venerdì 17 giugno 2016

La storia del cinema (parte 2): dalla nascita del divismo a Chaplin e von Stroheim

Rodolfo Valentino

Eravamo rimasti ad Ince, Sennett e Griffith, i primi tre grandi del cinema e... agli anni dieci, con relativi sviluppi, innovazioni e nascita di generi cinematografici, tra i quali il western americano. Dunque ora il passo successivo: nei primi anni della Grande Guerra. In quegli anni Hollywood si consolidò del tutto a capitale mondiale del cinema, grazie a una base finanziaria solida, vasti canali di distribuizione, miriadi di artisti, tecnici, attori e produttori che contribuirono a rendere il cinema americano tipico e ben distinguibile e grazie a una prestigiosa organizzazione tecnica che faceva la differenza, insieme a tutti gli altri aspetti sopracitati. Negli anni dalla fine della prima guerra mondiale sino alla crisi del '29, si trovò nel cinema americano uno specchio della realtà nei suoi molteplici aspetti e due artisti, in particolare, fecero la differenza: Eric von Stroheim e Charlie Chaplin, i migliori allievi – rispettivamente – di Griffith e Sennett. I due iniziarono a creare quelle che poi sarebbero state e rimaste nel tempo le migliori opere del cinema americano degli anni '20. La struttura artistica e produttiva americana di stampo hollywoodiano si impose con il marchio di fabbrica di grandi case cinematografiche come la Fox, L'Universal, la Paramount e la First National, che fin da allora furono sinonimo di qualità. Nacquero in quel periodo, i primi divi del cinema. Il divismo era frutto del crescendo di una realtà che sempre più diventava per il pubblico un mondo a se, lontano dalle leggi comuni della società. Il pubblico non distingueva più, così, la realtà dalla finzione, la vita privata degli attori da ciò che era solo frutto del lavoro artistico. La vita e l'arte di apparteneva a questo mondo, si fondevano in un'unica dimensione dell'esistenza. Gli spettatori che affollavano le sale riversavano le proprie preoccupazioni, le proprie angosce e speranze, nel sogno che lo schermo poteva dare agli occhi e al cuore a poco prezzo e la stabilità, la libertà che avevano i registi, gli attori, i produttori, permetteva al grande cinema di distinguersi dalle produzioni fatte solo per "il consumo"; potevano essere così affrontati argomenti d'ogni sorta, c'era una grande varietà di generi e potevano essere affrontati argomenti anche profondi e attuali. Fin da allora poi, nacquero due tipologie di "divo" o "diva". Per intenderci, attori quali Douglas Fairbanks (eroico e cavalleresco) e la moglie Mary Pickford (chiamata anche "la fidanzatina d'america", "la piccola Mary" ed altri appellativi simili) rappresentavano "i buoni" e divennero modello di un certo tipo di americanismo, sia in patria che all'estero, che portò loro grande un grande successo, anche al di là delle loro reali capacità di attori. Furono la prima coppia celebre del cinema americano. Fairbanks era vitale, simpatico, acrobatico e pur se non fu un grande attore, aveva tutte le qualità per essere, appunto, un divo, un personaggio che incarnava il mito dell'autoesaltazione come strumento del successo. La moglie, dal canto suo, fu anche produttrice e fondatrice dello studio cinematografico United Artists e una dei trentasei fondatori dell' Accademy of Motion Pictures Arts and Sciences. Al divismo "buono", considerato "educativo" e che poteva essere "d'esempio agli spettatori", si contrapponeva il divismo "trasgressivo", quello scandaloso, provocatorio, di attori quali Theda Bara e Rodolfo Valentino. Theda Bara fu la prima "vamp" (termine che deriva tra l'altro da "vampire", non a caso). Venne portata al pubblico come la donna tentatrice, la donna fatale e perversa che si diverte a rendere gli uomini suoi schiavi per poi liberarsene una volta conquistata la loro adorazione. Il tutto palesemente progettato, fin dal nome d'arte, fin dal primo ruolo secondario con il quale venne lanciata dalla Fox: un melodramma, "La vampira" (1915), attraverso il quale nacque per l' appunto il suo pseudonimo di Theda Bara, anagramma di "Arab Death". Immagini conturbanti in abiti egizi, contornate da ragnatele e serpenti. Ecco come è nata la "cattiva ragazza" del cinema di quei tempi. E Rodolfo Valentino? Beh, anche chi non è un grande appassionato di cinema, almeno una volta nella vita avrà sentito dire qualcosa che lo riguarda. Ancora oggi è considerato il divo per eccellenza. Latino, passionale, non il "cattivo" in realtà, quanto piuttosto l'uomo fuori dai canoni del tempo, il primo vero sex symbol, il "Latin Lover", con qualità recitative e uno stile inconfondibile ammirato da tanti grandi del cinema, tra i quali anche Charlie Chaplin. Bello e provocatore, ballerino eccelso e grande attore, venne ben presto consegnato alla leggenda come "il divo insuperabile". Il marchio di fabbrica hollywoodiano, con la sua adattabilità di temi, la sua qualità palesata, la sua meccanizzazione a livello di "industria cinematografica", si considera essere stata rappresentata al meglio dal regista Cecil Blount De Mille che passò da opere drammatiche a film passionali che diedero il via alla "commerdia libertina" e posero le basi per i successivi "anni folli", per poi occuparsi di western ed altri temi leggeri e ricambiare, ancora, proponendo "I Dieci Comandamenti", un film biblico di grande spettacolarità, senza lasciare da parte però le sue produzioni drammatico-passionali. Il cinema di De Mille porta gli spettatori, in ogni caso e al di la' delle tematiche trattate, fuori dalla realtà; ipnotizza il pubblico, addirittura troppo preso dalle immagini che scorrono, per poter avere il tempo di riflettere sulle tematiche che gli vengono proposte.

Charles Spencer Chaplin
Charles Specer Chaplin. Anche lui si affermò negli anni dieci. Iniziò dal teatro - come anche altri del resto – e giunse al cinema muto nel 1914, lavorando per Sennett. Con il cinema poteva finalmente dar libero sfogo a tutto ciò che il teatro, per tempi e spazio, non poteva consentire. Il personaggio che lo rese celebre, Charlot, ebbe una sua evoluzione, fino al perfezionamento raggiunto dall'attore nel 1915, quando Chaplin smise di lavorare con la Keystone di Sennet e firmò un contratto con la Essanay che gli permetteva di scrivere e dirigere i propri film. In questo passaggio la comicità esteriore si fa più profonda e porta al personaggio quella velata amarezza che non vuole nascondere gli aspetti più negativi della società e della realtà. Nel 1916 Chaplin passa alla Mutual e con questa casa di produzione il personaggio di Charlot perde totalmente il carattere della "macchietta". La poesia di Chaplin non ha più limitazioni e diventa simbolo di contestazione verso il sistema borghese e capitalistico, non si tratta più di sola satira di costumi e umorismo, bensì di un personaggio che ha le sue radici nel giudizio della società e della politica, un personaggio ideologico che mette in risalto tutte le contraddizioni di quei sistemi che contesta. Chaplin non smette mai di far evolvere il suo personaggio e successivamete, pur mantenendo lo schema del film comico e pieno di gag, il sentimento prende il sopravvento, il nucleo del dramma non è solo la solidutine di Charlot e la critica, la satira, prendono forme umanamente più dolci, nonostante non manchi mai, in ogni caso, l'accenno alla critica stessa. Charlot si raffina nel tempo anche dal punto di vista stilistico e pur mantenendo come base la mimica del personaggio, lo spessore psicologico del personaggio si fa sempre più nitido, le tecniche espressive sempre più fini e si arricchiscono così anche le ambientazioni e la tempistica, che diviene sempre più ritmata e scorrevole. Con l'arrivo della crisi del 1929 Charlot riacquisisce le sue caratteristiche principali, con opere comico-politiche di stampo chiaramente satirico (v. "Tempi Moderni", 1936). Trovandosi nel mezzo della prima e della seconda guerra mondiale, Chaplin riesce con le sue opere a concludere il ciclo di tutto il lavoro precedentemente proposto con il personaggio di Charlot. Nell'alta tensione internazionale degli anni appena precedenti al '40, progetta una continuazione del personaggio che si rivelerà poi con l'uscita de "Il dittatore" (1940), la prima esperienza di Chaplin nel cinema sonoro. Nel 1947 esce "Monsieur Verdoux" e il personaggio di Charlot è sostituito appunto dal sig. Verdoux: cinico, egoista, avventuriero e cattivo, Verdoux è il simbolo della perdita dei valori morali dell'umanità, amarissimo ritratto di un mondo in cui l'interesse dei singoli o di un gruppo prevale su qualsiasi cosa, un mondo in cui il delitto è diventato solo un mezzo del potere, giustificabile, per gli assassini, come se nulla fosse. Nei periodi successivi escono film legati alle esperienze personali di Chaplin ("Luci della ribalta", 1952 - "Un re a New York", 1957 e "La contessa di Hong Kong", 1967). "La contessa di Hong Kong", tra l'altro, è l'unico film da lui creato e diretto in tempi recenti, in cui egli stesso non appare come attore, il suo unico film a colori e l'ultimo film della sua incredibile carriera di attore e produttore. E' un film in cui i protagonisti sono la nostra meravigliosa ed eterna Sophia Loren e il grande, memorabile, Marlon Brando. Da sottolineare inoltre, è che Chaplin è sempre stato anche il creatore delle musiche presenti nelle sue produzioni. Un artista a tutto tondo, che è stato e rimarrà sempre unico, conosciuto da tutti ma non abbastanza (nei tempi d'oggi) è diventato modello difficilmente superabile di arte pura, leggera e brillante, senza sconti e in continua fase di trasformazione, proprio come il mondo che lo circondava. In una posizione di unicità, rispetto allo sfondo delle produzioni hollywoodiane.

Per quanto riguarda invece la storia professionale di Eric von Stroheim, si parla di un uomo fortemente influenzato dal fascino che aveva, rispettivamente, per il mondo aristocratico e per quello militare. Figlio di un cappellaio viennese ebreo, egli si ritagliò inizlamente ruoli da "rampollo aristocratico", ebbe poi molti ruoli in cui interpretava ufficiali di vario grado dell'esercito americano e, durante la seconda guerra mondiale, diversi furono anche i ruoli in cui interpretava ufficiali nazisti. Il suo stile e il suo carattere rigido si adattavano bene a ruoli duri e divenne così, in quel periodo, la rappresentazione cinematografia del cattivo per eccellenza. Alcune scene da lui intepretate come soldato tedesco, tra l'altro, suscitarono grande scalpore e sdegno nell'opinione pubblica. Questo però era il suo ruolo. In un' America oramai in guerra, egli doveva portare al pubblico l'immagine del cattivo contro il quale il Paese stava combattendo. Stroheim fece molta fatica ad iniziare la carriera di attore, anche se poi, tra altri e bassi, fu interpete di molteplici pellicole. Quando poi si dedicò alla creazione e alla regia (una volta finita la guerra e con la fine delle richieste di attori che interpretassero quel tipo di ruoli), riscontrò sempre grossi problemi con i produttori, poiché era tanto pignolo, duro e maniacale si può dire, da metterci ore ed ore ed ore già solo per girare una scena di apertura. Questo lo screditò parecchio naturalmente, poiché i suoi lavori da regista risultavano troppo lunghi e costosi, ache se essendo a corto di offerte talvolta riuscì a risollevarsi con lavori più adatti al cinema hollywoodiano, per poi ripiombare nelle problematiche con i produttori una volta riottenuta carta bianca. Per intenderci, uno dei suoi lavori, arrivò a durare otto/dieci ore e fu integralmente proiettato una sola volta in forma privata, per poi essere tagliato dai produttori fino a una durata di due ore e rivenduto come film di serie B (cosa che ovviamente non fece piacere al suo creatore, ma appunto, questo suo modo di girare, fu in sostanza la sua rovina come regista). Dopo diversi tentativi di proporre questo suo anomalo ma allo stesso tempo geniale e titanico stile, si dedicò di nuovo solo alla recitazione e negli anni ebbe ruoli talvolta nella scrittura di sceneggiature o altri lavori come il tecnico, l' aiuto regista ecc... E' stato definito in sostanza un altro grande della storia del cinema, capace di creare capolavori riconosciuti quali "Rapacità", nel quale realismo e mertafore visive si fondevano in un'unica cosa, con la ricostruzione scenografica in studio, tra l'altro, di un'intera strada di San Francisco dell'ottocento, curata nei minimi dettagli. Usando, a differenza della gran parte dei registi americani del tempo, la profondità di campo, egli creò sfondi ricchi di dettagli, meno facili da accogliere per lo spettatore ma più ricchi di significati diversi tra loro, anche contrapposti a quelli portati dalle immagini in avanpiano. Nel 1955, Abel Gance – regista, attore, sceneggiatore, produttore e montatore cinematografico fancese – disse di lui: "Un genio, un uomo di immense capacità che è stato messo nell'impossibilità di nuocere, costretto per vivere a fare l'attore agli ordini di registi mediocri."

lunedì 6 giugno 2016

La storia del cinema (parte 1): dai fratelli Lumière al western americano

I fratelli Lumière
Stavo pensando a tanti film che mi sono piaciuti, a quelli che ho adorato a quelli che proprio non mi hanno convinto. Ho pensato a grandi registi, attori e attrici, al grande lavoro che c'è dietro a ogni film che vediamo, a quante persone al mondo vedono film ogni giorno; mi sono venuti in mente i fratelli Lumière e così mi sono detta: ma poi? Dopo di loro che è successo? E qui è partita la ricerca che tenterò di condividere con voi al meglio. In effetti, addetti ai lavori e studenti/ studiosi del settore a parte, credo siano rare le persone che conoscono quello che è stato il grande percorso che ha portato fino ad oggi, dunque, eccomi qui a riassumere il più possibile quel che ho scoperto nelle mie ricerche, con un primo articolo dedicato, a cui seguiranno poi altri articoli.

I fratelli Lumière - Louis e Auguste - furono i primi, alla fine del 1895, a far scoprire il cinema al pubblico e questo lo sappiamo più o meno tutti. Come naturale che sia, non è che la cosa sia nata all'improvviso e i due fratelli, prima di questa prima proiezione, sperimentarono a lungo, si impegnarono in messe a punto e richerche tecniche fino a che Louis riuscì a creare l'apparecchio da cui tutto è iniziato: il Cinematografo. L'apparecchio aveva le funzioni di ripresa e riproduzione di immagini fotografiche animate; era azionato a manovella e consentiva la riproduzione delle immagini per un tempo abbastanza lungo da rappresentare azioni compiute e continue. Vista la scoperta ed essendo consapevoli di quanto potesse avere successo una tale innovazione, i fratelli Lumière, si cimentarono nella commercializzazione su vasta scala della loro invenzione, ottenendo, fin dal primo spettacolo del dicembre 1895, un grande riscontro da parte del pubblico. Nelle prime proiezioni lo spettacolo era costituito da una serie di brevi film di un minuto o poco più ciascuno, per un totale di mezzora di spettacolo intervalli compresi ed era costituito da scene familiari, di attualità, piccoli sketch comici e informazione documentaristica. Immaginate lo stupore degli spettatori. Noi siamo abituati al grande cinema, ma pensate a quei primi spettatori, alla loro meraviglia, la curiosità, le emozioni, nel vedere per la prima volta nella storia, persone ed oggetti, la realtà, enfatizzata nei dettagli drammatici come in quelli comici, riprodotta sotto forma di spettacolo animato. La cinecamera era fissa e sembrava proprio essere come una porta aperta su un mondo fino ad allora sconosciuto. La produzione dei due fratelli si intensificò tra il 1895 e il 1899 e si concentrò soprattutto sull'informazione alternativa, non pilotata, e documentaristica. Nel 1896 assunsero alcuni fotografi e questi signori avevano il compito di assicurarsi della corretta riproduzione degli spettacoli e allo stesso tempo di catturare fotograficamente scene, panorami francesi, stranieri ed esotici, durante la loro permanenza nei diversi luoghi dove lo spettacolo veniva proposto. Nacquero così anche la "carrellata" e altri effetti cinematografici inventati da Eugène Promio, un operatore francese d'origini italiane, che studiò questi espedienti tecnici durante le riprese di alcuni film girati in differenti parti del mondo. Andando avanti il cinema divenne sempre più un mezzo d'informazione, con la funzione di far conoscere luoghi lontani e di presentare fatti di cronaca tramite i primi veri e propri inviati della storia. Iniziò così una folle corsa, la corsa dei vari produttori di film dell'epoca per essere sempre i primi ad arrivare sul posto dove qualcosa accadeva. Questa continua corsa, così intensta, portò poi alla riproduzione di fatti accaduti realmente, d'attualità e cronaca appunto, in scenari ricostruiti in studio. Anche l'illusionista francese Geroge Méliès rimase ammaliato dal cinematografo, poiché vide nella macchina la possibilità di riprodurre illusioni che aveva già proposto a teatro. I fratelli Lumière però decisero per questioni commerciali e di profitto di non vendergli il Cinematografo e Méliès, nel 1896, costruì un proprio apparecchio (il Kinetografo), dando il via a spettacoli di fotografie animate, non molto lontani - per il primo anno di attività cinematografica - dai primi lavori dei Lumière. L'anno successivo però, fece un balzo di qualità, aprì un vero e proprio studio cinematografico con il quale realizzò poi "film con trucchi", che diventeranno la sua specialità ed erano sostanzialmente una continuazione e un'amplificazione del suo lavoro teatrale. L'illusione ottica, la meraviglia, il mistero, erano alla base dei suoi lavori teatrali e il cinema permetteva di amplificare tutto questo. Fu Mélies, in questo senso, a dare vita allo spettacolo cinematografico. Furono girati negli anni diversi film fantastici, d'avventura e anche comici, continuò la produzione del cinema a trucchi portando le sue illusioni in scena e rispetto agli altri aveva anche tecniche e approcci diversi. I suoi film erano più lunghi, suddivisi in scene ed episodi, erano ricchi di ambientazioni e personaggi e lo schema era tratto dal dramma tradizionale o dal romanzo d'avventura, con uno stile di recitazione molto teatrale da parte degli attori. Gli stessi fratelli Lumière riconobbero Mélies come il creatore dello spettacolo cinematografico che avrebbe dato i natali a tutte le successive produzioni. Nonostante ciò, nel 1912, la sua produzione si fermò a causa delle grandi case cinematografiche che non lasciavano più spazio ai produttori indipendenti e alle piccole case. Nei primi quindici anni dalla creazione del Cinematografo, il cinema si era già evoluto in qualcosa di molto più ampio, sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista commerciale. Nacque in Francia, Stati Uniti e in Gran Bretagna, una vera e propria industria del cinema, con produzione e distribuzione delle pellicole. Il cinema continuò ad arricchirsi, visto il grande gradimento del pubblico, grazie ai produttori e naturalmente ai creatori dei film e così nelle principali città vennero aperti numerosi studi. Il primo grande industriale cinematografico, che creò a partire dal 1896 un vero e proprio impero di produzione, distribuzione e noleggio dei film, fu Charles Pathé, per molti anni dominatore del mercato mondiale (in particolare tra il 1903 e 1909). Tra i suoi primi collaboratori vi fu Ferninand Zecca (relizzazione, supervisione, produzione dei film e creazione di un'equipe di persone specializzate: registi, operatori e tecnici). Insieme, i due, daranno vita a film di ogni genere. Pathé cominciò a ridimensionare il suo impero intorno al 1918, pressato dalla concorrenza e nel 1929 decise di ritirarsi. Nel frattempo, nel 1895, anche Lèon Gaumont aveva dato vita alla sua società di produzione. Precedentemente impiegato in una fabbrica di materiale ottico e fotografico, intraprese la via delle grandi produzioni cinematografiche; inventore e costruttore di apparecchi di proiezione e cineprese, commercializzò anche macchine di altri inventori e la sua modalità di commercializzazione era ben precisa: la vendita di ogni apparecchio era accomagnata da pellicole dimostrative, che tra l'altro erano create dalla segretaria della società, Alice Guy, considerata la prima regista donna. Nel 1911, il Gaumont Palace di Parigi divenne la sala cinematografica più grande al mondo, con 3400 posti a sedere. Nel 1930 la società venne messa in liquidazione e riaperta con nuovo nome nel 1938. Accanto alle grosse produzioni, si mantennero comunque attive produzioni meno spettacolari, con scenografie meno costose, a cui però partecipavano attori di fama e letterati. Al centro di queste produzioni c'era l'attenzione per lo spettacolo cinematografico in se, l'evoluzione dell'espressione artistica (oltre che tecnica). In particolare con Emile Cohl, Max Linder, Louis Feuillade e le loro produzioni nei primi decenni del novecento, si ebbero le maggiori novità dal punto di vista artistico/espressivo. Negli Stati Uniti invece fecero da pionieri Thomas Edison (inventore, tra le altre cose, del Kinetoscopio e fondatore della sua casa di produzione, la Edison appunto), William Kennedy Dickinson (casa di produzione Biograph), Stuart Blackton e Albert E. Smith (fondatori della Vitagraph). L' approccio americano però – più che in altri Paesi – fu fin dall'inizio palesemente speculativo, perciò per diversi anni le produzioni americane non riuscirono ad avere una struttura tecnico/artistica che gli permettesse di realizzare produzioni di qualità come invece accadeva in Francia. Visto lo svilupparsi di una vera e propria guerra ai brevetti, durata negli Stati Uniti fino al 1908, nel 1909 venne fondata la "Motion Pictures Patent Company", che raggruppava le sette più importanti case produttrici americane (Edison, Biograph, Vitagraph, Essanay, Selig, Lubin e Kalem) e che aveva lo scopo di mettere ordine nel settore, eliminando anche le piccole case indipendenti che venivano inglobate dalle grandi case. Fu dal 1905 in poi che la produzione statunitense cominciò a prendere una reale forma, con la costruzione di sale specializzate. Anche in America le produzioni si concentrarono inizialmente sull'attualità, sulle pellicole comiche, storiche, avventurose o documentaristiche, con micro film che messi insieme porgevano all'attenzione del pubblico uno spettacolo di circa mezzora, come accadeva in Francia. Il primo esempio di cinema narrativo per come viene inteso ancora oggi però, è attribuito proprio all'americano Edwin Porter, che realizzò il progetto per Edison nel 1902. Le immagini documentaristiche dell'intervento di una squadra di pompieri, vennero unite alla storia di una mamma e del suo bambino: in pericolo tra le fiamme in cui viene avvolta la loro casa, c'è una successione di momenti di tensione, che porta infine al salvataggio di entrambi. Happy Ending. Pur non utilizzando ancora le techiche di montaggio e varietà di piani che verranno usate in seguito, Porter diede una svolta essenziale al cinema americano e ancora di più e in modo decisivo lo fece con le produzioni successive. Si devono a lui i primi film con suspance, i primi prototipi di western, le prime storie di gangster e le prime narrazioni di dramma sociale. Se la Edison puntava molto sulla messa in scena della realtà, la Vitagraph si sviluppò maggiormente nella direzione della qualità tecnica e Stuart Blackton fu infatti un grande esperto di cinematografia e un grande sperimentatore. La tecnica a scatto singolo, con la quale è possibile animare oggetti inanimati, deve la sua diffusione ai suoi film d'animazione e fu il successo dei suoi lavori a spingere anche altre case di produzione a dedicarsi al ramo del disegno animato. Negli anni la Biograph aumentò le sue produzioni affiancando la Edison per tipologia e generi. Furono proprio le due case a porre le basi dell'odierna Hollywood. Fu in quel periodo infatti che i produttori cominciarno a girare film in esterna e la California, Hollywood, con il suo clima più mite, era la meta ideale degli addetti ai lavori e portò così truppe di registi, attori e operatori a radunarsi per lavorare sulle coste californiane. Da segnalare assolutamente è inoltre il lavoro del regista David Wark Griffith (Biograph) che, ancora in piena corsa ai brevetti, fu artefice di un cambiamento fondamentale: cominciò a considerare il cinema un'arte e non un oggetto di consumo. Il suo approccio diverso , i suoi lavori, il buon fiuto nello scovare talenti tra gli attori e il suo modo di dirigerli, lo misero in tempi brevi in primo piano, per quel che concerne la storia del cinema. Introdusse forme espressive nuove, elaborate, trasformò l'idea di cinema per come era stata concepita fino a quel momento dagli altri registi e produttori. Per lui il cinema era un linguaggio artistico ed espressivo autonomo, la psicologia dei personaggi era accurata, umana, i personaggi non erano più solo "mascherine", bensì uno specchio realistico dei sentimenti del pubblico. Dalla Biograph passò poi alla Mutual, ottenendo ancora grandi successi e ponendo le basi espressive per rendere il cinema l'arte popolare che è tuttora. In Europa nel frattempo il cinema continuò il suo sviluppo in diversi paesi e in particolar modo in Gran Bretagna con i lavori di George Sadoul e la sua "scuola di Brighton". Quest'ultima, aveva come principali caratteristiche l'utilizzo dei primi piani e dei montaggi alternati. Prima ancora di Sadoul, fondamentali furono anche i lavori di Robert William Paul, che partendo da film semplici sullo stile dei fratelli Lumière ampliò gli orizzonti del paese verso nuove direzioni, producendo anche quello che viene considerato il primo film comico britannico. Paul sul fronte dello spettacolo cinematografico, James Williamson e George Albert Smith – sempre della scuola di Brighton – sul fronte del realismo, diedero così i natali alle produzioni più innovative. Nonostante ciò, nemmeno in Gran Bretagna, come negli altri paesi europei, vi fu un reale salto di qualità. Per vedere l'affermarsi di alcune realtà cinematografiche nazionali (Italia, Danimarca, Svezia, Germania, Spagna ecc.) si dovrà attendere a lungo, ovvero gli anni appena precedenti alla prima guerra mondiale. In Italia, ad esempio, le prime produzioni sono considerate "ambulanti", in quanto erano perlopiù spettacoli da fiera e ad ogni modo la produzione era perlopiù francese (nonostante l'italiano Filoteo Alberini avesse brevettato nel 1895 il Kinetografo). Aprirono diversi anni dopo le prime sale e nel frattempo Alberini e Santoni, diedero i natali a "Il Primo Stabilimento di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni", trasformata l'anno dopo nella "Cines", che diventò in seguito una delle più importanti case di produzione italiane. In contemporanea, in Francia e Stati Uniti, nacquero nel 1913 i "serials". Vi fu, in sostanza, un passaggio dalla carta stampata allo schermo di quel tipo di narrazioni a puntate che erano così diffuse sui giornali e che sempre più avevano avuto successo negli anni. In breve tempo i serials si diffusero diventando addirittura una moda. Per quanto riguarda il cinema d'oltre oceano, fu il western a diventare il genere americano per eccellenza, soprattutto con l'arrivo degli anni dieci e Thomas Harper Ince ne fu immediatamente il rappresentate più qualificato. Con il western il pubblico poteva apprezzare l'apertura dell'uomo verso spazi infiniti, l'azione, il sentimento storico di un tempo non molto lontano e il richiamo alla tradizione culturale e alla letteratura. Per questi motivi la gente lo amò fin da subito. Dopo il 1912 Ince, dopo centinaia di film, lasciò il testimone ad altri registi e in particolare a Ford, Barker e Hart. Hart, come attore e regista, fu per anni il simbolo del West e i suoi film furono spesso prodotti in collaborazione con Barker. Ebbero comunque una rilevante supervisione da parte dello stesso Ince, che in sostanza divenne il terzo grande del cinema americano accanto a Sennett e Griffith.

venerdì 20 maggio 2016

Van De Sfroos e "Il costruttore di motoscafi": la storia di una vita in una canzone

Quando svariati anni fa ho scoperto questa canzone, me ne sono innamorata al primo ascolto. Essendo il dialetto comasco comprensibile per una persona della mia zona, non ho avuto problemi a comprenderne il testo. Davide Van De Sfroos è fantatico, tantissimi lo seguono, qualcuno lo ascolta di tanto in tanto e c'è poi chi non lo conosce, perché i suoi testi sono perlopiù dialettali o perché non l'ha mai sentito al di la' di questo. Un giorno feci ascoltare a una ragazza del sud questo pezzo: ne amava la melodia, la fonetica, ne percepiva al di la' di tutto la dolcezza e la genuina poeticità, ma ovviamente non comprendeva il testo a pieno, dunque gliela tradussi parola per parola e anche lei, la adorò. L'ho riascoltata proprio oggi, così mi è venuta voglia di condividerla con chi leggerà e ascolterà, scrivendone anche la traduzione per chi non comprende il dialetto in questione. È la storia di un uomo, della sua vita, dell'amore per quello che fa e per la sua famiglia, della sua genuina ironia, delle sue speranze e riflessioni. La storia di una vita, in una canzone.



"Dicono tutti che il lago di Como... è fatto come un uomo, ma io sono sicuro che è una donna; devi farle il filo, se vuoi averla, perché sotto la gonna, c'è la... (profondità). E per poter seguire ogni suo capriccio, ho imparato a curvare il legno e a raddrizzarlo quando è storto. Perché quando mi preparo un motoscafo, dev'essere come una spada e dev'essere come una foglia. E forse sono nato con questa canottiera, con questo cuore fatto di acqua e lamiera... Con questa schiena larga e questa testa dura, sempre sporco d'olio e segatura. E per coprire le mie barche, ho usato le lenzuola del letto matrimoniale. La vita gira finché gira l'elica, ma gira a vuoto se non hai un timone. Paola, che mi chiami dal balcone, insieme a questi tre figli che mi faranno diventar matto, ma che impareranno quel che faccio... e che farò. Paola, tre figli, tre matti... o forse tre campioni... L'unica cosa che so bene, è che faranno il mio mestiere... questo mestiere. I ghirigori sopra l'acqua e la mia firma sopra l'onda, con la barca che s'impenna, con la barca che dondola e poi arriverà la "brèva", a cancellare questa mia scia, ma il segno della mia storia, non la porterà mai via. E arrivano da Como e da Milano e voglion tutti la barca pronta; gli spiegherò imprecando o parlando come Shakespeare... che la barca ha una poppa e una prua! E non mi interessa per niente se tutti dicono che è la plastica il futuro dei motoscafi. Ho trascorso la mia vita in mezzo ai pezzi di legno e tra quattro pezzi di legno partirò per l'altra sponda. Paola, che mi chiami dal balcone, insieme a questi tre figli che mi faranno diventar matto, ma che impareranno quel che faccio e... che farò. Paola, tre figli, tre matti! L'unica cosa che so bene è che faranno il mio mestiere... questo mestiere... I ghirigori sopra l'acqua e la mia firma sopra l'onda, con la barca che si impenna, con la barca che dondola... E poi arriverà la "brèva", a cancellare questa mia scia, ma il segno della mia storia, non la porterà mai via." - Davide Van de Sfroos, "Il costruttore di motoscafi", dall'album "Pica!" (2008).

* "brèva": è il nome di un vento, ndr

sabato 30 aprile 2016

Garrapateros: "Garrapata Sound System"


"Garrapata Sound System", il nuovo album dei Garrapateros. Ve li ricordate? (per chi  li avesse scoperti sul blog ); ci avevo fatto una luuunga chiacchierata, molto interessante, andando a fondo, tra i testi, la musica, i pensieri, le visuali di vita (per rileggere cliccate qui). Il nuovo album ha quella formazione della quale Nic mi aveva parlato, nuove entrate nella band che andavano a costruire quel sound nuovo che già al tempo chiamava "Garrapata Sound System". Da bravi spiriti patchanka rebelde, i Garrapateros si sono evoluti ancora di più. E' stato fantastico ritrovare in questo album versioni molto più energiche (nella maggior parte dei casi) e "romantiche" (nel caso di "Cenere e Fuoco") di pezzi ripresi dal primo album "Vida no mata". Le ho percepite come più reali, più palpabili, come nei live e infatti... dei live sentiti/ visti, mi ricordano la struttura musicale, gli arrangiamenti, l'interpretazione, il tutto ripreso e fissato nell'album. Poi, riguardo ai pezzi del primo album che si sono evoluti durante gli innumerevoli live per poi racchiudersi in questo "Garrapata Sound System" (un po' come se i live fossero stati - nel passaggio - il bel paesaggio di fronte a un pittore impressionista), ti vai a riascoltare il prima e il dopo e pensi al fatto che la prima versione ti piace come ti piaceva allora, ma che qui trovi quell'evoluzione, quel groove in più, sempre più patchanka rebelde, la maturazione, il crescendo che in una band ci deve essere o non sarebbe una band di talento. Poi gli inediti. Dopo l'uscita dell'album a novembre 2015, la band presenta come singolo, con video, "Zona Rossa", una bella botta di energia che non manca - perché con un autore come Nic non potrebbe mancare - di profondità di concetti. I testi di Nic non sono mai superficiali, ha da sempre la capacità di scrivere in pochi versi una miriade di cose interpretabili in molteplici modi, sia quando i testi sono più lunghi e dettagliati sia quando sono - solo fisicamente - più brevi. Molto bello il video che rispecchia la canzone a pieno dal mio punto di vista. Il viaggio, gli amici, la vita, lasciare una scia, la scalata, il sudore, l'inizio, il tramonto. "Somos", la mia preferita. Un pezzo che inizia come una poesia, recitata da Nic naturalmente. Perché una poesia? beh, per il testo e per l'intepretazione fantastica che ne da l'autore. Traducendo al meglio possibile... "Mi dici qualcosa che non so, non capisco. Mi dici che non è una storia [questa], è quello che è successo a me (!) e il futuro delle tue parole è presente, qui (!). E non... se ho quindici anni ribellione, se ho quartant'anni responsabilità, se ho ottant'anni fatica o... se non sono ancora nato... innocenza; non tocco, non ascolto, non parlo. Vedo soltanto, eppure penso già [così tanto]: "Chi sono?"." La musica, in questo pezzo, ha addirittura influenze jazz (è patchanka, perché dunque limitarsi?). Si perché senti una batteria che in certi punti lo ricorda, senti un assolo di tastiere che in un pezzo jazz ci starebbe a pennello e senti un "canticchiare" di Nic che dal vivo potrebbe avvicinarsi a uno scat, perché no; senti poi, anche quel tipo di ritmato che ricorda il charleston e con cui è difficile star fermi. "Musica che accarezza la pena", dice, perché come spesso accade Nic ripropone tematiche che puntano alla riflessione sulla vita, su quanto sia dura a volte, ma su quanto sia necessario e sacrosanto godere di ogni momento, crescere e non credere mai che un sogno sia impossibile o che la vita "ammazzi" perché "La vida no mata", è un controsenso no? E così, se c'è una pena... la musica la accarezza. Felice a mille poi, di aver sentito "Hijo de Puta". Durante i live in duo acustico, Nic e Cannibal, avevano già iniziato a deliziare il pubblico con questo pezzo strumentale fantastico nel quale il sound di chitarra e percussioni di due musicisti già bastava a ribaltare un locale. Mai incisa prima, decidono - per fortuna - di farlo con "Garrapata Sound System" e nella versione dell'album arrivano i suoni spaziali dei synth e delle tastiere deliranti. Come ultimo pezzo dell'album, "Sigo" ovvero "Continuo", come il cammino dei Garrapateros, che - per citare il testo - sono come "una lucertola a cui continua a ricrescere la coda, in qualsiasi punto essa sia stata tagliata", perché Nic c'è, perché Cannibal c'è e perché hanno trovato lungo il loro cammino Petardero (basso e cori), Papy Chulo (chitarra elettrica e acustica) e Tio (tastiere, synth e groove), coi quali hanno sentito accendersi la giusta miccia, per continuare a crescere, in questo sogno diventato realtà.


 



martedì 12 aprile 2016

martedì 1 dicembre 2015

Enrico Mantovani: la musica che si vede


Ernico Mantovani. Venerdì 26 Settembre ho assistito, non per la prima volta, ad uno dei suoi magnifici, emozionanti e sempre unici concerti (a "La Taverna delle Fate Ignoranti" di Quinzano d'Oglio (Bs), un luogo delizioso). Enrico Mantovani è un "OneManBand", perché definirlo "solo" un chitarrista di talento è poco; non a caso "OneManBand" è il suo biglietto da visita e quando lo senti suonare, quando lo vedi suonare e le emozioni si trasformano in musica, percepisci che le melodie, le armonie, il ritmo, diventano colori, temperatura, immagine, suono percepibile al tatto ed allora comprendi perché Enrico Mantovani non è "solo" un chitarrista di talento e a quel punto non è più necessario spiegare perché il suo biglietto da visita è "OneManBand"; però ve lo spiego, perché molti di voi magari non l'avranno ancora mai sentito nonostante giri in lungo e in largo l'Italia (come invece alcuni già adoreranno il suo sound). Al di la' di questo, mi capita spesso di partire dalle emozioni quando parlo di un talento, perché la differenza tra un "bravo musicista" e un "musicista di talento" sta nell'anima, nella grinta, in quel che arriva alle persone. È così per tutte le discipline artistiche, naturalmente a parer mio. Enrico Mantovani è un artista bresciano, polistrumentista, ma la chitarra è nel suo nome. Vive a Orzinuovi ed ha collaborato con grandi artisti quali il cantautore Massimo Bubola, Giorgio Cordini i più noti (al grande pubblico si intende) Massimo Ranieri, Francesco Renga, Eugenio Finardi... ed ha suonato anche con Alex Britti (spero vi sia capitato di sentire una volta almeno il Britti blues), Gianna Nannini, Fausto Leali e molti altri. Le ho scritte, le collaborazioni, perché è giusto, per far capire a chi non dovesse conoscerlo che di cose ne ha fatte e pure tante (e non solo queste, poi ci arriviamo), ma il mio intento non è parlare dei nomi con cui Enrico Mantovani ha collaborato; il mio intento è parlare di Enrico Mantovani, un musicista come pochi, della musica che si vede, dunque, delle infinite sfumature dell'arte.

Enrico Mantovani chi è? E poi... è abbastanza classico chiederlo, ma è sempre interessante per capire di più: come hai iniziato a suonare, quando, cosa ti ha spinto a imbracciare la chitarra?

"Direi che la mia fortuna è stata di iniziare molto giovane, con mio padre quando avevo sedici, quindici anni e già suonavo il blues e i pezzi degli Stones insieme al mio amico Riccardo Maffoni... ho iniziato con mio padre, dicevo, scriveva canzoni e racconti brevi ed era il mio consigliere su libri e dischi che mi hanno poi accompagnato fino ad oggi; mi sono subito reso conto, sin da adolescente, che non era solo una questione di “musica“, ma anche di parole, di pensieri e di poesia. La chitarra ok, saper suonare ok... mi veniva facile e spontaneo... ma sentivo che la magia vera erano le storie che le canzoni mi raccontavano... Così, assieme a mio padre, iniziai a suonare la chitarra nei suoi spettacoli sulla seconda guerra mondiale, sui partigiani, sulle storie dei partigiani nella nostra pianura e l'ultimo spettacolo si intitolava proprio "Novecento" e... sia i libri che le sue canzoni parlavano sempre di queste vicende e di storie che abbiamo dietro l'angolo, che risalgono a cinquanta, sessant'anni fa, non è un tempo poi così lontano. Del resto un piede nel novecento ce l’ho avuto anche io: da piccolo si passavano giornate intere in cascina, a giocare sui fienili, a contatto con gli animali, ci tuffavamo nei fossi e di sera, dopo cena, spesso mio padre imbracciava la chitarra e cantava canzoni di Nanni Svampa e di altri cantastorie. Più che la musica in se, sono le canzoni che mi hanno affascinato sin da piccolo."

Hai tanti progetti in corso: i meravigliosi Matmata, i concerti "OneManBand", la collaborazione costante con il grande Bubola ed altre collaborazioni. Raccontami un po' cosa stai combinando.

"Beh… con Massimo Bubola ho avuto la fortuna di partecipare ad un percorso sulla Prima Guerra mondiale, sulla Grande Guerra, che mi ha dato modo di rivedere la storia dell' Italia e degli italiani negli ultimi duecento anni; un lavoro a ritroso nel tempo, con brani e melodie popolari di fine ottocento e anche più antiche che hanno resistito fino ai giorni nostri. Massimo ha fatto il primo disco sulla guerra nel 2004, "Quel lungo treno", il secondo nel 2013, "Il testamento del capitano" e l' anno prossimo dovrebbe uscire il terzo; una trilogia con brani degli alpini e canti popolari riarrangiati in chiave folk e rock; tratti da una letteratura popolare e contadina, questi brani vanno a comporre parte della musica detta "poplare", che è quel tracciato dal quale nessun musicista dovrebbe mai discostarsi troppo secondo me. Purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura che ad esempio è molto radicata in Irlanda, dove i nonni suonano con i nipoti e tutti conoscono un repertorio di duecento, trecento canzoni folk... e lo stesso vale anche per gli americani e sicuramente per molti atri popoli.

Un incontro raro e fortunato è stato poi quello con i Matmata; mentre con Bubola, con Massimo Ranieri, con Giorgio Cordini e altri ero maturato come musicista o come turnista, imparando a fare questo mestiere, con i Matmata c’è stato un’incontro tra musicisti maturi e già più consapevoli, grazie ai quali ho scoperto il valore della "Band", trovarsi tutti i giorni, suonare insieme più volte alla settimana per il piacere di suonare e per la volontà di creare un groove comune, un sound, un feeling, lavorando sui pezzi che Gianmario continua a creare ancora oggi con grande abilità. Infine nei Matmata ho trovato una famiglia; non è un lavoro da "turnista", è un lavoro con la tua band, coi tuoi amici, coi quali si condividono tantissimi momenti di vita, al di la' della musica…. è stato davvero magico incontrarli."

Per me che ho assistito più volte a tuoi live, con i Matmata e come OneManBand, sapendo quante emozioni, diversificate, trasmetti, mi viene istintivo chiederti: in quei momenti, sul palco, cosa provi, cosa pensi, cosa senti tu, cosa ti passa per la testa?

"Quando suoni.... non pensi a niente, suoni e basta; la musica ce l'hai nel cervello e nel cuore, è li che ti gira attorno, come fanno gli avvoltoi, come una giostra con tante lucine e tu sai già quali vanno accese e quali spente, senza pensarci.... suonare mi fa stare mezzo metro sopra terra, è una droga, la droga più bella e sana che esista e il concerto, il live, è il vero motivo per cui ho imparato a suonare e per cui, grazie al Cielo, continuo a suonare."

Hai fondato nel 2013 l'Accademia di Musica Hendrix (cliccate, cliccate ragazzi). Com'è nato questo progetto e come lo senti? Qual è il contesto?

"L'Accademia... mmmm…... Non credo moltissimo nelle scuole di musica, credo che all'uomo siano più utili i corsi di cucito o di giardinaggio. Le scuole di musica quando io avevo quindici anni non esistevano, o quasi; c'era qualche insegnante che dava lezioni private e se volevi suonare dovevi essere davvero portato, perché dovevi imparare ascoltando i dischi in vinile o la radio, quindi dovevi avere orecchio ed essere molto svelto nel capire le note da riportare sullo strumento. Oggi invece, forse anche a causa dei "talent", molta più gente vuole fare musica, ma siccome da sola non ci riesce, nemmeno con i video di youtube, si rifugia nelle accademie di musica. L’accademia comunque l’ho aperta per portare un po' di fermento sul territorio dove sono nato e dove ho sempre vissuto, sperando di imbattermi in qualche talentuoso futuro musicista."

Ora ti faccio una delle mie domande strane. Altre volte ho fatto questa domanda perché è per me parte dell' "andare oltre" e potrebbe sembrare una domanda semplice, ma non lo è affatto. Di che colore è secondo te la tua musica? E la tua anima? Combaciano?

"Mi piace suonare con le luci blu... e poi il blu è indubbiamente blues..."

Hai un pezzo che su tutti, per te, è il migliore?

"Beh, un brano è troppo poco, ne amo troppi, ma tra i miei artisti preferiti spiccano Bob Dylan e i Rolling Stones. Il resto è tutto sotto."

La tua parola preferita... (Enrico qui è favolosamente indeciso, ma poi la prima parola che gli viene in mente è...)

"Grembo."

Ecco qui, Enrico Mantovani. Penso non ci sia altro da aggiungere se non che, come ho detto anche a lui, una delle cose che lo rende più speciale è che non si rende conto davvero di quanto è raro.

Grazie infinite Enrico.

Link:

venerdì 28 agosto 2015

Grembo


Caldo il tuo grembo,
alimento e rifugio
del mio stesso respiro.

Intima grazia per noi,
il grembo della terra.

Focolare nel gusto,
il grembo di una donna.
Nel grembo il dono.

Poggiati sul grembo,
piccoli granelli,
al sicuro nell'infinito.

E respirando il tuo grembo
il mio si riscalda,
felice giaciglio d'entrambi.

Avvolti nel nostro abbraccio,
profumo di biscotti,
aroma di pane fresco
e polvere di caffè.

lunedì 29 giugno 2015

Les Deux Magots


Avorio titilla le luci,
i passi, vedo salire.
Su piccoli mari di ocra,
profumo di legni vicini.
Ciliegi e pelli
di tempo e di tatto.
Unghie e inchiostro;
brillante, ritorna, il tuo passo;
hai amato e io amo, ora-qui.

martedì 16 giugno 2015

Massimo Bubola e la Eccher Band: "Rosso su Verde Tour" a Verolavecchia il 26 giugno 2015

MASSIMO BUBOLA

Rosso su Verde Tour ”

Parole di Pace Canzoni di Guerra

per il 100° anniversario della Grande Guerra


"Il re del folk-rock Massimo Bubola torna a interpretare e rivisitare le canzoni della Grande Guerra con questo nuovo progetto dal titolo Rosso su Verde Tour che prevede nel corso dell’anno anche un libro in uscita e un prossimo album che va a completare la trilogia iniziata nove anni fa con il successo di Quel lungo treno e proseguito poi con Il Testamento del Capitano nel 2014 Massimo Bubola riprende e ri-arrangia, caratterizzandoli profondamente col suo sound e la sua poetica inconfondibile, grandi brani tradizionali come: Ta pum, Il Testamento del Capitano, Sul ponte di Perati, Monti Scarpazi, Bombardano Cortina, La tradotta e proponendo anche suoi grandi successi del passato.

Tutto quanto rivisitato con la sensibilità e l'esperienza di un grande autore, scrittore e musicista, autore di capolavori della canzone italiana e non, come Fiume Sand Creek, Andrea, Don Raffaè e Il cielo d’Irlanda, solo per citarne alcuni presenti nella scaletta del concerto.
 
Il progetto prevede, oltre a Massimo e la Eccher Band sul palco (Enrico Mantovani alle chitarre e mandolino - Erika Ardemagni alla voce e auto harp - Alessandro Formenti al basso) , la presenza di un attore gardesano, Fabio Gandossi che leggerà brani da alcune lettere dal fronte ed estratti dal materiale storico di Massimo.

Il 26 Giugno 2015, all'Anfiteatro Sotto La Torre Civica di Verolavecchia (Bs), l'occasione imperdibile di assistere a questo grande live. Alle ore 21,30. Ingresso: 10 euro.

Non mancate!"

E per rendere l'idea di quello a cui potrete assistere...

Info e dettagli:


 

lunedì 18 maggio 2015

Garrapateros. "Compartìr", "Con - dividere". Patchanka rebelde!


Stasera parliamo di libertà, passione, fatiche e duro lavoro ripagato, talento, calore, allegria, profondità; parliamo della forza del suono, degli arcobaleni infiniti delle note musicali e dei ritmi, parliamo della potenza delle parole, parliamo dell'eccelsa, sublime, potenza della musica. Ne parliamo con Nic e Michele e parliamo dei Garrapateros; perché la loro storia, il loro sound, i loro sogni, i loro traguardi, sono un perfetto esempio di quanto la musica può fare e dare. I Garrapateros definiscono il loro genere “patchanka rebelde”, vale a dire “patchanka ribelle”. Il genere patchanka, per chi non ne sapesse molto, è nato con i Mano Negra, che hanno coniato il termine dando come titolo al loro primo album, nel 1988, proprio questa parola. Letteralmente può significare “miscuglio”, “confusione”, “caos”, nel senso che il genere è una miscela costituita da diverse sfumature della musica e della tradizione latina. Ora, aggiungiamo il “rebelde”, ribelle; perché i Garrapateros sono patchanka, rock, funky, punk. La libertà assoluta del suono e del ritmo, le cui principali ispirazioni sono i Mano Negra e Manu Chao, ma anche gruppi quali i Delinquentes, i Calle 13, gli Ojos de Brujo e i Canteca de Macao, gruppi anche molto diversi tra loro (consiglio: andate ad ascoltarli se non li conoscete). Quel che i Garrapateros hanno in più, quello che rende il loro sound “il loro sound” è... in parte frutto delle loro esperienze musicali precedenti, punk, rock, rock grunge... e in parte - e qui è la parte bella dell'Italia che viene fuori - della loro italianità. Il loro essere italiani fa la differenza, perché l'approccio musicale di un italiano, per una questione di genuina cultura generale e musicale, sarà sempre diverso dall'approccio che uno spagnolo ha verso la musica, così come l'approccio di un francese sarà sempre diverso da quello di un irlandese ecc ecc. Tutte queste cose, messe insieme, hanno creato qualcosa che pur avendo una base e riferimenti di un certo tipo, rendono il loro sound unico per il loro genere, assolutamente “rebelde”. Conoscevo Michele Cannibal, perché conoscevo il fantastico progetto grunge rock dei Cronofobia, ai quali nessun ascoltatore con un minimo di conoscenza musicale può rimanere indifferente e nel quale era ed è batterista (ma questa è un'altra storia). Conoscevo Michele appunto e una sera, vado in un locale della mia zona e per caso me lo ritrovo in duo con Nic Garrapatero, nella versione acustica che portano in giro qui e la'. Quella sera mi hanno steso e al secondo live a cui sono andata  - un live che aspettavo con gioia da quando avevo avvistato la notizia della data, un mese prima - mi hanno steso il triplo. La prima volta, ho scoperto poi, erano reduci da un viaggio lunghissimo e devastante ed erano fisicamente a pezzi (oh scusate! non me ne ero accorta ragazzi!), però poi al secondo live mi sono accorta della differenza, anche se già al primo mi avevano rapito, buona alla prima. Il loro primo album “Vida No Mata” l'ho praticamente consumato in macchina, non riuscivo a smettere di ascoltarlo. Brani del secondo album, il loro ultimo lavoro “Esperando”, li ho sentiti proprio in questo secondo live, con successivo inevitabile acquisto del cd. Cos'altro posso dire? Quando ho iniziato a scrivere questa intro stavo cercando il modo giusto per “rendere l'idea” e come spesso mi accade, è la descrizione delle mie stesse emozioni ad aiutarmi a trasmettere i concetti, perché la musica è questo, è passione pura, emozioni d'gni sorta, parole e suoni, poesia e ritmi, tradizioni e scoinvolgimenti. Mi fermo qui, potrei andare avanti per ore, ma è “pericoloso” perché le mie dita mi porterebbero a parlare di troppe cose e non arriverei al nucleo. Stasera il nucleo si chiama Garrapateros. Stasera, vi presento questo fantastico progetto, attraverso Nic e attraverso Michele, un percussionista che è solo da vedere e sentire, inutile descriverlo, non saprei nemmeno come. Nic Garrapatero... che è partito per la Spagna con qualche soldo da parte per potersi cercare un lavoro e fermarsi un po', niente Erasmus; per approfondire la lingua spagnola, perché allora studiava lingue all'università. Immaginate ora, immaginatelo in testa: un ragazzo che fino ad allora aveva suonato e ascoltato punk, parte per la Spagna, borsa in spalla. Arriva, conosce gente, sente profumi, vede colori, conosce tradizioni, si fa rapire dolcemente dai gitani che abitano poco distante da lui, comincia ad ascoltare musica che prima non conosceva e che forse mai avrebbe ascoltato e quando torna, inizia a fare musica diversa, prima da solo e poi... da Garrapatero, fonda i Garrapateros. Ora la parola a loro, a Nic – il mosaico, così l'ho soprannominato dopo questa chiacchierata – e a Michele, di poche parole – poche ma ben precise - e tanto ritmo dentro e tutto intorno.

"Vida no Mata". E' il primo pezzo del vostro primo lavoro e da' il titolo all'album stesso. "La vita non uccide". Il testo è molto intenso, parla di un uomo che in sostanza odia l'ipocrisia, le menzogne e che non vuole smettere di lottare. Mi chiedevo se il testo fosse ispirato a una storia reale visti i riferimenti alla protesta o se fosse nato da una tua pura riflessione.

Nic: " “Vida No Mata”... no, in realtà non è una canzone che prede spunto da una particolare vicenda personale, bensì... più in generale - dalla visione che ho della realtà, della quotidianità, da ciò che è questo preciso momento storico e che sicuramente mi riguarda. L'ho scritta riflettendo su un contesto globale che rientra poi nella dimensione personale di ognuno perché... l'informazione, i mass media, “quello che passa” e che descrive la nostra realtà, ci fa intendere che nonostante siamo su questa terra... praticamente saremmo “dei morti che camminano”, ci fa pensare che abbiamo più situazioni su cui piangere rispetto a situazioni dalle quali prendere spunto in positivo. Il testo dice “La vida no mata” nel senso che... è un controsenso che la Vita uccida! la Vita dovrebbe essere una crescita, uno spunto di riflessione e cambiamento, non certo qualcosa di negativo o un motivo per pensare di togliersela, la vita. Eppure questa visione negativa appare in modo sempre più frequente, il messaggio che passa è che viviamo in una specie di inferno o per spiegarlo meglio se “la sorte non è dalla tua” sembra che questo significhi non essere produttivo e che l'unica cosa che puoi fare è quella di disperarti. Io non credo sia così. “Vida no mata” poi ripende anche una frase molto familiare agli spagnoli che è “la prisa mata” che vuol dire “la fretta uccide”; che poi... non è nemmeno la fretta a uccidere messa a confronto con questo “senso di morte” diffuso."

Il secondo pezzo invece "Sevilla Maravilla" racconta della vita di strada che presumo tu abbia visto e portato dentro di te quando eri in Spagna, ma c'è una sorta di sottolineatura... in strada c'è chi sta meglio e chi sta peggio, ma in ogni caso c'è fratellanza. Ti riferivi in particolare ai gitani di quartiere che ti hanno praticamente accolto da quanto ho capito e che ti hanno fatto scoprire le loro tradizioni, la loro musica... o era un più discorso generale? Nel testo poi dici che quella è la parte migliore di Siviglia, al di la' di quello che possono essere le apparenze, ma mi chiedo: la popolazione spagnola accoglie la realtà gitana come parte integrante della cultura spagnola o ci sono pregiudizi come ad esempio accade in Italia per molte diverse realtà?

Nic: "Si è un pezzo che racconta l'esperienza quotidiana che ho avuto in un breve periodo che ho vissuto nella città di Siviglia, nel quartiere della Macarena. Quello che io ho visto in quel quartiere - che è un quartiere molto importante a Siviglia nonostante sia considerato un quartiere a rischio perché è un quartiere popolare con un forte tasso di immigrazione e una forte presenza dell'etnia gitana – è molto simile a quello che ho visto nel quartiere Cabanyal di Valencia, in cui appunto ho vissuto per un po' di tempo. Nel pezzo dico che è un quartiere in cui “non ci sono differenze”. Non è del tutto vero in realtà perché è chiaro che esistono sempre situazioni di discriminazione in una realtà in cui convivono diverse realtà culturali che condividono lo stesso spazio geografico e ci sono scontri, è ovvio. Nel pezzo dico che è la parte migliore di Siviglia nel senso che questi quartieri sono luoghi che ti sbattono in faccia la realtà, sopratutto per quanto riguarda il tema dei gitani. L'etnia gitana... non è più integrata in Spagna rispetto all'Italia, ma sicuramente c'è molta più accettazione rispetto a qui. Questo perché culturalmente e storicamente la cultura gitana è assimilata nella cultura del ballo e della musica spagnola. Ci sono generazioni e generazioni di cantanti, musicisti, ballerini di flamenco, di etnia gitana. In Spagna l'arte e la cultura del canto e della musica hanno un riconoscimento assoluto, molto più che in Italia perché il sentimento è molto più vivo e radicato e in effetti, tutto ciò che “di nuovo” si crea in Spagna, ha molte delle sue fondamenta “nel vecchio” e per forza di cose la cultura gitana ne è parte integrante. Siviglia con la Maccarena e Valencia con il Cabanyal, sono esperienze che io ho voluto fermare, come in uno scatto fotografico, attraverso questa canzone e sicuramente ho voluto raccontarne il meglio perché è quello che io stesso sono riuscito a tirare fuori dal peggio di quel che ho visto."

Passiamo al nuovo album, "Esperando". Mi piace moltissimo il fatto che in un modo o nell'altro, nei testi che scrivi ci sia sempre un incoraggiamento a non mollare, a continuare a lottare, a continuare a credere nei propri sogni. In "No falta nada" scrivi "Di quello che c'è non manca niente", un detto popolare che rende perfettamente il concetto: smettere di pensare di "non poter fare", perché come scrissi una volta "il sudore è nobile" e porta sempre a qualcosa di buono. Non è il "dove arrivo" ma il "come e perché", il "cosa porto con me e cosa lascio agli altri". Ed anche in "Querida vida", parli della meravigliosa esistenza di un insieme di energie che ogni persona può usare per affrontare la quotidianità, la frenesia, il senso di insofferenza e - anche qui - si parla di sogni. "Non ho più molto per me, però ho il mio sogno". Mi piace molto tutto questo, siamo sulle stesse corde. Questo meraviglioso atteggiamento verso la vita che porti con te, ce l'hai sempre avuto per carattere o credi che ci sia stato un momento in particolare in cui hai maturato questa consapevolezza?

Nic: "Si è vero... in quasi in tutti i pezzi che compongono il nostro primo album “Vida no mata” e anche il secondo mini album “Esperando”, c'è sicuramente un incoraggiamento a non mollare. Io in generale ho avuto un fortissimo cambiamento a partire dalla mia esperienza in Spagna. Non sono mai stato una persona negativa perché dal mio punto di vista essere realista significa riflettere su situazioni anche negative e prenderne spunto per arrivare a qualcosa di positivo. Le mie vicende ed esperienze personali poi mi hanno fatto rendere conto, misurandomi con me stesso e con gli altri, che in sostanza ero molto più pieno di risorse di quanto pensassi e così... ho maturato una gran voglia di risorgere. “Cenere e fuoco” già lo dice no? “sotto la cenere c'è ancora un po' di fuoco”. “Querida vida” dice proprio “nonostante io non abbia più spazio, non abbia più tempo, non abbia più molto per me, ho sempre il mio sogno” e questo è un pensiero di importanza assoluta nella mia esistenza perché - oltre ai Garrapateros - i Garrapata Sound System appena nati, il set acustico Rebelde, come side project... sono il mio sogno, progetti in cui io credo da morire. Credere nel mio sogno è la mia identità, è l'identificazione precisa della mia vita adesso. In passato non era assolutamente così; ero molto più attaccato a una sorta di linearità di come forse volevo fosse la mia vita e quindi nell'impossibilità di riuscire a raggiungere questa linearità stavo male, ero molto meno consapevole su chi fossi, su cosa volessi e su che cosa rappresentasse per me la musica; poi ho capito che siamo noi la nostra stessa risorsa. “Di quello che c'è non manca niente” dice “No falta mada”, vale a dire che da quello che abbiamo - seppur poco - si può partire, si può iniziare a costruire il passo successivo, a salire un nuovo gradino, per poi renderlo sempre più solido e quindi... è un continuo “non arrendersi”. Anche con il progetto Garrapateros “di quello che abbiamo in questo momento non ci manca niente” e proprio per questo ora è nato il “Garrapateros Sound System”, qualcosa che già esisteva ma che può avere uno sviluppo sempre più consistente. Basta volerlo."

Allora Nic... Il vostro nome significa libertà in sostanza, non letteralmente, ma per il concetto che ha... Spiega tu però, cosa significa per te, per voi.

Nic: "Il nome Garrapateros è stato scelto in omaggio ai Delinquentes, “capitanati” al tempo da Miguel Benítez, un ragazzo morto molto giovane - a ventuno anni - per un probabile arresto cardiaco causato dall'abuso di sostanze. Era un poeta, ha scritto diverse poesie oltre che canzoni stupende. Circa dieci anni dopo la sua morte il fratello ha pubblicato una raccolta di testi inediti scritti da Miguel prima di morire e che mai sono stati registrati e in questa raccolta ci sono anche alcune interviste. In una di queste Miguel spiega che cosa significa “garrapatero”. Letteralmente la "garrapata” è la "zecca”. Lui racconta che quando era piccolo viveva in campagna, aveva molti cani e gli toglieva spesso le zecche e la zecca è sempre stato un insetto che in qualche strano modo lo affascinava e dunque ha iniziato a usare il termine “garrapatero” associandolo però a una concezione positiva o a qualcosa che a lui piaceva. Ho voluto fare un omaggio a loro perché è sopratutto grazie ai loro pezzi che ho cominciato a conoscere la lingua spagnola; il loro modo di comunicare, il modo di comunicare di Miguel, è stato fondamentale per me. Adesso - con il progetto “Garrapata Sound System”  - abbiamo voluto staccarci dal termine “garrapateros” perché ad oggi, se in rete si digita il termine viene fuori di tutto e di più. Molte cose legate ai Garrapateros, ma anche tante tante band che fanno cover, per esempio dei Los Delinquentes e che si chiamano “Garrapateros”. Il Garrapata Sound System è il nuovo progetto, con cinque elementi, in cui il flauto non compare più e con il quale vorremmo arrivare un po' di più, rimanendo affezionati alla base - che è la stessa - ma “togliendo di mezzo” tutta la confusione che si può fare ora cercando informazioni su di noi e la nostra musica. Il senso di libertà che io sento in questo termine è determinato dalla realtà per cui c'è stato un grande cambiamento per me. La mia propensione naturale è stata quella di slegarmi dall'origine punk per far ramificare la base in altro; mantenere la radice, facendo crescere però rami che vanno in direzioni diverse."

Inizialmente sei partito da solo, poi avete iniziato a suonare insieme tu e Michele e pian piano si sono aggiunti gli altri ragazzi della band. Se tu e Michele non vi foste trovati, pensi che avresti cercato prima o poi altri musicisti con cui portare avanti il tuo progetto? Avevi già in mente di creare una band o è stato un effetto “Sliding doors” per cui le cose sarebbero andate diversamente perché inizialmente non ci pensavi? E se tu avessi continuato da solo? Cosa pensi avresti fatto? Come sarebbe andata secondo te?

Nic: "Beh... quando sono tornato dalla Spagna ho sentito la necessità di portare quello che avevo assimilato in Italia. Il distacco dalla Spagna all'Italia per me è stato molto forte, avevo bisogno di ritrovarmi a casa mantenendo però le stesse vibrazioni che avevo percepito e sviluppato là e ho portato con me lo stesso intento che là avevo maturato, di farmi conoscere con questa musica, diversa da quella che solitamente facevo e alla quale la gente che mi conosce era abituata. Ho iniziato da solo, ma dopo un po' che suonavo da solo - cosa che non avevo mai fatto avendo avuto in precenza una punk rock band - durante i live non potevo condividere con nessuno né le gioie né i dolori ed avendo comunque consapevolezza di quel che avrei voluto fare, già immaginavo sul palco con me un'altra persona proprio per... riedere insieme o “prenderci male” insieme. Con Michele è stato sicuramente un effetto “sliding doors”, nel senso che l'intenzione da parte mia di creare un'alternativa al onemanband c'era sicuramente, però per esempio, io e Michele ci conoscevamo abbastanza superficialmente al tempo e mai avrei pensato allora di trovarmi spalla a spalla con quello che ora per me è un fratello, dopo cinque anni. C'è stato ovviamente intresse da parte sua, dopo due giorni si era già procurato un cajòn flamenco. E' stato anche quello che tra i Garrapateros si è arricchito sempre di più, veniva dal rock, dal grunge, generi che a volte non vanno proprio d'accordo con quello che ho portato io, molto più leggero e anche spensierato se vogliamo, meno “pesante” rispetto al grunge che proprio per la sua storia è legato a situazioni molto più introspettive, anche se in realtà – come hai ben descritto tu stessa - nel genere dei Garrapateros questa “leggerezza” e “spensieratezza” è apparente, c'è sempre un'interiorizzazione della realtà e la volontà di buttar fuori questa interiorizzazione e renderla esplicita nelle canzoni. Sicuramente io avrei creato una band perché sono “un animale sociale” fondamentalmente, da solo mi sarei stato un po' stretto, però ecco, nel corso del tempo si sono create tutte le collaborazioni, sempre comunque con un effetto “sliding doors”. Non so come sarebbe andata se non avessi incontrato Michele... avrei magari incontrato qualcun'altro, ma probabilmente non così bravo..."

Michele, te lo devo chiedere............... ma perché “Cannibal”?!?

Michele: "Cannibal... eheh... semplicemente perché ho ascoltato e ascolto tuttora i Cannibal Corpse; è dunque un riferimento alla fissa che ho per questo gruppo, niente di più semplice. In adolescenza gli amici con cui suonavo, un giorno mi hanno chiamato così e da quel momento ho deciso che sarebbe stato il mio nome d'arte!"

A parte gli scherzi... tu che vieni da un progetto come i Cronofobia... come ti sei avvicinato a questa musica, cosa ti ha catturato? Nic ha avuto esperienze che lo hanno avvicinato (per fortuna aggiungo) a questo mondo musicale... e tu? Cosa è successo dentro di te? Qual è stato il tuo viaggio?

Michele: "Mi sono interessato ai gusti musicali di Nic semplicemente per curiosità... Non avevo mai suonato musica Spagnola ed essendone incuriosito mi è sembrata la cosa più giusta da fare, mi ha subito attirato l'idea di fare una nuova esperienza. Ed è stata la scelta più giusta perché grazie a questo ho imparato una miriade di cose, proprio come musicista; ho imparato ad essere più dinamico nel suonare batteria e percussioni, ho iniziato a cantare ed ho anche imparato a conoscere e ammirare un sacco di persone che ballano i vari generi della musica spagnola."

"Il destino è un pazzo che gioca coi fili". Tema ricorrente nei pezzi dei Garrapateros. Ditemi qualcosa di più. Nic, Michele, parlatemi del destino.

Michele: "Io personalmente non credo nel destino, credo più alla fortuna. Ritengo una grande fortuna il poter sentire il ritmo in ogni cosa che faccio, lo sento nelle vene!" Nic: "Il tema del destino, associato anche al tema della casualità quindi all'effetto “sliding doors” di cui parlavamo prima, è una medaglia a due faccie che io non ho ancora ben identificato a dire il vero. Intendo dire che... in me è più presente “la visione della casualità”; quando scrivo del destino in “Huele a Pasado” per esempio, quello è un testo molto personale, una canzone dal gusto agrodolce, una tristezza consapevole - che non ti porta a buttarti giù da una finesta ma come dicevo anche prima serve per cercare di crescere. A volte... fa un po' parte della natura umana colpevolizzare qualcuno e in quella canzone io colpevolizzo il destino. Il destino che è appunto “un burattinaio”, è capriccioso, in questo pezzo. Completamente diversa invece è la visione di quando ho scritto “Casualidad” che è uscita nel 2012. Li scrivo che la vita è una casualità da quando inizia a quando finisce, ma è anche una possibilità, “sfrutta il momento e non te ne pentirai”. Il caso e il destino sono due cose che spesso fanno molta paura, perché rappresentano quel che non si conosce, ma allo stesso tempo quel che non si conosce incuriosisce. Molti lo temono e lo vivono con angoscia, io lo vivo con interesse, sono curioso di sapere quel che mi accadrà, anche se non credo che le persone siano legate a una predestinazione, questo no; sarebbe molto triste pensare che tutto è già scritto. In ogni caso mi ritengo una persona molto fortunata, perché ho un sogno e non tutti ce l'hanno. Per me è vitale. Avere un sogno, portarlo avanti, è una cosa... molto rara, una cosa preziosa... Che sia allora una casualità, destino... nellla mia vita c'è questo sogno, che è la mia vita stessa. Nella canzone in cui ho scritto che è “un pazzo che gioca coi fili” ho cercato di stare nel mezzo tra casualità e destino anche per... “impersonificare” la casualità stessa e facendone una “casualità personificata” allora non è più “casualità”, diventa un qualcosa, qualcuno, senza nome né cognome, a cui poter dare la colpa e che crea una serie di eventi che possono sembrare anche casuali, ma nel caso di questa voluta “personificazione” molto probabilmente non lo sono."

Allora.... so che nel vostro percorso musicale avete avuto grandissime soddisfazioni, tantissimi live, l'apertura del concerto agli Ska-P, a Tonino Carotone, il calore del pubblico, i vostri fantastici viaggi e tutto ciò che avete scatenato. Al di la' però di queste fantastiche esperienze, qual è stato per voi il momento in cui avete pensato “va alla grande, stiamo realizzando il nostro sogno”? Una scena, un ricordo, un momento, un'immagine, una riflessione.

Nic: "Le situazioni in cui... ho pensato “va alla grande, stiamo realizzando il nostro sogno”... sono tantissime... Non voglio sembrare banale ma... “vivere il presente” è sicuramente una cosa che mi caratterizza, penso al futuro ma in una prospettiva che si basa però sempre sul vissuto del presente, dunque si, l'elenco sarebbe molto lungo. Da quando ho iniziato a fare tanti concerti da solo – cosa che comunque non avevo mai fatto avendo avuto prima una band – a quando ho iniziato a suonare con Cannibal e abbiamo fatto esperieze stupende per cui a volte ti dici e chiedi: “Fanstastico! cosa succederà dopo...?”. Tanti live, tante esperienze diverse, quindi... ogni passo che si fa è vitale. Dalle cose più belle come l'apertura agli Ska – P e a Tonino Carotone fino alle “porte in faccia” che ti fanno dire “sta diventando sempre più vero”. Ad oggi, ti dico con ancora più convizione “Va alla grande, stiamo realizzando il nostro sogno”. Siamo in contatto con una casa discografica, con booking... non c'è ancora niente di ufficiale dunque al momento non posso fare “nomi” per così dire, ma c'è qualcuno che è molto interessato al nostro progetto e che ci aiuterà nella produzione... dunque... questo sicuramente è il raccolto di una serie di grandi soddisfazioni che ci hanno dato sempre più la carica per andare avanti, che mi ha fatto andare avanti con l'entusiasmo che ho tuttora." Michele: "Ricordo con grande piacere molta gente che non ci aveva mai sentito, che non sapeva chi fossimo e non conosceva la nostra musica, ballare e divertirsi con grande energia. Per me questa è sempre una soddisfazione. E poi... fare così tanti concerti fa pensare ad un futuro da musicista anche a livello lavorativo... il che è fanstastico..."

Come immaginate il vostro futuro...?

Nic: "Il mio futuro io lo immagino... in tour... con i Garrapata Sound System - dunque gli elementi nuovi che hanno creato un sound stupendo e con i quali c'è un intesa perfetta - visitando posti che non ho mai visto, facendo la cosa che più amo al mondo che ovviamente è suonare. Lo immagino... pensando che quel che ora è una passione e un lavoro part-time – per rendere l'idea – si trasformi nel mio lavoro a tutti gli effetti e di fatto già ora ho un tetto sulla testa e vivo grazie a questo. Condividere e vivere grazie a questo, così vedo il mio futuro." Michele: "Riguardo al futuro e a quel che si vuol credere a riguardo... so solo che ci vuole un grande impegno per realizzare i propri sogni e unicamente il grande impegno può portare ad avere la fortuna di fare esperienze grandiose, come è successo a noi, per esempio potendo suonare a concerti fantastici, con grandi artisti."

Parole. Colori. Sono due realtà che spesso – alternativamente - introduco nelle domande che faccio nelle chiaccherate su "Il cammino". Due mondi che dicono molto. A voi desidero proporre entrambi i mondi... dunque... di che colore siete? e qual è o quali sono le parole più significative per voi?

Nic: "I colori e le parole... io sono bianco e nero, sono gli estremi... e sto lavorando, negli anni, per trovare il compromesso tra gli estremi. Sono... sono un lunatico, altalenante, sono... un giorno a cento e un giorno a zero. Nella musica però è diverso, cerco sempre di essere a cento e mi impegno per esserlo, anche perché so che se do' il massimo nella musica, tutto il positivo che ne nasce mi ritorna e mi arrichisce anche per altri aspetti della mia vita. Anche nei Garrapateros sono bianco e nero e i ragazzi sicuramente lo hanno visto negli anni, a volte "sclero", a volte mi sento troppo rigido, ma poi comunque anche queste cose hanno portato a qualcosa di buono il più delle volte. I Garrapateros invece... per me... sono un colore unico fatto di miriadi di colori o per meglio spiegarlo... spettri di luce, miriadi di colori diversi che vanno a formare la luce stessa. La parola che più mi ha rapito invece... è sicuramente... "Compartir", "Condividere" e ... penso non ci sia bisogno di dire altro" (sorride, ndr). Michele: "Io sono porpora! Assolutamente porpora. E le parole che amo di più sono sicuramente... Consapevolezza, Gusto e Pensiero..."





sabato 25 aprile 2015

Massimo Bubola e la Eccher Band: al Teatro Odeon, la sacralità della Vita


"Concerto". Questa parola ha una storia intricata, complessa, piena di sfumature... La prima apparizione documentabile di questa parola splendida nella lingua italiana risale al 1519 ed è un termine dalle origini grandiose, perché è come una storia anzi, è una storia, per ogni popolo. Ogni parola è una storia, ogni parola è un mondo a se, perché le parole hanno un peso e un valore inestimabile e il mio appello è sempre stato una sorta di disperato richiamo, non sprecatele, vi prego; e ribadisco ogni giorno il mio... "Mi metto nelle mani delle parole, come fossi tra le mani di Dio"... una frase che le Parole mi hanno permesso di scrivere... in "Punti senza fine". E... "Mùsica", la Musa e ... "Spettàcolo"... "guardare", "tutto ciò che attrae lo sguardo, la vista, l'attenzione". Capite perché...? riesco a trasmettere, mi chiedo, il motivo, per cui personalmente, mi metto nelle mani delle parole come fossi tra le mani di Dio...? Bene, parto da qui. Pane, vita, grazie, promessa, amore, amicizia, dolore, gioia, immensità. Parto da questo per tentare di descrivere la Bellezza (richiamo di... "Armonia") ... si la Bellezza con la B maiuscola, di tutto ciò che Massimo Bubola e la Eccher Band (Enrico Mantovani, alle chitarre e al mandolino - Erika Ardemagni ai cori e auto harp e Alessandro Formenti, al basso) mi hanno saputo donare nella spettacolare serata di ieri, al Teatro Odeon di Lumezzane. Finalmente ho potuto assaporare dal vivo la grandezza di Massimo, della sua musica, della sua penna, il suo sapere e il suo intimo calore umano. Credo che se non sapete chi sia Massimo Bubola, beh, siamo alle solite... se non lo sapete, abbiate il buon senso di andare ad ascoltare i suoi pezzi, di leggere la sua storia, di tutto ciò che ha fatto in quarant' anni di musica, essendo egli parte importante, essenziale, profonda, della musica italiana; della Musica che che è Musa, la Musica che è Bellezza, la Musica. Ho cominciato a scrivere queste righe ieri sera tardi, appena rientrata dalla serata, all'una e ventitre del 25 aprile 2015, nel giorno del settantesimo anniversario della Liberazione della nostra Terra. Non volevo perdere un secondo, volevo perlomeno riuscire a fissare, come in uno scatto fotografico vivente, tutte le emozioni, le lacrime, le risa, il sènso dunque il "sensus", la percezione, il poter cogliere con lo sguardo, l'olfatto, l'udito, il tatto e con immenso, immenso gusto, il senso profondo e l'amore, la profondità di tutto quel che ho vissuto, in quelle due ore a Teatro, con dolore e vita nell'aria. Massimo Bubola ha iniziato l'articolato progetto riguardante la Grande Guerra con un primo album nel 2005, "Quel lungo treno" nel quale sono racchiusi brani tradizionalli riarrangiati e... rivitalizzati. Folk, country, rock, ballata e anche un tocco d'Irlanda. A proposito di Irlanda... per me che per la prima volta sono riuscita ad assistere dal vivo alla musica di Massimo Bubola, sentire "Il cielo d'Irlanda" è stato un colpo al cuore, una sorta di tachicardia emozionale, che mi ha accompagnato in realtà per tutta la serata, durante ogni pezzo. "Il fiume sand creek" scritta da Massimo pensando a un massacro di pellerossa realmente accaduto, nel novembre 1864. Stragi, umane. La guerra, i massacri, di ieri e di oggi, perché l'umanità non ha ancora compreso quanto sia sacra la vita o preferisce far finta di nulla perché... "tanto è così". No... non dev'essere così. Massimo Bubola con la sua band ha proposto al pubblico canzoni quali le sopracitate "Il cielo d'Irlanda" e "Il fiume sand creek" ed anche una versione dolcissima di "Volta la carta" perché "è come mi piace farla ora che ho un bimbo piccolo, come una ninna nanna" ha detto. Torniamo però al progetto dedicato alla Grande Guerra, proseguito con la pubblicazione, nel maggio 2014 dell'album "Il testamento del capitano", uscito in occasione del centenario. Sei brani della tradizione popolare, alpina e sei inediti del maestro. Ieri sera ho potuto ascoltare le meravigliose "Ta pum", "Bombardano Cortina", "Sul ponte Perati", "Il testamento del Capitano", brani che... ho ricordato, perché li avevo già  uditi, in tenera età probabilmente... e le parole tornavano alla mente, mentre Massimo cantava e così... le ho sentite. E il capolavoro che Massimo ha scritto pensando a quei tempi non lontani in cui la sera si cantavano canzoni popolari che riguardavano proprio la guerra, il dolore, la nostalgia e l'amore e che lui ha saputo racchiudere in "Rosso su verde", così, come se fosse la cosa più semplice del mondo, scrivere un brano che racchiude tutto questo. Ma quanto... quanto... è... e li ho visti quei momenti, nella testa e nel cuore, quei momenti di cui raccontava e in cui la memoria, c'era davvero.  La voce calda e intensa di Massimo Bubola, le sue parole... la dolcezza estrema e tutto l'amore racchiuso in "Tre rose"; tutto, tutte le molecole della mia anima sono state rapite. La voce e il volto angelico di Erika Ardemagni, la passione e i colori, il gusto, di Enrico Mantovani, il tocco, di Alessandro Formenti. La Eccher Band. Mi hanno "ammazzato" e "ridato la vita".  E "come se non bastasse", tra un pezzo e l'altro, l'attore gardesano Fabio Gandossi, che ha interpretato scritti pieni di pathos, storie di soldati al fronte, scritti donati al pubblico da Massimo, un dono, un altro, grande dono. Grazie... grazie... grazie... e anche questa parola... racchiude un grande mondo.


Lara Aversano