lunedì 14 gennaio 2019

La "nuova sindrome": fibromialgia (parte 1)




Sindrome fibromialgica. Sentire un termine simile non rassicura molto vero? Ci sono due casistiche di approccio, quando si sente dire da qualcuno “ho la sindrome fibromialgica” senza sapere bene di cosa si tratta. Il primo è quello di chi pensa di saperne qualcosa, ma non sa nulla e magari si azzarda persino a dire: “È quello che ti dicono quando non sanno che cos’hai”. Il secondo approccio è: “Oh mamma, non promette bene. Che cos’è?”. Il problema fondamentale nel nostro paese, è che la sindrome fibromialgica è conosciuta realmente da poche persone e persino gli addetti ai lavori più specifici, spesso, non ne sanno o sanno poco. Se ci fosse più informazione pubblica e formazione sanitaria, si potrebbe dare un orientamento corretto a chi ne soffre, evitando così al paziente quella trafila di esami, diagnosi sbagliate, anni di ricerche per capire qual è il problema, andando da specialisti di diversi ambiti e ricevendo diagnosi poco utili, se non del tutto inutili. Adesso sento dire che “la fibromialgia è la nuova moda”. No, cari lettori, la fibromialgia non è una moda, è una sindrome cronica, che provoca molta sofferenza ed è debilitante. Il fatto è che in Italia si comincia a parlarne un po’ (comunque troppo poco) solo ora e guarda caso, ho notato, si sono moltiplicati gli articoli online a riguardo (nella maggior parte dei casi molto imprecisi o quasi del tutto errati) da quando una star internazionale (Lady Gaga), ha dichiarato di soffrirne. Lady Gaga crolla, il web si mobilita. Crollano milioni di persone nel mondo, non gliene frega niente a nessuno. Naturalmente non ce l’ho con Lady Gaga e anzi, la sua scelta di dichiarare di essere fibromialgica ha smosso un po’ le acque ed ho sentito anche dell’uscita di un documentario in cui parla della sindrome, visibile però solo su una piattaforma a pagamento. L’informazione però è davvero poca, opaca. Allora: che cos’è questa misteriosa sindrome? Quando si manifesta e perché? Quali sono le basi scientifiche, cliniche, mediche, che la spiegano? Io non sono un medico, ma sono informata, perché si, basta informarsi seriamente, attraverso canali ufficiali e scientifici, se si vuole conoscere qualcosa. Proprio perché il mio approccio non è da medico, ma da persona “informata dei fatti”, credo che questo testo possa risultare utile a molte persone. Parlerò chiaramente, sarò diretta e sincera, come è mio solito fare quando scrivo e per qualsiasi argomento io tratti. Negli anni ho affrontato sul mio blog e altrove, diversi temi sociali, culturali e spesso è evidente quanto certe cose mi facciano girare le scatole. Beh, la disinformazione sulla sindrome fibromialgica è certamente una di queste. Questa rubrica, l’ho intitolata “La nuova sindrome”. In realtà la sindrome fibromialgica esiste da un bel pezzo, solo che fino a dieci anni fa non se ne sapeva nulla e a livello medico non era definita, non erano stati eseguiti gli studi che sono stati fatti in seguito, insomma, non si sapeva quasi niente.  Non si capiva da dove venisse e spesso veniva liquidata come se fosse un qualcosa di astratto/immaginario. Nel tempo poi sono state fatte ricerche, studi su studi e finalmente, chi se ne occupa è riuscito a fare un reale quadro della situazione. Ho deciso di titolare questo testo “La nuova sindrome”, non perché – appunto – sia appena stata scoperta, ma perché tuttora – come già detto sopra – l’informazione è poca e credo sia necessario fare un po’ di chiarezza.

Prima domanda: da dove cavolo arriva questa straniera??? [aggiornamento informazioni - 2022 - a fine articolo]
La sindrome fibromialgica viene, secondo gli ultimi studi, da alcune variazioni polimorfiche (che in poche parole sono delle variazioni dei geni in piccoli tratti del DNA). Non è ancora certo, in realtà, ma ci sono molti studi che parlano della maggior propensione alla sindrome in caso di “anomalie” di questo tipo.  Non è definibile come “malattia genetica” ma è “genetica” in questo senso, poiché si pensa possa partire da un gene o più e per ora, nonostante in diversi casi vi siano in uno stesso gruppo familiare più casi di SFM, non è stato riscontrato un nesso scientificamente rilevante in tale questione. Qualsiasi sia il punto di partenza, ad ogni modo e ribadendo il fatto che desidero parlare chiaramente e per tutti, quel punto di partenza non ancora del tutto certo, rompe le scatole al funzionamento dei neurotrasmettitori che nel nostro cervello sono dedicati all’area del dolore e al relativo scambio di informazioni tra neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale e il resto del corpo. Per renderla ancora più semplice e per chi non sapesse di preciso che cos’è un neurotrasmettitore: vi ricordate il cartone animato “Siamo fatti così”? Io lo guardavo sempre da piccola, mi affascinava. Ecco, avete presente quei “cosini bianchi” iper veloci che schizzavano da una parte all’altra dalle varie parti del corpo per portare informazioni al cervello? comandi, ordini, nel caso del cartone animato sotto forma di “pergamene” o qualcosa di simile. Facevano a gara per essere i più veloci. Bellissimo quel cartone. Beh, i neurotrasmettitori sono proprio questo. Impulsi elettrici che portano informazioni al nostro cervello (dal cervello al corpo e viceversa) per qualsiasi cosa, dalle azioni automatiche come il battito del cuore, la respirazione, il processo digestivo… alle azioni non automatiche, per le quali prendiamo una decisione come alzare un braccio, camminare, parlare ecc. ecc. Provate a pensare: cosa succederebbe se anche solo una parte di questi neurotrasmettitori non funzionasse come deve? Se i neurotrasmettitori che dicono al cervello “muovi il braccio sinistro” non funzionassero, pur pensandolo, il nostro braccio non si muoverebbe no? Bene, la stessa cosa avviene nella sindrome fibromilagica. La funzione di “trasporto” di informazioni che il corpo, attraverso i neurotrasmettitori, dovrebbe portare al cervello e viceversa, non funzionano correttamente e così è come se, tornando al cartone animato, questi “cosini bianchi” facessero un incidente in corsa, andassero in tilt del tipo: “E mo’? che devo fare? Che devo dire al cervello? e dal cervello? cosa devo dire al corpo?”.

L’area del dolore:
Sapete cosa succede se l’area del dolore ha stimoli sbagliati? Un casino, un vero e proprio casino. L’area del dolore va ad influenzare molteplici altre aree del nostro cervello e questo rende il malfunzionamento una sorta di onda d’urto. Se il corpo percepisce stimoli di dolore continui, diffusi, errati, si attivano altre aree che non dovrebbero attivarsi e da qui i tantissimi sintomi della sindrome (ne sono stati contati almeno cento) e le relative problematiche. Parafrasando un famoso medico, con il quale ho scambiato qualche parola, è come se una persona si accorgesse di respirare. Non è normale che una persona si accorga di respirare in modo cosciente, no? Impazzirebbe! Oppure, se sentissimo chiaramente il sangue che scorre nelle vene, sarebbe alquanto fastidioso no? Anche qui, ci sarebbe da impazzire. Beh, la sindrome fibromialgica è composta da una serie di disturbi che a un certo punto possono anche farti “sbroccare”. Perdonate il termine, ma è un modo semplice per dire che se non si segue un percorso specifico per la SFM, si arriva ad avere reali momenti di sconforto, si arriva all’esasperazione e combattere tutto ciò, non è per niente facile. Da soli, non si può di certo.

Cosa pensa un fibromialgico che ancora non ha una diagnosi? E chi una diagnosi ce l’ha?
Inizialmente una persona fibromialgica potrebbe pensare di essere particolarmente fragile, quando ci sono i primi sintomi. Per un po’ di tempo potrebbe pensare che il proprio fisico non è più quello di “una volta” chissà per quale motivo oppure, se si è sempre sentita più fragile e bene o male ha sempre avuto qualche disturbo potrebbe pensare: “Eh va beh, sono così”. Poi però arriva un momento in cui, se ci sono fattori scatenanti che danno il via alla sindrome, i sintomi e i disturbi cominciano ad aumentare in numero ed intensità a livello esponenziale e una persona comincia a farsi qualche domanda in più, pensa: “Cosa c’è che non va? Perché mi sento così?”. Magari in un periodo della sua vita – che generalmente si aggira tra i trenta e i quarant’anni (tranne che nei casi di fibromialgia infantile e/o adolescenziale per la quale i sintomi d’allarme si manifestano molto prima), comincia a sentirsi estremamente stanca, dentro di sé sente in qualche modo che quella stanchezza è anomala, che è più del normale, ma non sa perché e quindi fondamentalmente pensa solo di essere così o comunque tiene la cosa per sé. In altri casi, spontaneamente, come capita a tutti, comincia a dire: “Sono distrutta/o”, “Ho male di qui, ho male di là…”. In seguito si rende conto che questa stanchezza e questi dolori sono sempre più frequenti, poi… si accorge che non passa un giorno senza avere dolore da qualche parte e magari un familiare, stranito, comincia a dire: “Possibile che hai sempre male da qualche parte?” e magari aggiunge: “Sei giovane! Come fai ad avere sempre qualcosa? Come fai a essere così stanca/o?”. Così, l’inconsapevole fibromialgico comincia a dire: “Che posso farci? È vero!”. È vero, pensa, ma perché? Cosa c’è che non quadra? Nel frattempo, si sviluppano altri sintomi che vanno al di la del dolore e della stanchezza anomala e che non si rende conto - perché non sa ancora – sono tutti legati alla sindrome. Quando la cosa diventa insopportabile, comincia a debilitare, a causare frequenti problemi e magari il corpo si ribella e decide di andare in una sorta di black out per il quale in un modo o nell’altro costringe a fermarsi e direi anche a crollare (le così dette fasi acute), allora inizia la trafila di esami e visite e se una persona è fortunata può avere la diagnosi in pochi anni (di sofferenza acuta naturalmente), se invece è più sfortunata, può metterci anche dieci anni ad avere la diagnosi e ad iniziare una "cura" e questo non dovrebbe accadere. Per intenderci, una fase acuta può portare il fisico della persona tanto allo stremo per i dolori e tutti gli altri sintomi, da non riuscire più a camminare, alzare le braccia o fare qualsiasi altro movimento che consideriamo normale. Per questo, l’informazione è così importante. Una persona fibromialgica senza diagnosi, si cura in tutti i modi a lei conosciuti o che le vengono consigliati dai vari specialisti ai quali si rivolge e a seconda dei sintomi prevalenti che ha: ortopedici, reumatologi, gastroenterologi, otorini, neurochirurghi, di tutto e di più e senza avere un risultato. Tra l’altro, parlando di reumatologia, c’è da spiegare anche questo: la sindrome fibromialgica è stata di fatto inclusa nel ramo della reumatologia, ma in realtà non è una malattia reumatica, è una sindrome cronica e trasversale, per la quale sarebbe necessario vi fosse più interesse da parte di tutte le ramificazioni mediche coinvolte e, oltretutto, ho citato tra le visite senza diagnosi anche i reumatologi perché purtroppo non tutti i reumatologi ne sono a conoscenza o sono sufficientemente preparati a riguardo, anzi per la maggior parte non sanno proprio di cosa si tratta. Per questo, se avete il sospetto di essere fibromialgici, è bene che vi informiate su qual è il reumatologo più vicino a voi che conosce bene questa sindrome e che può aiutarvi realmente. Ma andiamo avanti, un passettino alla volta. Parliamo anche di chi ha una diagnosi. Mi sono resa conto, facendo indagini, ricerche, parlando con molti pazienti fibromialgici, che non tutti coloro che hanno una diagnosi sono opportunamente “formati” e dunque consapevoli, su tutto ciò che dovrebbero sapere riguardo alla propria patologia. Questo mi ha fatto riflettere. Parlando con il sopracitato medico, che è stato disponibilissimo ed ha risposto senza battere ciglio alle mie domande, ho capito che la consapevolezza è la cosa più importante per un malato di fibromialgia e se questa non c’è o è sommaria, il paziente sarà confuso, avrà mille dubbi, non agirà in tutto e per tutto per trovare il massimo miglioramento possibile. Se però questi pazienti, con diagnosi, non sono consapevoli, è perché evidentemente i medici che hanno diagnosticato loro la sindrome sono stati in grado di diagnosticarla - per fortuna – ma magari non hanno una formazione a tutto tondo o specifica per la quale aiutare il paziente nel modo più corretto. Tant’è che una delle priorità in discussione con le istituzioni da parte delle associazioni per i malati di fibromialgia, è proprio la formazione, dal medico di base agli specialisti. Non è fattibile – e cito due casi reali – che una persona vada dal primario di un’eccellente struttura italiana specializzata in ortopedia e che questa persona, vedendo il paziente in carrozzina o con le stampelle, dopo la visita e le domande – dica che non è possibile che la schiena porti tutta quella debilitazione (esempio, in assenza di problema cervicale evidente, il paziente non riusciva comunque a muovere le braccia, faceva molta fatica, per dolore e mancanza di forza). Se questa eccellente professionista fosse stata preparata anche sulla fibromialgia, avrebbe potuto avere il sospetto che si trattasse di questo, fare altre domande e dunque indirizzare la persona verso uno specialista per accertamenti. Non è possibile un paziente, vada da un bravissimo neurochirurgo perché non sa più dove sbattere la testa e alla fine della visita si senta dire che siccome non c’è un problema evidente che riguarda il suo ramo, per lui è una cosa psicologica. E si parla di medici molto bravi, ma che evidentemente non vanno più in là del loro ramo e che per carità – non è che devono saper curare tutto – ma dovrebbero almeno saper comprendere come indirizzare un paziente che comunque sia ha gravi problemi, anche se loro non possono farci nulla. E se un medico non è un granché? (ci sono, come in tutte le professioni, è normale) Figuriamoci! Se medici bravi non sanno, come può sapere un medico che già di suo non è un “super medico”…?

Quali sono i sintomi di una persona fibromialgica? Cosa sente?
I sintomi della SFM sono numerosi (e a fine di questo paragrafo vi elencherò i più diffusi), ma ci sono da specificare due cose. La prima: il sintomo comune a tutti i pazienti, il principale, è il dolore. Dolore diffuso e al tempo stesso localizzato, dolore che “si sposta”, dolore di diversa intensità, di diversa tipologia (potreste sentire l’intero corpo come se aveste preso un sacco di botte accidentali, potreste avere fitte lancinanti e acute in diverse zone del corpo, in fase acuta fitte e crampi anche per tutto il giorno; potreste sentire dolori “opachi”, come li definiscono alcuni, dolori che ti fanno sentire di “cristallo”, ecc. ecc.). Tutti questi dolori poi, si manifestano inizialmente in modo localizzato (o meglio l’impressione iniziale è quella, poi il paziente si rende conto dei campanelli d’allarme avuti in precedenza, ma solo quando conosce la propria sindrome) e poi si diffondono a macchia d’olio. Per fare un esempio che può sembrare banale, una donna fibromialgica (la sindrome colpisce prettamente le donne: su dieci pazienti, nove sono donne) può persino sentire dolore nel punto in cui la tracolla della borsa si appoggia sulla spalla, così cambia lato, ma poi le fa male o le da fastidio spesso anche dall’altra parte e quindi continua a cambiare come una trottola. Talvolta persino l’elastico di un indumento può essere fastidioso o provocare in qualche modo dolore. Immaginate quando poi la sindrome è nel pieno del suo sviluppo e poi, provate a pensare a questo: una goccia d’acqua che cade dall’alto e vi colpisce il braccio non vi farà nulla giusto? Ma se questa goccia d’acqua cadesse sul vostro braccio tutto il giorno, tutti i giorni, senza sosta? Ricordate che le gocce d’acqua erano usate come tortura nei secoli bui? O ancora: se un amica/o, vi ticchetta sulla spalla per gioco, non vi farà male e non vi darà fastidio, ma se lo facesse anche “solo” per mezz’ora di fila? Ed ora immaginate una persona affetta da fibromialgia, che si trova a dover sopportare dolori bassi, medi e forti, contemporaneamente e incessantemente. Direi che il concetto è chiaro. Molte persone fibromialgiche purtroppo si deprimono, si scoraggiano, a volte si ammalano persino di depressione ed esaurimento nervoso, perché il dolore è costante. Riuscite a immaginare cosa può voler dire? So che purtroppo questo avviene in alcuni casi, anche a causa dei lunghissimi tempi per avere una diagnosi e dunque una cura; certe persone si ammalano – appunto – di depressione; per fortuna ci sono anche casi in cui questo non avviene, ma è comprensibile che una persona con un problema simile, non ancora diagnosticato, che continua a stare così male, a un certo punto crolli no? E ribadisco, anche per questo motivo, quanto l’informazione sia fondamentale, quanto sia necessaria una diagnosi precoce per una cura tempestiva, perché se una persona sta male e non riesce in nessun modo a capire cos’ha perché non trova il medico giusto e informato, si abbatte per forza perché pensa: “Come faccio? Sto male, come posso andare avanti così?”. Bene, ora un passo avanti: i sintomi. Come già detto sono molteplici e anche qui c’è da specificare che ogni caso di fibromialgia è a sé, ha cause scatenanti diverse e può essere che una persona abbia – purtroppo – tutti i disturbi sotto elencati o che ne abbia “solo” una parte, anche se ci sono sintomi comuni praticamente a tutti i pazienti. Di seguito l’elenco dei principali e in grassetto quelli che “non mancano praticamente mai”. Nel prossimo articolo, le relative specifiche per ogni sintomo.

- Dolore
Disturbi del sonno
- Astenia
- Depressione/ansia
- Cefalea (soprattutto muscolo tensiva). 
- Color irritabile e/o spasmi vescicali
- Rigidità mattutina
- Parestesie
- Difficoltà di concentrazione e disturbi della memoria
- Sensazione di gonfiore e reale gonfiore di una parte del corpo o più
- Disturbi, temporanei o continui, nella percezione visiva
- Acufeni
- Disturbi nella microcircolazione
- Fibro – fog: “fibro”, relativo alla fibromialgia e “fog”, dall’inglese, nebbia.
- Spasmi
- Febbre da fibro o sensazione di febbre.
- Alterata percezione delle temperature
- Alterata percezione al tatto
- Tremori
- Problemi di equilibrio.
- ... molto altro.

Per ora fermiamoci qui, c’è molto altro da dire. Continueremo nella parte 2.

Aggiornamento: 1) ad oggi (2022), nuovi studi hanno dimostrato che la Fibromialgia è anche una malattia autoimmune; il corpo, dunque, attacca se stesso per farla semplice. 2) viene ancora chiamata sindrome, ma la differenza starebbe solo nell'esistenza o meno di un esame diagnostico. Negli ultimi anni questo esame è stato "trovato": si tratta di una risonanza magnetica che prevede determinati stimoli al cervello. Nello studio, si è vista la fibromialgia, poiché i pazienti fibromialgici hanno una differente reazione a quegli stimoli, a livello cerebrale, rispetto a una persona sana. Il problema è che questo esame non è disponibile per la collettività. 3) nel frattempo, l'inserimento nei LEA, in Italia, della malattia, non è ancora avvenuto. 4) i test (di cui non avevo scritto) per comprendere l'impatto della fibromialgia sulla vita e per stabilirne la severità, sono stati aggiornati. 5) un ricercatore italiano ha individuato il biomarcatore della fibromialgia; sempre per farla semplice, questo permetterebbe col tempo, la definizione di una vera cura. Il problema è che la ricerca non viene finanziata. Per informazioni e donazioni visitate il sito di Fondazione Isal. 6) Nell'articolo successivo sono state aggiunte alcune conseguenze riguardanti il deterioramento fisico causato dalla fibromialgia ed alcune patologie che spesso si presentano o, per alcuni studi, possono più frequentemente sopraggiungere in un malato di fibromialgia.

mercoledì 13 giugno 2018

La storia di "Over the Rainbow"


"Oltre l'arcobaleno", "Over the Rainbow", nota anche con il titolo di "Somewhere Over the Rainbow" è una canzone di Harold Arlen, considerato tra i più grandi compositori del suo genere nel ventesimo secolo. Sono tante le composizioni che ha scritto, ma certamente "Over the Rainbow" è una delle più note. È stata scritta a metà degli anni trenta, quando Arlen si sposò e passò molto tempo in California scrivendo per i musical di Hollywood. In quegli anni iniziò la sua collaborazione con il paroliere Yip Garburg e nel '38 vennero chiamati dalla Metro-Goldwin-Mayer per comporre le canzoni per "Il Mago di Oz". Tra queste, anche la magica "Over the Rainbow" che valse loro l'Accademy Award per la migliore canzone originale. Fu Judy Garland (attrice, cantante e ballerina statunitense) che interpretò il ruolo della protagonista (Dorothy Gale). Questo pezzo ha sempre avuto un enorme successo e non c'è da stupirsi d'altronde. Nel 1981, questo brano ha vinto il Grammy Hall of Fame Award e miriadi sono gli interpreti che l'hanno riproposta dagli anni della sua nascita ad oggi (si contano circa 650 cover/arrangiamenti da altrettanti artisti di generi anche completamente diversi tra loro). Una nota da segnalare è che il pezzo presenta una spiccata somiglianza con l'intermezzo noto come "Il sogno di Ratcliff" di Pietro Mascagni (1895). Di seguito la versione originale e fiabesca interpretata da Judy Garland e la dolcissima versione del 1993 di Israel Kamakawiwo'ole (musicista statunitense nativo delle Hawaii) con traduzione dell'eccezionale testo.



"Da qualche parte, al di là dell'arcobaleno,
c'è un posto di cui ho sentito parlare, 
una volta, in una ninna nanna.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno,
volano uccelli blu e i sogni che fai,
i sogni, diventano davvero realtà.
Un giorno o l'altro esprimerò un desiderio s'una stella
e mi sveglierò dove le nuvole già saranno lontane dietro di me.
Un luogo dove i problemi si sciolgono come gocce di limone.
Ecco dove mi troverai.
Da qualche parte, sopra l'arcobaleno, volano uccelli blu
e i sogni che hai il coraggio di fare, diventano realtà.
Perchè? perché io non posso?  [volare come loro].
Vedo verdi alberi ed anche rose rosse
che sbocciano per me e per te.
E penso tra me e me: "Che meravigioso mondo".
Vedo cieli blu e bianche nuvole,
la luminosità del giorno, mi piace la notte
e penso tra me e me: "Che meraviglioso mondo",
I colori dell'arcobaleno, così belli nel cielo,
sono anche sui volti di quelli che passano.
Vedo amici stringermi le mani dicendo: "Come fai?";
dicono davvero, che io ti amo.
Sento i bambini piangere e li guardo crescere:
impareranno molto più di quanto noi sapremo.
E penso tra me e me: "Che meraviglioso mondo".
Un giorno esprimerò un desiderio s'una stella:
svegliati dove le nuvole sono lontane dietro di me,
dove i problemi si sciolgono come gocce di limone,
(molto) in alto sopra la cima del comignolo.
E' lì che mi troverai.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno, molto in alto,
(dove) il sogno che hai il coraggio di fare (diventa realtà).
Perché? Oh, perché io non posso?"

lunedì 23 aprile 2018

Eradius: the winner is Music


Eradius. Li ho scoperti al Vinyl. Sono in due, ma quando li senti suonare la loro performance ti travolge, ti ribalta come se fossero in quattro o cinque, come a dire: “Poco importano i numeri, nel rock la matematica può anche essere un’opinione”. Questo è quel che viene da pensare quando ascolti un duo del genere. Richard, al basso e alla voce (Londra, 1994) e Edoardo (Verona, 1991) sono a dir poco esaltanti. Il loro è un rock parecchio contaminato, si sentono le influenze raccolte negli anni da entrambi i musicisti. Si sentono e si amalgamano, ma al tempo stesso “spiazzano” piacevolmente all’interno dei pezzi e passando da un pezzo all’altro. I loro riferimenti sono i Rage Against The Machine e i Tool, mentre per la formazione si sono ispirati ai britannici Royal Blood, ma in realtà vanno anche oltre al rock e all’interno del genere le influenze sono davvero numerose. Un ottimo batterista, Edoardo, di quelli che in gergo si dice “hanno un bel tiro” e un bassista/cantante a dir poco fenomenale, Richard appunto. Richard ha una voce potente e versatile e suona l’amato basso divinamente, sia a livello tecnico che per l’espressività e l’originalità con la quale si approccia allo strumento. Una potenza. Senti un basso, ma quel basso non fa “solo” da basso e insieme, questi due, hanno un bel po’ da dire. Giusto per dare a Cesare quel che è di Cesare, riporto di seguito anche i premi vinti dalla band: primi classificati al Vicenza Rock Contest 2017, primi classificati al Krenkan Rock SMA Contest 2017, secondi al Tregnago Rock Contest 2017, finalisti all’Obbiettivo Bluesin 2017 e di nuovo primi al Festivalier Contest 2017. Insomma, i ragazzi si danno da fare e girano un sacco e considerando da quanto tempo sono una band, direi che sono belli carichi. Il 26 febbraio 2018 è uscito il loro primo album (“Eradius”), preceduto dall’uscita del singolo “Democrazy” e seguito dal singolo “Medusa”. Dodici brani ben assestati che sembrano dire: “Siamo arrivati e non potrete fare a meno di notarci”.




Ragazzi, a me il nome Eradius dice “Era di luce”, per associazione abbastanza ovvia. In realtà cosa significa? Da dove nasce questo nome?

Il nome è un rebus, e non vogliamo ancora divulgare il suo significato ci dispiace. Possiamo dire che un attento osservatore può intuirlo e diciamo che, al di là del significato, vuole anche rappresentare la multi-etnicità della band. Speriamo di aver fatto ancora più confusione nella mente dei lettori!

Come vi siete incontrati? Quando esattamente avete formato la band?

Noi ci siamo conosciuti grazie alla musica, abbiamo iniziato a suonare insieme in un trio cover rockabilly/blues ancora attivo, i Triple Rock, assieme a un chitarrista, Ray, che salutiamo con affetto. Ci teniamo sempre a citare i Triple Rock perché è stata e continuerà ad essere, la fonte economica che ci ha permesso di finanziare il progetto Eradius, quindi abbiamo pagato con la musica per creare altra musica. L'idea di cominciare a scrivere canzoni originali quindi ci arrivò scoprendoci affini come gusti musicali e soprattutto come idea generale del mestiere, saturi dopo anni di formazioni cover di qualsiasi genere. L'idea del duo ci è venuta un po' grazie all'ascesa dei Royal Blood, un po' perché non volevamo rischiare di perdere troppo tempo per trovare un terzo o un quarto elemento che avesse le nostre stesse idee e motivazioni. E quindi ufficiosamente ci siamo rintanati in sala prove per comporre la nostra musica durante l'estate 2016.

La vostra formazione musicale e le vostre influenze?

E: mi sono approcciato alla musica cercando di emulare goffamente al piano mio nonno, per poi iniziare con la propedeutica a casa dei miei zii, anche loro musicisti. Dopo di che ho iniziato lo studio della batteria nella scuola della banda del mio quartiere, per arrivare a laurearmi alla triennale jazz del Conservatorio L. Campiani di Mantova. Sono cresciuto ascoltando e suonando di tutto, dalle marcette alle colonne sonore, dal jazz al metal, dal blues al funk e tuttora nel comporre mi lascio influenzare da tutti questi diversi stili.

R: ascoltando le cassette dei miei ho conosciuto gruppi storici come Pink Floyd e Police e all'età di quattro anni ho iniziato a studiare pianoforte a Londra, fino ai dodici anni. Poi a quell’età, in Italia, mi sono avvicinato al basso elettrico e ho iniziato a esplorare tutto ciò che gli anni '90 avevano da offrire; in particolar modo Tool e Rage Against The Machine. Anche io ho intrapreso il triennio jazz al Conservatorio di Verona, mai terminato perché risultava impossibile conciliare studio, lavoro e live. Con il quattro corde in mano ho suonato in diverse formazioni rock/blues prima di incontrare Edo nei Triple Rock e con lui ho iniziato a prendere seriamente il canto, andando a lezioni e approfondendo la tecnica vocale.

Qual è stata la più grande soddisfazione che avete avuto fino ad ora e qual è il vostro grande sogno?

Sicuramente aver vinto diversi contest ci ha dato la forza e la consapevolezza che quello che era nato un po' per sfogo personale funzionava e meritava di essere portato avanti, ma probabilmente la più grande soddisfazione finora ci arriva dalla risposta del pubblico quando viene ad ascoltarci live o quando ascolta il nostro disco. L'orgoglio che emerge è pari a quello di un genitore nei confronti del proprio figlio. Adesso il nostro grande sogno è di portare “Eradius” oltralpe, e misurarci col pubblico europeo e, chissà, forse un giorno anche più lontano!

Richard, per chi non ha mai sentito i vostri pezzi: quali sono le tematiche, le ispirazioni, le aspirazioni, gli intenti, se ci sono – dei tuoi testi?

Premetto che la stesura dei testi è condivisa da entrambi - la maggior parte delle volte, infatti, il testo nasce in italiano da Edo e poi io lo traduco cercando di adattarlo alla parte strumentale. Sebbene complesso a parole, in questo modo abbiamo trovato una quadra molto più pratica del previsto. Detto ciò, i testi di “Eradius” sono per lo più di protesta, denunciando tutto ciò che ci sembra sbagliato nella nostra società. Parliamo di ambiente, politica, web, religione, dipendenze, senza però cadere nella propaganda. In altre parole non abbiamo voluto metterci altezzosamente in cattedra spiegando come si dovrebbe fare, ma semplicemente dicendo “Ehi, lo vedi che così non va bene?”. Parliamo anche di relazioni (“Medusa” e “Black Queen”) e un pezzo (“Desert”) è dedicato agli artisti che hanno contribuito a questo album, come grafici e disegnatori; in particolare a Enrico “Berta” Bertagnoli - autore del logo - e Tom Colbie, autore della copertina.

Come immaginate il vostro futuro e come quello dell’umanità?

Speriamo di continuare a suonare con la stessa passione di adesso, divertendoci e facendo divertire chi ci ascolta. Per quanto riguarda l'umanità, speriamo che vada sempre in meglio invece di peggiorare. In generale non guasterebbero più empatia e meno prosciutti sugli occhi.

Qual è la cosa più bella del mondo per voi?

L'arte in tutte le sue forme, pensiamo sia l'esternazione più concreta che l'essere umano ha a disposizione.

Chi è/chi sono la persona/le persone che più vi hanno insegnato qualcosa durante il vostro cammino artistico e non?

I nostri insegnanti in primis, i musicisti con cui abbiamo condiviso i palchi, gli artisti che siamo andati a vedere dal vivo, i fonici e i tecnici, il pubblico...il nostro produttore Tommaso Canazza! A nostro avviso un artista non ha mai finito di imparare e dovrebbe essere in grado di imparare sempre qualcosa dalle persone che incontra o dalle situazioni in cui si trova, anche laddove queste siano negative o controproducenti. Inoltre ci sono state persone che durante il nostro percorso ci hanno sostenuto e aiutato, come amici e familiari e in particolar modo Emanuele, che con il suo marchio Atropine ci veste e ci tifa come un ultras!!

In cosa credete?

R: Credo nella meritocrazia e nella musica come veicolo di sentimenti ed emozioni.
E: Credo nella forza individuale. Ognuno di noi ha l'energia necessaria per raggiungere qualsiasi obbiettivo, il resto sono scuse.

Colori. Di che colore è la vostra musica? e voi?

R: grigio
E: blu

-        And the winner is…?

Music.

Music, concordo. The winner is always music. Thanks ragazzi!

Link:

giovedì 1 marzo 2018

L'omicidio Joplin



Janis, la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis, quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se ballava libera sul palco, ma giù dal palco poi era un'altra storia. Janis, intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con lei non c’entrava niente anche se in modo diverso rispetto alla città che la circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o forse, si, forse solo per carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno, ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere dentro di se la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro, come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni – scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato, storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta “abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano. Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno di questo gruppo di casinisti ed era proprio lei la più caotica. Non aveva nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo, facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta. Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università però iniziò a cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus). Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande intelligenza, si illuminò di fronte a lui la sua mente brillante, nascosta sotto strati di trascuratezza e tutto ciò lo fece innamorare. Si fermarono anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore, finalmente arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito dopo Chet la portò ad esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale – con quattro brani cantati a cappella – ricevette un’ovazione esplosiva da parte del pubblico, racimolando anche qualche soldo. Janis iniziò poi una relazione con una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet, con il quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk, che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers, con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo, i Big Brothers, cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi leggendario, l’ “Avalon Ballroom”  e fu lì che Janis iniziò ad esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother & The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò, Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad aumentare, poiché ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce della giovane artista. Nel ’67 infine ebbero la loro grande occasione. Si esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì, di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo, partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero sentire e ad un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per prendere strade diverse e lei decise di continuare come solista. Nel ’69 iniziò a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues, ma il loro concerto a Memphis fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli, proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star, realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo ed anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più, sempre di più, perché la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a qualcuno, per lei, c’era qualcosa di sbagliato in quel che faceva. Una cosa assurda naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock. Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di se. Di ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e dopo la puntata, si diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe anche la modella ed attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol e la loro cameriera, per quanto possa sembrare strano a dirsi, fu la futura Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi con i Big Brother, che nonostante tutto la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti). L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea completamente fuori di testa, senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di “Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70, Janis morì di overdose, a soli ventisette anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei brani, “Buried Alive”. Si, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico, la sua musica, restò nell’eternità.

Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa e la sua musica è rimasta nella storia e nella storia resterà per sempre, eppure anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha saputo ribellarsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a ribellarsi nel modo giusto, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde, per un buio dal quale non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità, con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il futuro sia creato dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - meraviglioso oceano chiamato mondo.


"E ogni volta ripetevo a me stessa che non potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue braccia, lo canto ancora una volta."


domenica 10 dicembre 2017

Bob Marley: prayers


Credo che tutti - o almeno me lo auguro - conoscano "Redemption Song" di Bob Marley. Questa poesia, questa canzone, questo inno alla libertà, si è fiondato nelle anime delle persone fin da subito e li è rimasto. È uno di quei capolavori immortali per i quali non ci sono "se" e non ci sono "ma", perché una persona può amare qualsiasi genere musicale, può essere aperta o meno ad altri generi, ma questo pezzo è intoccabile, indiscutibile, musicalmente ed umanamente elevato. Bob Marley la scrisse intorno al '79 e già da un po', purtroppo, gli era stato diagnosticato il cancro che lo portò poi a mancare. Soffriva già dei dolori legati alla malattia e in effetti, in tutto l'album ("Uprising", pubblicato nel 1980) il tema del dolore è sempre lì, ma al tempo stesso c'è speranza, c'è luce nel buio; come se ci fosse sempre, in ogni caso, un nuovo inizio. È un testamento spirituale ed artistico quello dell'ultimo album di Marley (e soprattutto lo è “Redemption Song”) ed è considerato tra l'altro uno dei tre più importanti nella sua carriera (con "Natty Dread", 1974 e "Exodus", 1977).  È evidente in "Comin in from the cold", in cui Bob afferma "In questa vita, dolce vita, noi veniamo dal freddo" ma continua dicendoci "È a te che sto parlando. Perché hai questo aspetto triste e desolato? [...] No, niente paura." Al di là di tutto, del sistema a cui fa riferimento, del caos, del suo stesso dolore, Bob ci dice di non avere paura, perché anche questo in qualche modo è un inno alla libertà, quando sottolinea - parlando del sistema e ponendo un quesito a chi ascolta senza mezzi termini - che siamo noi a decidere, che siamo noi a dover essere liberi, mentalmente e spiritualmente. Riflette Bob: "Bene, anche l'uomo più grande è stato un semplice bambino", un po' come ad esprimere il suo concentrato di emozioni di una vita che gli ripassa davanti, ma anche un modo per dire alle persone di ricordarsi di quell'innocenza, di quella libertà, del gioco, della creatività, che fanno parte dell’infanzia; consiglia di non perdersi e di mantenere sempre vivo quel bambino. Perché essere tristi? domanda Bob: "Non lo sai che quando una porta è chiusa molte altre sono aperte?". In "Real situation", invece, fa una purtroppo attualissima analisi sulla situazione globale, la guerra, i potenti, la tristezza di non riuscire a fermare la violenza diffusa. Di una cosa però si raccomanda. Una cosa che al giorno d'oggi è da ripetere e ribadire, forse ancor più che in passato: "Verifica la situazione reale", sii cosciente di quel che accade davvero e non limitarti alle primissime e più immediate fonti di informazione, perché lo sappiamo come funzionano. Anche qui però c'è una frase, quasi un outsider rispetto al resto del testo, che sembra essere un pensiero detto ad alta voce per caso, ma che ci riporta ancora all'importanza del bambino: "Una volta uomo e due volte bambino". Perché bambini si ritorna a un certo punto della vita, certo, ma - io credo - anche e soprattutto perché se abbiamo gli occhi, lo sguardo, l'ascolto, aperto al mondo con la curiosità e la forza di un bambino, forse qualcosa la possiamo cambiare. "Bad card" sottolinea ad esempio la sua voglia di vita, di musica, di alzare il volume, nonostante quello che gli stava accadendo e nonostante la situazione che vedeva, valutava, situazioni in parte personali e in parte globali. "We and Dem": "Noi sappiamo come siamo noi e come sono loro". Alla fine è questo che fa la differenza e chi sparge sangue pagherà. "Qualcuno dovrà pagare per il sangue innocente che loro versano ogni giorno, oh bambini, attenti alla mia parola. È quello che dice la Bibbia, noi sappiamo come siamo noi e come sono loro e potremo risolverla". Ancora, la speranza della pace e la fiducia nei bambini e in un futuro migliore. È un elenco della cruda realtà per cui l'uomo ha distrutto tutto, ha sbagliato tutto, ma c'è comunque la speranza di vedere tutto il male scomparire ed è anche il riconoscere, implicito, della presenza ancora viva di una Bellezza che volendo, potrebbe salvare l'umanità, divisa tra chi distrugge e chi crea. La frenesia è oggetto invece di "Work". Lavoro, lavoro e lavoro, ma anche qui Bob riconferma che uniti, possiamo farcela a cambiare tutto quello che non va.  Stupendo anche il testo di "Zion Train", che semplicemente vi inviterei a leggere tutto. È una preghiera, è un'incitazione, è uno sguardo attento alla luce e una presa di coscienza, così come un invito, perché "La saggezza è meglio dell'argento e dell'oro". “Pimper’s paradise”, un pezzo di denuncia nei confronti della prostituzione, della criminalità e direi anche contro la superficialità in tutte le sue forme. La track list continua con l’amatissima “Could you be loved”, che esorta le persone a pensare con la propria testa, a non farsi schiacciare, a pensare che ognuno di noi ha il diritto di vivere ed essere amato, perché “l’amore non ci lascerà mai soli” e anche quando le cose vanno male è fondamentale vivere e non sopravvivere. In “Forever loving Jah”, un testo spirituale, Bob innalza una preghiera, che come tale è piena di positività, perché non importa cosa succeda, lui e con lui quelli che hanno Amore resisteranno ed appunto, ameranno incondizionatamente. Ed eccoci al punto da cui siamo partiti: “Redemption Song”. Letteralmente “La canzone della redenzione”, è in realtà – fin dal titolo – molto di più. “Redemption” non significa infatti solo la redenzione nel senso di “purificazione spirituale attraverso una vita giusta”, bensì “liberazione” e “Song”, non significa solo “canzone”, bensì “Canto”, una preghiera collettiva. In “Redemption Song” ci sono riferimenti storici e biblici, che accompagnano il testo in un’auto crescita tale da renderla un vero canto oltre la storia ed oltre le epoche. È musicalmente diversa per Bob, non ha quasi niente a che vedere con il reggae e non penso proprio che la cosa fosse casuale. Bob voleva rendere “Redemption Song” un messaggio universale, che sarebbe arrivato a tutti, non solo a chi seguiva lui o il genere. E ci è riuscito. Eccome.

"Gli antichi pirati, si, mi hanno rapito,
venduto alle navi dei mercanti,
(pochi) minuti dopo avermi preso
dal pozzo senza fondo (in cui mi ero rintanato).
Ma la mia mano è diventata forte,
attraverso la mano dell’Onnipotente.
Andiamo avanti in questa generazione. Trionfalmente.
Non aiuteresti a cantare questa canzone,
questo canto di liberazione?
Perché tutto ciò che ho sempre avuto,
(sono questi) canti di redenzione.
Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale,
nessuno, se non noi, può liberare le nostre menti.
Non abbiate paura dell’energia atomica,
perché nessuno di loro può fermare il tempo.
Per quanto ancora dovranno uccidere i nostri profeti
mentre noi stiamo lì in piedi a guardare?
Qualcuno dice sia solo un assaggio.
Dobbiamo adempiere al Libro.
Non aiutereste a cantare questo canto,
questo canto di liberazione?
Perché tutto ciò che ho avuto,
sono questi canti di redenzione."



lunedì 26 giugno 2017

Flacopunx e i "Coleotteri" di Flaco


Fabrizio Castelli, per tutti Flaco. Per vent'anni ha contribuito a scrivere la storia del punk rock italiano con i Punkreas, con la sua inconfondibile chitarra, con la sua vena da cantautore (scrivendo alcuni dei pezzi più amati della band) ed anche come punto di riferimento, perché lo è sempre stato per tutti. Ora volta pagina e lo fa con il suo stile inconfondibile. Il nuovo progetto di Flaco, i Flacopunx, ha esordito con il primo album "Coleotteri" alla fine del 2016. Ad accompagnarlo in questa nuova avventura, naturalmente, ottimi musicisti (Checco Faini alla voce, Mattia Foglia al basso e ai cori, Matteo Campana alla chitarra, Dario Magri alla batteria e ovviamente il nostro Flaco, alla chitarra e cori. Ah, scusate, c'è un "sesto uomo", Carlo Tattoo, di cui parleremo poi...). Flaco è ancora lì, con la sua inseparabile chitarra, con i suoi fantastici testi, con la sua voglia di fare e con la grinta di chi ci crede fino al midollo. È un album in cui l'identità tutta di Flaco si vede, si sente, in una fusione nitida tra passato e presente, con uno sguardo alto verso il futuro e l'orizzonte. Flaco è un autore che ama le ispirazioni e le contaminazioni, che dice - con grande umiltà - di ritenersi fortunato quando riesce a distillare "una goccia di profumo" da quel che gli capita, dal caos attorno, dai libri che legge, dai film che vede, dalla vita, sua e del mondo. Quando lo guardi suonare vedi la stessa passione che aveva dieci anni fa, quindicianni fa... sapete, non è di quelli che dopo un bel po' di anni che suonano perdono il gusto perché "si abituano". No, Flaco non si abitua, si diverte, fa divertire ed è pieno di passione. Propone tematiche non da poco, il più delle volte, ma lo fa con ironia, vivacità, senza appesantire nulla. Gli è sempre piaciuta l'idea di portare testi da cantautore nel punk rock e ci è sempre riuscito. Se dovessi scegliere un brano che mi ha colpito più di tutti gli altri, in questo nuovo lavoro, è "Dodici ore". Il testo di "Dodici ore" è qualcosa che va al di là del punk, al di là del rock, al di là di tutto, perché è un brano che qualsiasi genitore può sentire suo ed è un brano che anche io che non sono genitore posso sentire mio. E mi commuove, perché i bambini, i ragazzi, sono il futuro e lo sappiamo. Anche chi non è genitore e semplicemente si guarda attorno, un po' di preoccupazioni le ha di certo e spera, pensa, vorrebbe trasmettere il meglio che ha a chi è più giovane, piccolo, bambino. Le tematiche più varie attraversano l'album in quella che Flaco stesso definisce una metamorfosi, personale e musicale, dunque a questo punto, direi di parlarne con lui...

Flaco, il coleottero è proprio un simbolo di trasformazione no? e se si pensa al testo della canzone che poi da il titolo all'album ("Coleotteri", appunto), è una sorta di presa di coscenza, di superamento di una fase di cambiamento, emozioni miste e probabilmente una messa a fuoco sul futuro...?

"Bhe, più del coleottero, che per me rappresenta il ricordo e il memento della mia animalità, è lo scarabeo egiziano a simboleggiare la rinascita e per questo l'ho scelto come simbolo. Caso ha voluto che mi trovassi ad affrontare un cambiamento personale importante (la fine del rapporto coi Punkreas) nello stesso periodo in cui meditavo sulla necesità di uscire dalla bolla ideologica tipica della guerra fredda. Ho cercato per quanto possibile di far coincidere le mie trascurabili vicende biografiche con più importanti cambiamenti geopolitici e storici."

I testi e la musica sono tutti tuoi, ma il sesto uomo, Carlo "Tattoo" Ferrè, mi dicevi che è stato fondamentale...

"Il mio vecchio amico Carlo ha anche fornito spunti importanti dal punto di vista musicale, suggerendo arrangiamenti e soluzioni a cui non avevo pensato. Tuttavia, per quanto mi riguarda, il suo massimo merito sta nell'avermi convinto che potevo scrivere qualcosa di nuovo e di valido e nell'aver sostenuto il mio sforzo in un momento in cui ero piuttosto sfiduciato. Non penso che ce l'avrei fatta senza il suo appoggio e la sua fiducia nelle mie qualità."

"Gorky". È ispirata al romanzo di Martin Cruz Smith?

"No, in realtà è più ispirata a un noto saggio di Hobsbawm intitolato "Il secolo breve", in cui lo storico britannico tratteggia i caratteri della società europea dal 1914 al 1991, mettendo bene in rilievo il potere evocativo della rivoluzione russa su tutta la produzione intellettuale e politica del '900. Solo che l'.U.R.S.S. non c'è più e prima o poi ce ne renderemo conto anche in Italia (mai disperare). Casualmente in quel periodo ho rivisto un mediocre film, penso tratto dal libro e intitolato "Gorky" ed ho pensato che il parco più famoso di Mosca fosse perfetto per il titolo."

Andando in ordine beh, che dire... "Codice rosso". Le tematiche sono tante. Cosa pensavi o cosa hai pensato mentre scrivevi il testo di questo pezzo?

"Ho pensato che non potevo sopportare che una cultura le cui ultime produzioni intellettuali degne di questo nome e libere dal controllo religioso risalgono al XII-XIII secolo d.C., venisse a infettarci con le sue fantasie teologiche. È stata dura "liberarsi della Chiesa": sono seviti Cartesio, Kant, gli Illuministi e poi Nietzsche, Marx, Freud. Tutto questo percorso di secolarizzazione e relativizzazione del sentimento religioso l'Islam non l'ha affrontato. Usano la tecnologia occidentale, le armi, i computer e le droghe occidentali, ma li innestano utilitaristicamente su una cultura ingenuamente religiosa con tratti di violenza per me inaccettabii. Non parlo solo dei cosiddetti martiri che ammazzano bimbe di otto anni ai concerti pop. Parlo anche di un sistema patriarcale che tiene le donne sotto il giogo maschile, impedendone l'emancipazione. Capisco che uno nato e cresciuto nell'insegnamento islamico non possa pensare altrimenti, ma è compito suo evolversi e io non gli devo nessuna particolare comprensione né tolleranza."

Come immagini il futuro? In tutti i sensi, per questo progetto e anche in generale...

"Quanto al progetto ovviamente aspiro al massimo di successo. Dirlo ora che non mi si fila nessuno fa un po' ridere, ma ho la convinzione di essere semplicemente in anticipo sui tempi e basterà avere la pazienza di aspettare per capire chi ha ragione. In generale, invece, penso che le differenze culturali e le rigidità che separano popoli e nazioni siano destinate all'estinzione, ma per questo temo che ci vorranno secoli. La tendenza è inarrestabile, ma le resistenze sono molto forti."

"La canzone di Adamo"? Mi chiedevo... a chi si rivolge (se si rivolge a qualcuno)?

"Adamo non è altri che Adam Smith, noto economista sostenitore del liberismo e dell'automatica capacità delle leggi di mercato di operare per il meglio (la cosiddetta "mano invisibile"). Si rivolge a tutti quelli che negli ultimi decenni hanno sostenuto i miracoli del libero mercato e spinto per privatizzazioni e deregulation. La verità è che il nostro sitema di produzione, se non controllato e direzionato verso un'equa distribuzione, tende naturalmente ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri. Fino al punto in cui i disagi dei poveri sono così forti da mettere a rischio il patto sociale. Ci stiamo avvicinando."

E poi c'è "Bubblegum". È una denuncia e questo è abbastanza evidente e forse c'è anche del timore per il futuro. Il messaggio è quello di non farsi prendere da tutto ciò che ci può in qualche modo togliere umanità e renderci solo... gomma da masticare?

"La tecnologia digitale e la biogenetica portano con sé minacce di una grave disumanizzazione. Non vedo soluzioni private efficaci. È un movimento storico e collettivo, perciò non basta "astenersi". Temo che tra qualche anno si passerà dalla miocentesi alla selezione preventiva del patrimonio genetico ai fini della riproduzione, che a quel punto non sarà nemmeno più una ripoduzione sessuale. Ci penserannno i medici a far incontrare ovuli e spermatozoi selezionati. Tecnicamente ci siamo già molto vicini. Penso che contro questa tecnicizzazione del bios, della vita, risorgeranno fanatismi religiosi e superstizioni violente. Al momento non trovo un posto confortevole né da una parte né dall'altra. Sono nato umano e credo che da umano morirò. Ci tengo."

Adesso la mia preferita. "Docici ore". Racconta tu, è tanto bella che preferisco sia solo tu a parlarne.

"Bhe, questa è proprio una canzone scritta per i figli. Innanzitutto i miei, ma poi per i figli in generale. Molti artisti a un certo punto della loro vita sentono il bisogno di lasciare un messaggio in bottiglia alle future generazioni. Questo è il messaggio che sento di poter lasciare io. In sintesi: non aspettarti che il passato e nemmeno il presente abbiano una particolare stabilità, soprattutto oggi. E non dimenticare che se il presente è sempre e comunque il frutto del passato (e per questo bisognerebbe studiare la storia prima e più di qualsiasi altra disciplina, scienza compresa), tuttavia il futuro è sempre aperto, "unwritten" come diceva Joe Strummer. Almeno finché resteremo "imprevedibili esemplari umani". Non ho - purtroppo o per fortuna - molte altre verità da consegnare ai miei figli."

Dici che 'siamo quasi fuori dalla "Zona d'influenza" ', quella che avrebbe portato all'americanizzazione generale e globale... come la intendi? Perché secondo te saremmo quasi fuori da questa zona d'influenza?

"Perché il secolo americano è finito. Oggi altri attori importanti si affacciano e prendono posto nelle dinamiche culturali, economiche, politiche. Cambiano i rapporti di forza e l'America, da Impero, sta lentamente - ma io penso inesorabilmente - trasformandosi in uno dei tanti centri di potere. L'elezione di Trump, ben lungi dall'essere un incidente di percorso, mi sembra il sigillo che gli americani stessi hanno messo sulla loro oscura consapevolezza di aver terminato la loro parabola imperiale iniziata con l'intervento durante la prima guerra mondiale. Ci vorrà ancora molto, sia chiaro. Dopotutto hanno qualcosa come quattordici portaerei e controllano tutti gli oceani, ma questa è la tendenza."

Fermiamoci un attimo. Se tu dovessi pensare a qual è la canzone che hai scritto alla quale sei più legato in assoluto... riesci a individuarne una sola?

"Sono particolarmente legato a "Cuore nero". Forse perché sia musicalmente che a livello di testo è un po' anomala. Sicuramente perché nel video la protagonista è mia figlia Melissa, all'età di otto anni, vestita di bianco e coi capelli al vento: quanto di più vicino alla pura innocenza e alla bellezza in sé, la bellezza in quanto tale. Scrivere, registrare e dare un'immagine a quella canzone è tata un'emozione unica e particolare."

In "Scura", oltre che parlare delle guerre, dei massacri, di tutta quella povera gente che scappa e non sa più da che parte andare... sembra tu abbia perso un po' la speranza che le cose possano migliorare in futuro. È un'impressione o è così...?

"No, non direi. Ho un rapporto problematico con quella canzone. Mi piace musicalmente – c'è anche lo zampino di Carlo – ma il testo è stato scritto sull'onda dell'emozione. L'emozione è importante, ma in politica serve a poco e anzi, rischia di essere dannosa. Sull'immigrazione va fatto un discorso non ideologico e non emotivo. Accogliere e respingere in blocco mi sembrano ambedue reazioni emotive poco sensate. Se dovessimo prendere decisioni in base alla pura emotività, le tragedie del mare ci porterebbero ad aprire tutte le frontiere senza distinguo, ma gli orribili attentati di cui si sono macchiati gli integralisti ci spingerebbero in un direzione opposta altrettanto irrealistica e insensata. Direi che l'emozione va bene per una canzone, ma è bene che resti confinata lì."

Quali sono i tuoi ascolti adesso e cos'è cambiato rispetto a vent'anni fa?

"Non molto a dire la verità. A parte il fatto che leggo sempre molto più di quanto ascolto, non mi sembra che negli ultimi dieci anni sia uscito qualcosa di indimenticabile. L'ultimo gruppo cui concederei lo statuto di "irrinunciabile" sono i RATM e il loro disco migliore è del 1992. In compenso sono costretto, sempre grazie ai miei figli, a spararmi pesanti dosi di rap italiano contemporaneo e a sentirmi questi ragazzini che si dipingono come pericolosi criminali perché hanno tre grammi di fumo in tasca. Sopporto e ogni tanto storco il naso, anche per dargli la soddisfazione di una disapprovazione. È importante che i figli si sentano sostenuti e compresi, ma è altrettanto importante che ogni tanto io dichiari la mia totale estraneità al loro mondo, musicale e non. Se no che ci sto a fare?"

"1861". È un anno in cui sono successe un sacco di cose storicamente parlando. Nel pezzo sembri fare riferimento più allo "spegnimento", come lo definisci tu, di tutte quelle comodità e dell' "agio", se così possiamo chiamarlo, derivato dal boom economico, dall'arrivo anche qui del consumismo di massa e così via. Tutto ciò a causa delle/ della crisi, nazionale e internazionale e forse da un decadimento che sembri, almeno dal testo, ritenere naturale perché... "la storia si ripete"? Sembri poi riportare il discorso proprio a quell'anno, il 1861, in cui c'erano i primi segni dell'unione d'Italia, in cui è stata coniata la Lira... e in America al tempo stesso si formavano pian piano gli Stati Uniti e arrivava Lincoln come 16° presidente americano. Che mi dici riguardo a tutto questo?

"Bhe, hai già detto molto tu. L'Italia è nata in condizioni molto particolari, ultima tra le principali nazioni europee e tramite la fusione di un Nord e un Sud molto diversi e piuttosto ostili l'uno all'altro. Dopo la prima e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale abbiamo goduto di una rendita di posizione (strategica) particolare. Da noi la guerra fredda è stata piuttosto "calda", se consideri il terrorismo e le stragi di stato. Tuttavia eravamo importanti per le grandi potenze che facevano arrivare i loro aiuti. Oggi non è più così. O (ri)scopriamo il senso di una politica e un interesse nazionali o finiremo frantumati."

"Testata nucleare". Non c'è molto altro da dire, nel senso che già il titolo è una denuncia verso i potenti che minacciandosi gli uni con gli altri per le loro smanie, se ne fregano altamente delle persone.

"Sai, a volte l'impressione è che ai grandi progressi in campi come la tecnologia militare non siano corrisposti da adeguati aggiustamenti antropologici. Siamo sempre delle vecchie scimmie litigiose, ma invece dei bastoni oggi abbiamo le atomiche. La cosa è un po' inquietante."

Stai già scrivendo altri pezzi?

"Comincio in questi giorni a lavorare su delle tracce accumulate negli ultimi mesi. Vorrei uscire con un paio di pezzi nuovi entro fine anno. Vedremo."

Cosa augureresti alle nuove generazioni di musicisti e cosa alle nuove generazioni in generale?

"Ai musicisti non saprei. Tendo a considerarli una razza in via di estinzione dal momento che il digitale ha reso la musica tanto disponibile quanto insignificante, se non come sottofondo sonoro. Restano giusto gli adolescenti a ritenerla una parte importante della loro esistenza. Per tutti gli altri, l'augurio è di studiare e conoscere abbastanza il passato per non ripeterne gli errori nel futuro. Non è vero che la storia non serve a nulla e che tutto si ripete uguale a se stesso. Diciamo che gli insegnamenti della storia sono un po' più complessi di quelli della matematica e non possono avvalersi della sperimentazione per fare le verifiche necessarie. Quelle arrivano dalla storia stessa, con calma e non si possono produrre in laboratorio."


This is Flaco!

Flacopunx
Link:



"Testata nucleare" e "Dodici Ore" - Flacopunx: