento non è
parlare dei nomi con cui Enrico Mantovani ha collaborato; il mio
intento è parlare di Enrico Mantovani, un musicista come pochi, della musica che si vede, dunque, delle infinite sfumature dell'arte.
Enrico
Mantovani chi è? E poi... è abbastanza classico chiederlo, ma è
sempre interessante per capire di più: come hai iniziato a
suonare, quando, cosa ti ha spinto a imbracciare la chitarra?
"Direi
che la mia fortuna è stata di iniziare molto giovane, con mio padre
quando avevo sedici, quindici anni e già suonavo il blues e i pezzi
degli Stones insieme al mio amico Riccardo Maffoni... ho iniziato con
mio padre, dicevo, scriveva canzoni e racconti brevi ed era il mio
consigliere su libri e dischi che mi hanno poi accompagnato fino ad
oggi; mi sono subito reso conto, sin da adolescente, che non era solo
una questione di “musica“, ma anche di parole, di pensieri e di
poesia. La chitarra ok, saper suonare ok... mi veniva facile e
spontaneo... ma sentivo che la magia vera erano le storie che le
canzoni mi raccontavano... Così, assieme a mio padre, iniziai a
suonare la chitarra nei suoi spettacoli sulla seconda guerra
mondiale, sui partigiani, sulle storie dei partigiani nella nostra
pianura e l'ultimo spettacolo si intitolava proprio "Novecento"
e... sia i libri che le sue canzoni parlavano sempre di queste
vicende e di storie che abbiamo dietro l'angolo, che risalgono a
cinquanta, sessant'anni fa, non è un tempo poi così lontano. Del
resto un piede nel novecento ce l’ho avuto anche io: da piccolo si
passavano giornate intere in cascina, a giocare sui fienili, a
contatto con gli animali, ci tuffavamo nei fossi e di sera, dopo
cena, spesso mio padre imbracciava la chitarra e cantava canzoni di
Nanni Svampa e di altri cantastorie. Più che la musica in se, sono
le canzoni che mi hanno affascinato sin da piccolo."
Hai
tanti progetti in corso: i meravigliosi Matmata, i concerti
"OneManBand", la collaborazione costante con il grande
Bubola ed altre collaborazioni. Raccontami un po' cosa stai
combinando.
"Beh…
con Massimo Bubola ho avuto la fortuna di partecipare ad un percorso
sulla Prima Guerra mondiale, sulla Grande Guerra, che mi ha dato modo
di rivedere la storia dell' Italia e degli italiani negli ultimi
duecento anni; un lavoro a ritroso nel tempo, con brani e melodie
popolari di fine ottocento e anche più antiche che hanno resistito
fino ai giorni nostri. Massimo ha fatto il primo disco sulla guerra
nel 2004, "Quel lungo treno", il secondo nel 2013, "Il
testamento del capitano" e l' anno prossimo dovrebbe uscire il
terzo; una trilogia con brani degli alpini e canti popolari
riarrangiati in chiave folk e rock; tratti da una letteratura
popolare e contadina, questi brani vanno a comporre parte della
musica detta "poplare", che è quel tracciato dal quale
nessun musicista dovrebbe mai discostarsi troppo secondo me.
Purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura che ad esempio è
molto radicata in Irlanda, dove i nonni suonano con i nipoti e tutti
conoscono un repertorio di duecento, trecento canzoni folk... e lo
stesso vale anche per gli americani e sicuramente per molti atri
popoli.
Un incontro
raro e fortunato è stato poi quello con i Matmata; mentre con
Bubola, con Massimo Ranieri, con Giorgio Cordini e altri ero maturato
come musicista o come turnista, imparando a fare questo mestiere, con
i Matmata c’è stato un’incontro tra musicisti maturi e già più
consapevoli, grazie ai quali ho scoperto il valore della "Band",
trovarsi tutti i giorni, suonare insieme più volte alla settimana
per il piacere di suonare e per la volontà di creare un groove
comune, un sound, un feeling, lavorando sui pezzi che Gianmario
continua a creare ancora oggi con grande abilità. Infine nei Matmata
ho trovato una famiglia; non è un lavoro da "turnista", è
un lavoro con la tua band, coi tuoi amici, coi quali si condividono
tantissimi momenti di vita, al di la' della musica…. è stato
davvero magico incontrarli."
Per
me che ho assistito più volte a tuoi live, con i Matmata e come
OneManBand, sapendo quante emozioni, diversificate, trasmetti, mi
viene istintivo chiederti: in quei momenti, sul palco, cosa provi,
cosa pensi, cosa senti tu, cosa ti passa per la testa?
"Quando
suoni.... non pensi a niente, suoni e basta; la musica ce l'hai nel
cervello e nel cuore, è li che ti gira attorno, come fanno gli
avvoltoi, come una giostra con tante lucine e tu sai già quali vanno
accese e quali spente, senza pensarci.... suonare mi fa stare mezzo
metro sopra terra, è una droga, la droga più bella e sana che
esista e il concerto, il live, è il vero motivo per cui ho imparato
a suonare e per cui, grazie al Cielo, continuo a suonare."
Hai
fondato nel 2013 l'Accademia di Musica Hendrix (cliccate, cliccate ragazzi). Com'è nato
questo progetto e come lo senti? Qual è il contesto?
"L'Accademia...
mmmm…... Non credo moltissimo nelle scuole di musica, credo che
all'uomo siano più utili i corsi di cucito o di giardinaggio. Le
scuole di musica quando io avevo quindici anni non esistevano, o
quasi; c'era qualche insegnante che dava lezioni private e se volevi
suonare dovevi essere davvero portato, perché dovevi imparare
ascoltando i dischi in vinile o la radio, quindi dovevi avere
orecchio ed essere molto svelto nel capire le note da riportare sullo
strumento. Oggi invece, forse anche a causa dei "talent",
molta più gente vuole fare musica, ma siccome da sola non ci riesce,
nemmeno con i video di youtube, si rifugia nelle accademie di musica.
L’accademia comunque l’ho aperta per portare un po' di fermento
sul territorio dove sono nato e dove ho sempre vissuto, sperando di
imbattermi in qualche talentuoso futuro musicista."
Ora
ti faccio una delle mie domande strane. Altre volte ho fatto questa
domanda perché è per me parte dell' "andare oltre" e
potrebbe sembrare una domanda semplice, ma non lo è affatto. Di
che colore è secondo te la tua musica? E la tua
anima? Combaciano?
"Mi
piace suonare con le luci blu... e poi il blu è indubbiamente
blues..."
Hai
un pezzo che su tutti, per te, è il migliore?
"Beh,
un brano è troppo poco, ne amo troppi, ma tra i miei artisti
preferiti spiccano Bob Dylan e i Rolling Stones. Il resto è tutto
sotto."
La
tua parola preferita... (Enrico qui è favolosamente indeciso, ma poi
la prima parola che gli viene in mente è...)
"Grembo."
Ecco
qui, Enrico Mantovani. Penso non ci sia altro da aggiungere se non
che, come ho detto anche a lui, una delle cose che lo rende più
speciale è che non si rende conto davvero di quanto è raro.
"Il
re del folk-rock
Massimo Bubola torna
a interpretare e rivisitare le canzoni della Grande
Guerra
con questo nuovo progetto dal titolo Rosso
su Verde Tour
che prevede nel corso dell’anno anche un libro in uscita e un
prossimo album che
va a completare la trilogia iniziata nove anni fa con il successo di
Quel
lungo treno
e proseguito poi con Il
Testamento del Capitano
nel 2014 Massimo
Bubola
riprende e ri-arrangia, caratterizzandoli profondamente col suo sound
e la sua poetica inconfondibile, grandi
brani tradizionali
come: Ta
pum, Il Testamento del Capitano, Sul ponte di Perati, Monti Scarpazi,
Bombardano
Cortina,
La tradotta
e proponendo
anche suoi
grandi successi del passato.
Tutto
quanto rivisitato con la sensibilità e l'esperienza di un grande
autore, scrittore e musicista, autore di capolavori della canzone
italiana e non, come Fiume
Sand Creek,Andrea,
Don
Raffaè
e Il
cielo d’Irlanda,
solo per citarne alcuni presenti nella scaletta del concerto.
Il
progetto prevede, oltre a Massimo e la Eccher Band sul palco (Enrico Mantovani alle chitarre e mandolino - Erika Ardemagni alla voce e auto harp - Alessandro Formenti al basso) , la
presenza di un attore gardesano, Fabio
Gandossi
che leggerà brani da alcune lettere dal fronte ed estratti dal
materiale storico di Massimo.
Il 26 Giugno 2015, all'Anfiteatro Sotto La Torre Civica di Verolavecchia (Bs), l'occasione imperdibile di assistere a questo grande live. Alle ore 21,30. Ingresso: 10 euro.
Non mancate!"
E per rendere l'idea di quello a cui potrete assistere...
Stasera
parliamo di libertà, passione, fatiche e duro lavoro ripagato,
talento, calore, allegria, profondità; parliamo della forza del
suono, degli arcobaleni infiniti delle note musicali e dei ritmi,
parliamo della potenza delle parole, parliamo dell'eccelsa, sublime,
potenza della musica. Ne parliamo con Nic e Michele e parliamo dei
Garrapateros;
perché la loro storia, il loro sound, i loro sogni, i loro
traguardi, sono un perfetto esempio di quanto la musica può fare e
dare. I Garrapateros
definiscono il loro genere “patchanka
rebelde”,
vale a dire “patchanka ribelle”. Il genere patchanka, per chi non
ne sapesse molto, è nato con i Mano Negra, che hanno coniato il
termine dando come titolo al loro primo album, nel 1988, proprio
questa parola. Letteralmente può significare “miscuglio”,
“confusione”, “caos”, nel senso che il genere è una miscela
costituita da diverse sfumature della musica e della tradizione
latina. Ora, aggiungiamo il “rebelde”, ribelle; perché i
Garrapateros sono patchanka, rock, funky, punk. La libertà assoluta
del suono e del ritmo, le cui principali ispirazioni sono i Mano
Negra e Manu Chao, ma anche gruppi quali i Delinquentes, i Calle 13,
gli Ojos de Brujo e i Canteca de Macao, gruppi anche molto diversi
tra loro (consiglio: andate ad ascoltarli se non li conoscete). Quel
che i Garrapateros hanno in più, quello che rende il loro sound “il
loro sound” è... in parte frutto delle loro esperienze musicali
precedenti, punk, rock, rock grunge... e in parte - e qui è la parte
bella dell'Italia che viene fuori - della loro italianità. Il loro
essere italiani fa la differenza, perché l'approccio musicale di un
italiano, per una questione di genuina cultura generale e musicale,
sarà sempre diverso dall'approccio che uno spagnolo ha verso la
musica, così come l'approccio di un francese sarà sempre diverso da
quello di un irlandese ecc ecc. Tutte queste cose, messe insieme,
hanno creato qualcosa che pur avendo una base e riferimenti di un
certo tipo, rendono il loro sound unico per il loro genere,
assolutamente “rebelde”. Conoscevo Michele Cannibal, perché
conoscevo il fantastico progetto grunge rock dei Cronofobia, ai quali
nessun ascoltatore con un minimo di conoscenza musicale può rimanere
indifferente e nel quale era ed è batterista (ma questa è un'altra
storia). Conoscevo Michele appunto e una sera, vado in un locale
della mia zona e per caso me lo ritrovo in duo con Nic Garrapatero,
nella versione acustica che portano in giro qui e la'. Quella sera mi
hanno steso e al secondo live a cui sono andata - un live che
aspettavo con gioia da quando avevo avvistato la notizia della data,
un mese prima - mi hanno steso il triplo. La prima volta, ho scoperto
poi, erano reduci da un viaggio lunghissimo e devastante ed erano
fisicamente a pezzi (oh scusate! non me ne ero accorta ragazzi!),
però poi al secondo live mi sono accorta della differenza, anche se
già al primo mi avevano rapito, buona alla prima. Il loro primo
album “Vida No Mata” l'ho praticamente consumato in macchina, non
riuscivo a smettere di ascoltarlo. Brani del secondo album, il loro
ultimo lavoro “Esperando”, li ho sentiti proprio in questo
secondo live, con successivo inevitabile acquisto del cd. Cos'altro
posso dire? Quando ho iniziato a scrivere questa intro stavo cercando
il modo giusto per “rendere l'idea” e come spesso mi accade, è
la descrizione delle mie stesse emozioni ad aiutarmi a trasmettere i
concetti, perché la musica è questo, è passione pura, emozioni
d'gni sorta, parole e suoni, poesia e ritmi, tradizioni e
scoinvolgimenti. Mi fermo qui, potrei andare avanti per ore, ma è
“pericoloso” perché le mie dita mi porterebbero a parlare di
troppe cose e non arriverei al nucleo. Stasera il nucleo si chiama
Garrapateros. Stasera, vi presento questo fantastico progetto,
attraverso Nic e attraverso Michele, un percussionista che è solo da
vedere e sentire, inutile descriverlo, non saprei nemmeno come. Nic
Garrapatero... che è partito per la Spagna con qualche soldo da
parte per potersi cercare un lavoro e fermarsi un po', niente
Erasmus; per approfondire la lingua spagnola, perché allora studiava
lingue all'università. Immaginate ora, immaginatelo in testa: un
ragazzo che fino ad allora aveva suonato e ascoltato punk, parte per
la Spagna, borsa in spalla. Arriva, conosce gente, sente profumi,
vede colori, conosce tradizioni, si fa rapire dolcemente dai gitani
che abitano poco distante da lui, comincia ad ascoltare musica che
prima non conosceva e che forse mai avrebbe ascoltato e quando torna,
inizia a fare musica diversa, prima da solo e poi... da Garrapatero,
fonda i Garrapateros. Ora la parola a loro, a Nic
– il mosaico, così l'ho soprannominato dopo questa chiacchierata –
e a Michele,
di poche parole – poche ma ben precise - e tanto ritmo dentro e
tutto intorno.
"Vida
no Mata".
E' il primo pezzo del vostro primo lavoro e da' il titolo all'album
stesso. "La vita non uccide". Il testo è molto intenso,
parla di un uomo che in sostanza odia l'ipocrisia, le menzogne e che
non vuole smettere di lottare. Mi chiedevo se il testo fosse ispirato
a una storia reale visti i riferimenti alla protesta o se fosse nato
da una tua pura riflessione.
Nic:" “Vida No Mata”... no, in realtà non è
una canzone che prede spunto da una particolare vicenda personale,
bensì... più in generale - dalla visione che ho della realtà,
della quotidianità, da ciò che è questo preciso momento storico e
che sicuramente mi riguarda. L'ho scritta riflettendo su un contesto
globale che rientra poi nella dimensione personale di ognuno
perché... l'informazione, i mass media, “quello che passa” e che
descrive la nostra realtà, ci fa intendere che nonostante siamo su
questa terra... praticamente saremmo “dei morti che camminano”,
ci fa pensare che abbiamo più situazioni su cui piangere rispetto a
situazioni dalle quali prendere spunto in positivo. Il testo dice “La
vida no mata” nel senso che... è un controsenso che la Vita
uccida! la Vita dovrebbe essere una crescita, uno spunto di
riflessione e cambiamento, non certo qualcosa di negativo o un motivo
per pensare di togliersela, la vita. Eppure questa visione negativa
appare in modo sempre più frequente, il messaggio che passa è che
viviamo in una specie di inferno o per spiegarlo meglio se “la
sorte non è dalla tua” sembra che questo significhi non essere
produttivo e che l'unica cosa che puoi fare è quella di disperarti.
Io non credo sia così. “Vida no mata” poi ripende anche una
frase molto familiare agli spagnoli che è “la prisa mata” che
vuol dire “la fretta uccide”; che poi... non è nemmeno la fretta
a uccidere messa a confronto con questo “senso di morte”
diffuso."
Il
secondo pezzo invece "Sevilla
Maravilla"
racconta della vita di strada che presumo tu abbia visto e portato
dentro di te quando eri in Spagna, ma c'è una sorta di
sottolineatura... in strada c'è chi sta meglio e chi sta peggio, ma
in ogni caso c'è fratellanza. Ti riferivi in particolare ai gitani
di quartiere che ti hanno praticamente accolto da quanto ho capito e
che ti hanno fatto scoprire le loro tradizioni, la loro musica... o
era un più discorso generale? Nel testo poi dici che quella è la
parte migliore di Siviglia, al di la' di quello che possono essere le
apparenze, ma mi chiedo: la popolazione spagnola accoglie la realtà
gitana come parte integrante della cultura spagnola o ci sono
pregiudizi come ad esempio accade in Italia per molte diverse realtà?
Nic:
"Si è un pezzo che racconta l'esperienza quotidiana che ho
avuto in un breve periodo che ho vissuto nella città di Siviglia,
nel quartiere della Macarena. Quello che io ho visto in quel
quartiere - che è un quartiere molto importante a Siviglia
nonostante sia considerato un quartiere a rischio perché è un
quartiere popolare con un forte tasso di immigrazione e una forte
presenza dell'etnia gitana – è molto simile a quello che ho visto
nel quartiere Cabanyal di Valencia, in cui appunto ho vissuto per un
po' di tempo. Nel pezzo dico che è un quartiere in cui “non ci
sono differenze”. Non è del tutto vero in realtà perché è
chiaro che esistono sempre situazioni di discriminazione in una
realtà in cui convivono diverse realtà culturali che condividono lo
stesso spazio geografico e ci sono scontri, è ovvio. Nel pezzo dico
che è la parte migliore di Siviglia nel senso che questi quartieri
sono luoghi che ti sbattono in faccia la realtà, sopratutto per
quanto riguarda il tema dei gitani. L'etnia gitana... non è più
integrata in Spagna rispetto all'Italia, ma sicuramente c'è molta
più accettazione rispetto a qui. Questo perché culturalmente e
storicamente la cultura gitana è assimilata nella cultura del ballo
e della musica spagnola. Ci sono generazioni e generazioni di
cantanti, musicisti, ballerini di flamenco, di etnia gitana. In
Spagna l'arte e la cultura del canto e della musica hanno un
riconoscimento assoluto, molto più che in Italia perché il
sentimento è molto più vivo e radicato e in effetti, tutto ciò che
“di nuovo” si crea in Spagna, ha molte delle sue fondamenta “nel
vecchio” e per forza di cose la cultura gitana ne è parte
integrante. Siviglia con la
Maccarena e Valencia con il Cabanyal, sono esperienze che io ho
voluto fermare, come in uno scatto fotografico, attraverso questa
canzone e sicuramente ho voluto raccontarne il meglio perché è
quello che io stesso sono riuscito a tirare fuori dal peggio di quel
che ho visto."
Passiamo
al nuovo album, "Esperando".
Mi piace moltissimo il fatto che in un modo o nell'altro, nei testi
che scrivi ci sia sempre un incoraggiamento a non mollare, a
continuare a lottare, a continuare a credere nei propri sogni. In "No
falta nada" scrivi "Di quello che c'è non manca niente",
un detto popolare che rende perfettamente il concetto: smettere di
pensare di "non poter fare", perché come scrissi una volta
"il sudore è nobile" e porta sempre a qualcosa di buono.
Non è il "dove arrivo" ma il "come e perché",
il "cosa porto con me e cosa lascio agli altri". Ed anche
in "Querida vida", parli della meravigliosa esistenza di un
insieme di energie che ogni persona può usare per affrontare la
quotidianità, la frenesia, il senso di insofferenza e - anche qui -
si parla di sogni. "Non ho più molto per me, però ho il mio
sogno". Mi piace molto tutto questo, siamo sulle stesse corde.
Questo meraviglioso atteggiamento verso la vita che porti con te, ce
l'hai sempre avuto per carattere o credi che ci sia stato un momento
in particolare in cui hai maturato questa consapevolezza?
Nic:
"Si è vero... in quasi in tutti i pezzi che compongono il
nostro primo album “Vida no mata” e anche il secondo mini album
“Esperando”, c'è sicuramente un incoraggiamento a non mollare.
Io in generale ho avuto un fortissimo cambiamento a partire dalla mia
esperienza in Spagna. Non sono mai stato una persona negativa perché
dal mio punto di vista essere realista significa riflettere su
situazioni anche negative e prenderne spunto per arrivare a qualcosa
di positivo. Le mie vicende ed esperienze personali poi mi hanno
fatto rendere conto, misurandomi con me stesso e con gli altri, che
in sostanza ero molto più pieno di risorse di quanto pensassi e
così... ho maturato una gran voglia di risorgere. “Cenere e fuoco”
già lo dice no? “sotto la cenere c'è ancora un po' di fuoco”.
“Querida vida” dice proprio “nonostante io non abbia più
spazio, non abbia più tempo, non abbia più molto per me, ho sempre
il mio sogno” e questo è un pensiero di importanza assoluta nella
mia esistenza perché - oltre ai Garrapateros - i Garrapata Sound
System appena nati, il set acustico Rebelde, come side project...
sono il mio sogno, progetti in cui io credo da morire. Credere nel
mio sogno è la mia identità, è l'identificazione precisa della mia
vita adesso. In passato non era assolutamente così; ero molto più
attaccato a una sorta di linearità di come forse volevo fosse la mia
vita e quindi nell'impossibilità di riuscire a raggiungere questa
linearità stavo male, ero molto meno consapevole su chi fossi, su
cosa volessi e su che cosa rappresentasse per me la musica; poi ho
capito che siamo noi la nostra stessa risorsa. “Di quello che c'è
non manca niente” dice “No falta mada”, vale a dire che da
quello che abbiamo - seppur poco - si può partire, si può iniziare
a costruire il passo successivo, a salire un nuovo gradino, per poi
renderlo sempre più solido e quindi... è un continuo “non
arrendersi”. Anche con il progetto Garrapateros “di quello che
abbiamo in questo momento non ci manca niente” e proprio per questo
ora è nato il “Garrapateros Sound System”, qualcosa che già
esisteva ma che può avere uno sviluppo sempre più consistente.
Basta volerlo."
Allora
Nic... Il vostro nome significa libertà in sostanza, non
letteralmente, ma per il concetto che ha... Spiega tu però, cosa
significa per te, per voi.
Nic:"Il nome Garrapateros è stato scelto in
omaggio ai Delinquentes, “capitanati” al tempo da Miguel Benítez,
un ragazzo morto molto giovane - a ventuno anni - per un probabile
arresto cardiaco causato dall'abuso di sostanze. Era un poeta, ha
scritto diverse poesie oltre che canzoni stupende. Circa dieci anni
dopo la sua morte il fratello ha pubblicato una raccolta di testi
inediti scritti da Miguel prima di morire e che mai sono stati
registrati e in questa raccolta ci sono anche alcune interviste. In
una di queste Miguel spiega che cosa significa “garrapatero”.
Letteralmente la "garrapata” è la "zecca”. Lui
racconta che quando era piccolo viveva in campagna, aveva molti cani
e gli toglieva spesso le zecche e la zecca è sempre stato un insetto
che in qualche strano modo lo affascinava e dunque ha iniziato a
usare il termine “garrapatero” associandolo però a una
concezione positiva o a qualcosa che a lui piaceva. Ho voluto fare un
omaggio a loro perché è sopratutto grazie ai loro pezzi che ho
cominciato a conoscere la lingua spagnola; il loro modo di
comunicare, il modo di comunicare di Miguel, è stato fondamentale
per me. Adesso - con il progetto “Garrapata Sound System” -
abbiamo voluto staccarci dal termine “garrapateros” perché ad
oggi, se in rete si digita il termine viene fuori di tutto e di più.
Molte cose legate ai Garrapateros, ma anche tante tante band che
fanno cover, per esempio dei Los Delinquentes e che si chiamano
“Garrapateros”. Il Garrapata Sound System è il nuovo progetto,
con cinque elementi, in cui il flauto non compare più e con il quale
vorremmo arrivare un po' di più, rimanendo affezionati alla base -
che è la stessa - ma “togliendo di mezzo” tutta la confusione
che si può fare ora cercando informazioni su di noi e la nostra
musica. Il senso di libertà che io sento in questo termine è
determinato dalla realtà per cui c'è stato un grande cambiamento
per me. La mia propensione naturale è stata quella di slegarmi
dall'origine punk per far ramificare la base in altro; mantenere la
radice, facendo crescere però rami che vanno in direzioni diverse."
Inizialmente
sei partito da solo, poi avete iniziato a suonare insieme tu e
Michele e pian piano si sono aggiunti gli altri ragazzi della band.
Se tu e Michele non vi foste trovati, pensi che avresti cercato prima
o poi altri musicisti con cui portare avanti il tuo progetto? Avevi
già in mente di creare una band o è stato un effetto “Sliding
doors” per cui le cose sarebbero andate diversamente perché
inizialmente non ci pensavi? E se tu avessi continuato da solo? Cosa
pensi avresti fatto? Come sarebbe andata secondo te?
Nic:
"Beh... quando sono tornato dalla Spagna ho sentito la necessità
di portare quello che avevo assimilato in Italia. Il distacco dalla
Spagna all'Italia per me è stato molto forte, avevo bisogno di
ritrovarmi a casa mantenendo però le stesse vibrazioni che avevo
percepito e sviluppato là e ho portato con me lo stesso intento che
là avevo maturato, di farmi conoscere con questa musica, diversa da
quella che solitamente facevo e alla quale la gente che mi conosce
era abituata. Ho iniziato da solo, ma dopo un po' che suonavo da solo
- cosa che non avevo mai fatto avendo avuto in precenza una punk rock
band - durante i live non potevo condividere con nessuno né le gioie
né i dolori ed avendo comunque consapevolezza di quel che avrei
voluto fare, già immaginavo sul palco con me un'altra persona
proprio per... riedere insieme o “prenderci male” insieme. Con
Michele è stato sicuramente un effetto “sliding doors”, nel
senso che l'intenzione da parte mia di creare un'alternativa al
onemanband c'era sicuramente, però per esempio, io e Michele ci
conoscevamo abbastanza superficialmente al tempo e mai avrei pensato
allora di trovarmi spalla a spalla con quello che ora per me è un
fratello, dopo cinque anni. C'è stato ovviamente intresse da parte
sua, dopo due giorni si era già procurato un cajòn flamenco. E'
stato anche quello che tra i Garrapateros si è arricchito sempre di
più, veniva dal rock, dal grunge, generi che a volte non vanno
proprio d'accordo con quello che ho portato io, molto più leggero e
anche spensierato se vogliamo, meno “pesante” rispetto al grunge
che proprio per la sua storia è legato a situazioni molto più
introspettive, anche se in realtà – come hai ben descritto tu
stessa - nel genere dei Garrapateros questa “leggerezza” e
“spensieratezza” è apparente, c'è sempre un'interiorizzazione
della realtà e la volontà di buttar fuori questa interiorizzazione
e renderla esplicita nelle canzoni. Sicuramente io avrei creato una
band perché sono “un animale sociale” fondamentalmente, da solo
mi sarei stato un po' stretto, però ecco, nel corso del tempo si
sono create tutte le collaborazioni, sempre comunque con un effetto
“sliding doors”. Non so come sarebbe andata se non avessi
incontrato Michele... avrei magari incontrato qualcun'altro, ma
probabilmente non così bravo..."
Michele,
te lo devo chiedere............... ma perché “Cannibal”?!?
Michele:
"Cannibal... eheh... semplicemente perché ho ascoltato e
ascolto tuttora i Cannibal Corpse; è dunque un riferimento alla
fissa che ho per questo gruppo, niente di più semplice. In
adolescenza gli amici con cui suonavo, un giorno mi hanno chiamato
così e da quel momento ho deciso che sarebbe stato il mio nome
d'arte!"
A
parte gli scherzi... tu che vieni da un progetto come i Cronofobia...
come ti sei avvicinato a questa musica, cosa ti ha catturato? Nic ha
avuto esperienze che lo hanno avvicinato (per fortuna aggiungo) a
questo mondo musicale... e tu? Cosa è successo dentro di te? Qual è
stato il tuo viaggio?
Michele:
"Mi sono interessato ai gusti
musicali di Nic semplicemente per curiosità... Non avevo mai
suonato musica Spagnola ed essendone incuriosito mi è sembrata la
cosa più giusta da fare, mi ha subito attirato l'idea di fare una
nuova esperienza. Ed è stata la scelta più giusta perché grazie a
questo ho imparato una miriade di cose, proprio come musicista; ho
imparato ad essere più dinamico nel suonare batteria e percussioni,
ho iniziato a cantare ed ho anche imparato a conoscere e ammirare un
sacco di persone che ballano i vari generi della musica spagnola."
"Il
destino è un pazzo che gioca coi fili". Tema ricorrente nei
pezzi dei Garrapateros. Ditemi qualcosa di più. Nic, Michele,
parlatemi del destino.
Michele:
"Io personalmente non credo nel destino, credo più alla
fortuna. Ritengo una grande fortuna il poter sentire il ritmo in ogni
cosa che faccio, lo sento nelle vene!"Nic: "Il
tema del destino, associato anche al tema della casualità quindi
all'effetto “sliding doors” di cui parlavamo prima, è una
medaglia a due faccie che io non ho ancora ben identificato a dire il
vero. Intendo dire che... in me è più presente “la visione della
casualità”; quando scrivo del destino in “Huele a Pasado” per
esempio, quello è un testo molto personale, una canzone dal gusto
agrodolce, una tristezza consapevole - che non ti porta a buttarti
giù da una finesta ma come dicevo anche prima serve per cercare di
crescere. A volte... fa un po' parte della natura umana
colpevolizzare qualcuno e in quella canzone io colpevolizzo il
destino. Il destino che è appunto “un burattinaio”, è
capriccioso, in questo pezzo. Completamente diversa invece è la
visione di quando ho scritto “Casualidad” che è uscita nel 2012.
Li scrivo che la vita è una casualità da quando inizia a quando
finisce, ma è anche una possibilità, “sfrutta il momento e non te
ne pentirai”. Il caso e il destino sono due cose che spesso fanno
molta paura, perché rappresentano quel che non si conosce, ma allo
stesso tempo quel che non si conosce incuriosisce. Molti lo temono e
lo vivono con angoscia, io lo vivo con interesse, sono curioso di
sapere quel che mi accadrà, anche se non credo che le persone siano
legate a una predestinazione, questo no; sarebbe molto triste pensare
che tutto è già scritto. In ogni caso mi ritengo una persona molto
fortunata, perché ho un sogno e non tutti ce l'hanno. Per me è
vitale. Avere un sogno, portarlo avanti, è una cosa... molto rara,
una cosa preziosa... Che sia allora una casualità, destino... nellla
mia vita c'è questo sogno, che è la mia vita stessa. Nella canzone
in cui ho scritto che è “un pazzo che gioca coi fili” ho cercato
di stare nel mezzo tra casualità e destino anche per...
“impersonificare” la casualità stessa e facendone una “casualità
personificata” allora non è più “casualità”, diventa un
qualcosa, qualcuno, senza nome né cognome, a cui poter dare la colpa
e che crea una serie di eventi che possono sembrare anche casuali, ma
nel caso di questa voluta “personificazione” molto probabilmente
non lo sono."
Allora....
so che nel vostro percorso musicale avete avuto grandissime
soddisfazioni, tantissimi live, l'apertura del concerto agli Ska-P, a
Tonino Carotone, il calore del pubblico, i vostri fantastici viaggi e
tutto ciò che avete scatenato. Al di la' però di queste fantastiche
esperienze, qual è stato per voi il momento in cui avete pensato “va
alla grande, stiamo realizzando il nostro sogno”? Una scena, un
ricordo, un momento, un'immagine, una riflessione.
Nic:
"Le situazioni in cui... ho pensato “va alla grande, stiamo
realizzando il nostro sogno”... sono tantissime... Non voglio
sembrare banale ma... “vivere il presente” è sicuramente una
cosa che mi caratterizza, penso al futuro ma in una prospettiva che
si basa però sempre sul vissuto del presente, dunque si, l'elenco
sarebbe molto lungo. Da quando ho iniziato a fare tanti concerti da
solo – cosa che comunque non avevo mai fatto avendo avuto prima una
band – a quando ho iniziato a suonare con Cannibal e abbiamo fatto
esperieze stupende per cui a volte ti dici e chiedi: “Fanstastico!
cosa succederà dopo...?”. Tanti live, tante esperienze diverse,
quindi... ogni passo che si fa è vitale. Dalle cose più belle come
l'apertura agli Ska – P e a Tonino Carotone fino alle “porte in
faccia” che ti fanno dire “sta diventando sempre più vero”. Ad
oggi, ti dico con ancora più convizione “Va alla grande, stiamo
realizzando il nostro sogno”. Siamo in contatto con una casa
discografica, con booking... non c'è ancora niente di ufficiale
dunque al momento non posso fare “nomi” per così dire, ma c'è
qualcuno che è molto interessato al nostro progetto e che ci aiuterà
nella produzione... dunque... questo sicuramente è il raccolto di
una serie di grandi soddisfazioni che ci hanno dato sempre più la
carica per andare avanti, che mi ha fatto andare avanti con
l'entusiasmo che ho tuttora." Michele: "Ricordo con
grande piacere molta gente che non ci aveva mai sentito, che non
sapeva chi fossimo e non conosceva la nostra musica, ballare e
divertirsi con grande energia. Per me questa è sempre una
soddisfazione. E poi... fare così tanti concerti fa pensare ad un
futuro da musicista anche a livello lavorativo... il che è
fanstastico..."
Come
immaginate il vostro futuro...?
Nic:
"Il mio futuro io lo immagino... in tour... con i Garrapata
Sound System - dunque gli elementi nuovi che hanno creato un sound
stupendo e con i quali c'è un intesa perfetta - visitando posti che
non ho mai visto, facendo la cosa che più amo al mondo che
ovviamente è suonare. Lo immagino... pensando che quel che ora è
una passione e un lavoro part-time – per rendere l'idea – si
trasformi nel mio lavoro a tutti gli effetti e di fatto già ora ho
un tetto sulla testa e vivo grazie a questo. Condividere e vivere
grazie a questo, così vedo il mio futuro." Michele:
"Riguardo al futuro e a quel che si vuol credere a riguardo...
so solo che ci vuole un grande impegno per realizzare i propri sogni
e unicamente il grande impegno può portare ad avere la fortuna di
fare esperienze grandiose, come è successo a noi, per esempio
potendo suonare a concerti fantastici, con grandi artisti."
Parole.
Colori. Sono due realtà che spesso – alternativamente - introduco
nelle domande che faccio nelle chiaccherate su "Il cammino".
Due mondi che dicono molto. A voi desidero proporre entrambi i
mondi... dunque... di che colore siete? e qual è o quali sono le
parole più significative per voi?
Nic:
"I colori e le parole... io sono bianco e nero, sono gli
estremi... e sto lavorando, negli anni, per trovare il compromesso
tra gli estremi. Sono... sono un lunatico, altalenante, sono... un
giorno a cento e un giorno a zero. Nella musica però è diverso,
cerco sempre di essere a cento e mi impegno per esserlo, anche perché
so che se do' il massimo nella musica, tutto il positivo che ne nasce
mi ritorna e mi arrichisce anche per altri aspetti della mia vita.
Anche nei Garrapateros sono bianco e nero e i ragazzi sicuramente lo
hanno visto negli anni, a volte "sclero", a volte mi sento
troppo rigido, ma poi comunque anche queste cose hanno portato a
qualcosa di buono il più delle volte. I Garrapateros invece... per
me... sono un colore unico fatto di miriadi di colori o per meglio
spiegarlo... spettri di luce, miriadi di colori diversi che vanno a
formare la luce stessa. La parola che più mi ha rapito invece... è
sicuramente... "Compartir", "Condividere" e ...
penso non ci sia bisogno di dire altro" (sorride, ndr). Michele:
"Io sono porpora! Assolutamente porpora. E le parole che amo di
più sono sicuramente... Consapevolezza, Gusto e Pensiero..."
"Concerto".
Questa parola ha una storia intricata, complessa, piena di
sfumature... La prima apparizione documentabile di questa parola
splendida nella lingua italiana risale al 1519 ed è un termine dalle
origini grandiose, perché è come una storia anzi, è una storia,
per ogni popolo. Ogni parola è una storia, ogni parola è un mondo a
se, perché le parole hanno un peso e un valore inestimabile e il mio
appello è sempre stato una sorta di disperato richiamo, non
sprecatele, vi prego; e ribadisco ogni giorno il mio... "Mi
metto nelle mani delle parole, come fossi tra le mani di Dio"...
una frase che le Parole mi hanno permesso di scrivere... in "Punti
senza fine". E... "Mùsica", la Musa e ...
"Spettàcolo"... "guardare", "tutto ciò che
attrae lo sguardo, la vista, l'attenzione". Capite perché...?
riesco a trasmettere, mi chiedo, il motivo, per cui personalmente, mi
metto nelle mani delle parole come fossi tra le mani di Dio...? Bene,
parto da qui. Pane, vita, grazie, promessa, amore, amicizia, dolore,
gioia, immensità. Parto da questo per tentare di descrivere la
Bellezza (richiamo di... "Armonia") ... si la Bellezza con
la B maiuscola, di tutto ciò che Massimo Bubola e la Eccher
Band (Enrico Mantovani, alle chitarre e al mandolino -
Erika Ardemagni ai cori e auto harp e Alessandro Formenti,
al basso) mi hanno saputo donare nella spettacolare serata di ieri,
al Teatro Odeon di Lumezzane. Finalmente ho potuto assaporare dal
vivo la grandezza di Massimo, della sua musica, della sua penna, il
suo sapere e il suo intimo calore umano. Credo che se non sapete chi
sia Massimo Bubola, beh, siamo alle solite... se non lo sapete,
abbiate il buon senso di andare ad ascoltare i suoi pezzi, di leggere
la sua storia, di tutto ciò che ha fatto in quarant' anni di musica,
essendo egli parte importante, essenziale, profonda, della musica
italiana; della Musica che che è Musa, la Musica che è Bellezza, la
Musica. Ho cominciato a scrivere queste righe ieri sera tardi, appena
rientrata dalla serata, all'una e ventitre del 25 aprile 2015, nel
giorno del settantesimo anniversario della Liberazione della nostra
Terra. Non volevo perdere un secondo, volevo perlomeno riuscire a
fissare, come in uno scatto fotografico vivente, tutte le emozioni,
le lacrime, le risa, il sènso dunque il "sensus", la
percezione, il poter cogliere con lo sguardo, l'olfatto, l'udito, il
tatto e con immenso, immenso gusto, il senso profondo e l'amore, la
profondità di tutto quel che ho vissuto, in quelle due ore a Teatro,
con dolore e vita nell'aria. Massimo Bubola ha iniziato l'articolato
progetto riguardante la Grande Guerra con un primo album nel 2005,
"Quel lungo treno" nel quale sono racchiusi brani
tradizionalli riarrangiati e... rivitalizzati. Folk, country, rock,
ballata e anche un tocco d'Irlanda. A proposito di Irlanda... per me
che per la prima volta sono riuscita ad assistere dal vivo alla
musica di Massimo Bubola, sentire "Il cielo d'Irlanda" è
stato un colpo al cuore, una sorta di tachicardia emozionale, che mi
ha accompagnato in realtà per tutta la serata, durante ogni pezzo.
"Il fiume sand creek" scritta da Massimo pensando a un
massacro di pellerossa realmente accaduto, nel novembre 1864. Stragi,
umane. La guerra, i massacri, di ieri e di oggi, perché l'umanità
non ha ancora compreso quanto sia sacra la vita o preferisce far
finta di nulla perché... "tanto è così". No... non
dev'essere così. Massimo Bubola con la sua band ha proposto al
pubblico canzoni quali le sopracitate "Il cielo d'Irlanda"
e "Il fiume sand creek" ed anche una versione dolcissima di
"Volta la carta" perché "è come mi piace farla ora
che ho un bimbo piccolo, come una ninna nanna" ha detto.
Torniamo però al progetto dedicato alla Grande Guerra, proseguito
con la pubblicazione, nel maggio 2014 dell'album "Il
testamento del capitano", uscito in occasione del
centenario. Sei brani della tradizione popolare, alpina e sei inediti
del maestro. Ieri sera ho potuto ascoltare le meravigliose "Ta
pum", "Bombardano Cortina", "Sul ponte Perati",
"Il testamento del Capitano", brani che... ho ricordato,
perché li avevo già uditi, in tenera età probabilmente... e
le parole tornavano alla mente, mentre Massimo cantava e così... le
ho sentite. E il capolavoro che Massimo ha scritto pensando a quei
tempi non lontani in cui la sera si cantavano canzoni popolari che
riguardavano proprio la guerra, il dolore, la nostalgia e l'amore e
che lui ha saputo racchiudere in "Rosso su verde", così,
come se fosse la cosa più semplice del mondo, scrivere un brano che
racchiude tutto questo. Ma quanto... quanto... è... e li ho visti
quei momenti, nella testa e nel cuore, quei momenti di cui raccontava
e in cui la memoria, c'era davvero. La voce calda e intensa di
Massimo Bubola, le sue parole... la dolcezza estrema e tutto l'amore
racchiuso in "Tre rose"; tutto, tutte le molecole della mia
anima sono state rapite. La voce e il volto angelico di Erika
Ardemagni, la passione e i colori, il gusto, di Enrico Mantovani, il
tocco, di Alessandro Formenti. La Eccher Band. Mi hanno "ammazzato"
e "ridato la vita". E "come se non bastasse",
tra un pezzo e l'altro, l'attore gardesano Fabio Gandossi, che ha
interpretato scritti pieni di pathos, storie di soldati al fronte,
scritti donati al pubblico da Massimo, un dono, un altro, grande
dono. Grazie... grazie... grazie... e anche questa parola...
racchiude un grande mondo.