mercoledì 13 giugno 2018

La storia di "Over the Rainbow"


"Oltre l'arcobaleno", "Over the Rainbow", nota anche con il titolo di "Somewhere Over the Rainbow" è una canzone di Harold Arlen, considerato tra i più grandi compositori del suo genere nel ventesimo secolo. Sono tante le composizioni che ha scritto, ma certamente "Over the Rainbow" è una delle più note. È stata scritta a metà degli anni trenta, quando Arlen si sposò e passò molto tempo in California scrivendo per i musical di Hollywood. In quegli anni iniziò la sua collaborazione con il paroliere Yip Garburg e nel '38 vennero chiamati dalla Metro-Goldwin-Mayer per comporre le canzoni per "Il Mago di Oz". Tra queste, anche la magica "Over the Rainbow" che valse loro l'Accademy Award per la migliore canzone originale. Fu Judy Garland (attrice, cantante e ballerina statunitense) che interpretò il ruolo della protagonista (Dorothy Gale). Questo pezzo ha sempre avuto un enorme successo e non c'è da stupirsi d'altronde. Nel 1981, questo brano ha vinto il Grammy Hall of Fame Award e miriadi sono gli interpreti che l'hanno riproposta dagli anni della sua nascita ad oggi (si contano circa 650 cover/arrangiamenti da altrettanti artisti di generi anche completamente diversi tra loro). Una nota da segnalare è che il pezzo presenta una spiccata somiglianza con l'intermezzo noto come "Il sogno di Ratcliff" di Pietro Mascagni (1895). Di seguito la versione originale e fiabesca interpretata da Judy Garland e la dolcissima versione del 1993 di Israel Kamakawiwo'ole (musicista statunitense nativo delle Hawaii) con traduzione dell'eccezionale testo.



"Da qualche parte, al di là dell'arcobaleno,
c'è un posto di cui ho sentito parlare, 
una volta, in una ninna nanna.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno,
volano uccelli blu e i sogni che fai,
i sogni, diventano davvero realtà.
Un giorno o l'altro esprimerò un desiderio s'una stella
e mi sveglierò dove le nuvole già saranno lontane dietro di me.
Un luogo dove i problemi si sciolgono come gocce di limone.
Ecco dove mi troverai.
Da qualche parte, sopra l'arcobaleno, volano uccelli blu
e i sogni che hai il coraggio di fare, diventano realtà.
Perchè? perché io non posso?  [volare come loro].
Vedo verdi alberi ed anche rose rosse
che sbocciano per me e per te.
E penso tra me e me: "Che meravigioso mondo".
Vedo cieli blu e bianche nuvole,
la luminosità del giorno, mi piace la notte
e penso tra me e me: "Che meraviglioso mondo",
I colori dell'arcobaleno, così belli nel cielo,
sono anche sui volti di quelli che passano.
Vedo amici stringermi le mani dicendo: "Come fai?";
dicono davvero, che io ti amo.
Sento i bambini piangere e li guardo crescere:
impareranno molto più di quanto noi sapremo.
E penso tra me e me: "Che meraviglioso mondo".
Un giorno esprimerò un desiderio s'una stella:
svegliati dove le nuvole sono lontane dietro di me,
dove i problemi si sciolgono come gocce di limone,
(molto) in alto sopra la cima del comignolo.
E' lì che mi troverai.
Da qualche parte oltre l'arcobaleno, molto in alto,
(dove) il sogno che hai il coraggio di fare (diventa realtà).
Perché? Oh, perché io non posso?"

lunedì 23 aprile 2018

Eradius: the winner is Music


Eradius. Li ho scoperti al Vinyl. Sono in due, ma quando li senti suonare la loro performance ti travolge, ti ribalta come se fossero in quattro o cinque, come a dire: “Poco importano i numeri, nel rock la matematica può anche essere un’opinione”. Questo è quel che viene da pensare quando ascolti un duo del genere. Richard, al basso e alla voce (Londra, 1994) e Edoardo (Verona, 1991) sono a dir poco esaltanti. Il loro è un rock parecchio contaminato, si sentono le influenze raccolte negli anni da entrambi i musicisti. Si sentono e si amalgamano, ma al tempo stesso “spiazzano” piacevolmente all’interno dei pezzi e passando da un pezzo all’altro. I loro riferimenti sono i Rage Against The Machine e i Tool, mentre per la formazione si sono ispirati ai britannici Royal Blood, ma in realtà vanno anche oltre al rock e all’interno del genere le influenze sono davvero numerose. Un ottimo batterista, Edoardo, di quelli che in gergo si dice “hanno un bel tiro” e un bassista/cantante a dir poco fenomenale, Richard appunto. Richard ha una voce potente e versatile e suona l’amato basso divinamente, sia a livello tecnico che per l’espressività e l’originalità con la quale si approccia allo strumento. Una potenza. Senti un basso, ma quel basso non fa “solo” da basso e insieme, questi due, hanno un bel po’ da dire. Giusto per dare a Cesare quel che è di Cesare, riporto di seguito anche i premi vinti dalla band: primi classificati al Vicenza Rock Contest 2017, primi classificati al Krenkan Rock SMA Contest 2017, secondi al Tregnago Rock Contest 2017, finalisti all’Obbiettivo Bluesin 2017 e di nuovo primi al Festivalier Contest 2017. Insomma, i ragazzi si danno da fare e girano un sacco e considerando da quanto tempo sono una band, direi che sono belli carichi. Il 26 febbraio 2018 è uscito il loro primo album (“Eradius”), preceduto dall’uscita del singolo “Democrazy” e seguito dal singolo “Medusa”. Dodici brani ben assestati che sembrano dire: “Siamo arrivati e non potrete fare a meno di notarci”.




Ragazzi, a me il nome Eradius dice “Era di luce”, per associazione abbastanza ovvia. In realtà cosa significa? Da dove nasce questo nome?

Il nome è un rebus, e non vogliamo ancora divulgare il suo significato ci dispiace. Possiamo dire che un attento osservatore può intuirlo e diciamo che, al di là del significato, vuole anche rappresentare la multi-etnicità della band. Speriamo di aver fatto ancora più confusione nella mente dei lettori!

Come vi siete incontrati? Quando esattamente avete formato la band?

Noi ci siamo conosciuti grazie alla musica, abbiamo iniziato a suonare insieme in un trio cover rockabilly/blues ancora attivo, i Triple Rock, assieme a un chitarrista, Ray, che salutiamo con affetto. Ci teniamo sempre a citare i Triple Rock perché è stata e continuerà ad essere, la fonte economica che ci ha permesso di finanziare il progetto Eradius, quindi abbiamo pagato con la musica per creare altra musica. L'idea di cominciare a scrivere canzoni originali quindi ci arrivò scoprendoci affini come gusti musicali e soprattutto come idea generale del mestiere, saturi dopo anni di formazioni cover di qualsiasi genere. L'idea del duo ci è venuta un po' grazie all'ascesa dei Royal Blood, un po' perché non volevamo rischiare di perdere troppo tempo per trovare un terzo o un quarto elemento che avesse le nostre stesse idee e motivazioni. E quindi ufficiosamente ci siamo rintanati in sala prove per comporre la nostra musica durante l'estate 2016.

La vostra formazione musicale e le vostre influenze?

E: mi sono approcciato alla musica cercando di emulare goffamente al piano mio nonno, per poi iniziare con la propedeutica a casa dei miei zii, anche loro musicisti. Dopo di che ho iniziato lo studio della batteria nella scuola della banda del mio quartiere, per arrivare a laurearmi alla triennale jazz del Conservatorio L. Campiani di Mantova. Sono cresciuto ascoltando e suonando di tutto, dalle marcette alle colonne sonore, dal jazz al metal, dal blues al funk e tuttora nel comporre mi lascio influenzare da tutti questi diversi stili.

R: ascoltando le cassette dei miei ho conosciuto gruppi storici come Pink Floyd e Police e all'età di quattro anni ho iniziato a studiare pianoforte a Londra, fino ai dodici anni. Poi a quell’età, in Italia, mi sono avvicinato al basso elettrico e ho iniziato a esplorare tutto ciò che gli anni '90 avevano da offrire; in particolar modo Tool e Rage Against The Machine. Anche io ho intrapreso il triennio jazz al Conservatorio di Verona, mai terminato perché risultava impossibile conciliare studio, lavoro e live. Con il quattro corde in mano ho suonato in diverse formazioni rock/blues prima di incontrare Edo nei Triple Rock e con lui ho iniziato a prendere seriamente il canto, andando a lezioni e approfondendo la tecnica vocale.

Qual è stata la più grande soddisfazione che avete avuto fino ad ora e qual è il vostro grande sogno?

Sicuramente aver vinto diversi contest ci ha dato la forza e la consapevolezza che quello che era nato un po' per sfogo personale funzionava e meritava di essere portato avanti, ma probabilmente la più grande soddisfazione finora ci arriva dalla risposta del pubblico quando viene ad ascoltarci live o quando ascolta il nostro disco. L'orgoglio che emerge è pari a quello di un genitore nei confronti del proprio figlio. Adesso il nostro grande sogno è di portare “Eradius” oltralpe, e misurarci col pubblico europeo e, chissà, forse un giorno anche più lontano!

Richard, per chi non ha mai sentito i vostri pezzi: quali sono le tematiche, le ispirazioni, le aspirazioni, gli intenti, se ci sono – dei tuoi testi?

Premetto che la stesura dei testi è condivisa da entrambi - la maggior parte delle volte, infatti, il testo nasce in italiano da Edo e poi io lo traduco cercando di adattarlo alla parte strumentale. Sebbene complesso a parole, in questo modo abbiamo trovato una quadra molto più pratica del previsto. Detto ciò, i testi di “Eradius” sono per lo più di protesta, denunciando tutto ciò che ci sembra sbagliato nella nostra società. Parliamo di ambiente, politica, web, religione, dipendenze, senza però cadere nella propaganda. In altre parole non abbiamo voluto metterci altezzosamente in cattedra spiegando come si dovrebbe fare, ma semplicemente dicendo “Ehi, lo vedi che così non va bene?”. Parliamo anche di relazioni (“Medusa” e “Black Queen”) e un pezzo (“Desert”) è dedicato agli artisti che hanno contribuito a questo album, come grafici e disegnatori; in particolare a Enrico “Berta” Bertagnoli - autore del logo - e Tom Colbie, autore della copertina.

Come immaginate il vostro futuro e come quello dell’umanità?

Speriamo di continuare a suonare con la stessa passione di adesso, divertendoci e facendo divertire chi ci ascolta. Per quanto riguarda l'umanità, speriamo che vada sempre in meglio invece di peggiorare. In generale non guasterebbero più empatia e meno prosciutti sugli occhi.

Qual è la cosa più bella del mondo per voi?

L'arte in tutte le sue forme, pensiamo sia l'esternazione più concreta che l'essere umano ha a disposizione.

Chi è/chi sono la persona/le persone che più vi hanno insegnato qualcosa durante il vostro cammino artistico e non?

I nostri insegnanti in primis, i musicisti con cui abbiamo condiviso i palchi, gli artisti che siamo andati a vedere dal vivo, i fonici e i tecnici, il pubblico...il nostro produttore Tommaso Canazza! A nostro avviso un artista non ha mai finito di imparare e dovrebbe essere in grado di imparare sempre qualcosa dalle persone che incontra o dalle situazioni in cui si trova, anche laddove queste siano negative o controproducenti. Inoltre ci sono state persone che durante il nostro percorso ci hanno sostenuto e aiutato, come amici e familiari e in particolar modo Emanuele, che con il suo marchio Atropine ci veste e ci tifa come un ultras!!

In cosa credete?

R: Credo nella meritocrazia e nella musica come veicolo di sentimenti ed emozioni.
E: Credo nella forza individuale. Ognuno di noi ha l'energia necessaria per raggiungere qualsiasi obbiettivo, il resto sono scuse.

Colori. Di che colore è la vostra musica? e voi?

R: grigio
E: blu

-        And the winner is…?

Music.

Music, concordo. The winner is always music. Thanks ragazzi!

Link:

giovedì 1 marzo 2018

L'omicidio Joplin



Janis, la donna apparentemente forte e decisa e quella dolce e tormentata. Janis, quella disinibita e libera e quella perseguitata dalle insicurezze fuori dal palco, quella che in realtà si sentiva terribilmente sola. Janis, che ha lasciato tutti a bocca aperta, senza fiato, con la sua voce. Una donna che nella musica e nel blues ha visto l'unica via d'uscita ai suoi tormenti, ma che infine non li ha mai veramente superati. Janis che stava bene se cantava, se ballava libera sul palco, ma giù dal palco poi era un'altra storia. Janis, intensa come nessuna, arrabbiata e soave, che tutto diceva, in un sussulto celato evidente. Janis, persa tra dipendenze che l'hanno portata alla morte. Janis che ancora vive con la sua musica e che probabilmente tutto questo amore non se l’è mai nemmeno immaginato.
Janis è nata in un posto che con lei proprio non c'entrava nulla. Port Arthur, in Texas, era praticamente immersa nel petrolio. Il razzismo e la violenza erano ovunque e persino la sua famiglia con lei non c’entrava niente anche se in modo diverso rispetto alla città che la circondava. Certo, da bambina era felice: era la maggiore di tre figli e primeggiava fin da allora con il suo carattere irriverente. I genitori erano cristiani conservatori e tentavano in qualche modo di addolcire e tenere a bada la sua indole, ma non ci riuscirono mai. Già da piccola aveva la tendenza a voler essere la migliore dei tre, a tenere l’attenzione su di se, forse perché temeva di perdere l’affetto dei suoi genitori o forse, si, forse solo per carattere. Poi, quella vivace bambina è cresciuta ed è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre. Bullismo, feroce bullismo. Forse molti non lo sanno, ma Janis, fin dall’inizio del liceo ne ha passate di tutti i colori a causa di persone non degne di essere chiamate tali. Quel che le è capitato, se l’è portato dietro per tutta la vita, fino alla fine.
Insensato, crudele, bullismo di piombo. Nei primi anni di liceo la giovanissima Janis, ingenua, fanciullesca, tentava di farsi accettare comportandosi in un modo che non le apparteneva. Tentava di piacere agli altri. Questo forzato adattamento però la bruciava dentro, perché lei era nata per sconvolgere, per essere libera, onesta fino al midollo. Trattenere dentro di se la sua voglia di libertà, la sua vivacità incredibile, tutta la sua strabordante energia, la stressò talmente tanto da iniziare a risentirne anche fisicamente. Iniziò ad avere problemi di peso e il poco respiro le fece esplodere come sfogo una terribile acne. E così… ovvio no? I tanti stronzi e le tante stronze del caso, avevano ora qualcosa a cui appigliarsi perché loro, come tutti i bulli, ignobili, non potevano accettare che una ragazzina in piena fase di sviluppo avesse i brufoli e qualche chilo in più. Quei coglioni – scusate i francesismi ma quando si parla di queste cose ci stanno eccome – la attaccavano costantemente, continuamente, senza un briciolo di tregua. Per Janis fu un periodo talmente nero, quello del liceo, da essere ricordato, storicamente, come “la persecuzione di Janis”, pensate un po’. Lei era fuori da ogni schema, aveva un’intelligenza superiore alla media e questo suo essere migliore, unito agli sfoghi da stress, la resero la “preda perfetta” per queste bestie senza senso. Janis venne distrutta, calpestata in tutti i modi possibili e immaginabili, completamente disfatta, umiliata; avevano nei suoi confronti l’ossessione – naturalmente immotivata – di cogliere ogni singola occasione per tentare di annullarla. Pura cattiveria. Visto che al tempo non era ritenuta “abbastanza bella”, i ragazzi che non la insultavano la scansavano e lei, a forza di colpi, cominciò ad incazzarsi sul serio. Da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. Si liberò e mostrò a tutti la sua vera personalità, ma lo fece prendendo una strada che al tempo credeva fosse l’unico modo per venire fuori da quell’inferno. Si avvicinò a dei teppisti che inizialmente non la accettarono perché era una ragazza, ma lei si impose ed esplose come un uragano. Dall’isolamento totale e assurdo al quale era stata sottoposta, divenne il perno di questo gruppo di casinisti ed era proprio lei la più caotica. Non aveva nessun freno, era volgare come nessuna ragazza a quei tempi avrebbe mai nemmeno pensato di essere, aggressiva, estrema. Fece colpo su di loro proprio per questo, perché non avevano mai visto una ragazza così. Era una cosa fuori dal comune, soprattutto a quei tempi. Passavano le loro serate nella più totale incoscienza, ubriacandosi fino allo stremo, facendo uso di droghe d’ogni tipo, facendo sesso, a volte, senza mai intrattenere rapporti sentimentali, si divertivano nei modi più distruttivi ed erano gli unici beatnik della città. Con questa compagnia di pazzi, Janis imparò in parte a volare e in parte a cadere, ma perlomeno al liceo smisero di torturarla perché era in qualche modo protetta. Fu in quel periodo che iniziò ad ascoltare Bessie Smith, che per lei restò praticamente un’ossessione per tutta la vita. A lei, in quel periodo, sembrò che le cose andassero meglio, ma poi tornò nella solitudine quando i ragazzi della sua compagnia, più grandi di un anno, si diplomarono e i mostri tornarono a saltarle addosso. Iniziarono a sputarle addosso nei corridoi, la chiamavano puttana lanciandole addosso monetine e “amante dei negri” poiché s’era schierata con fermezza contro il Ku Klux Klan. Di tutto e di più. Una volta terminato il liceo, Janis si iscrisse all’Università di Austin. Molti la ritenevano irresistibile, sexy ed affascinante, ma c’era sempre qualcuno che la prendeva di mira, fino ad eleggerla “uomo più brutto del campus”. Ci rimase talmente male da abbandonare gli studi. Durante l’Università però iniziò a cantare bluegrass, accompagnata da un paio di musicisti e molti iniziarono a notare il suo talento in quello che veniva chiamato “The Ghetto” (il campus). Sempre in quel periodo iniziò ad esibirsi al “Threadgill’s” di Austin, un locale grazie al quale si creò un grande seguito. Chet Helms, un personaggio noto all’Università, fece amicizia con lei e decisero di partire insieme per San Francisco, città nella quale – in seguito – Chet diverrà un leggendario organizzatore di eventi. Viaggiando insieme a Janis, Chet ne scoprì la grande intelligenza, si illuminò di fronte a lui la sua mente brillante, nascosta sotto strati di trascuratezza e tutto ciò lo fece innamorare. Si fermarono anche dalla madre di lui durante il viaggio, ma vennero sbattuti fuori casa dopo poco, alla prima raffica di bestemmie della Joplin. Dopo cinquanta ore, finalmente arrivarono nella bella Frisco, passarono per North Beach e subito dopo Chet la portò ad esibirsi al “Coffee & Confusion” nel quale – con quattro brani cantati a cappella – ricevette un’ovazione esplosiva da parte del pubblico, racimolando anche qualche soldo. Janis iniziò poi una relazione con una ragazza afroamericana, continuando però a stare anche con Chet, con il quale andò a vivere in un palazzo vittoriano a Haight – Ashbury. Solo due mesi dopo però, nell’inverno del ’63, i due si lasciarono e lei iniziò a frequentare sempre più donne. Nel frattempo, il movimento beatnik si affievolì e il folk, che si trasformerà poi in blues e rock, prese piede come colonna sonora della protesta hippy. Iniziò poi a frequentare un giro di persone tossicodipendenti e i suoi abusi aumentarono sempre di più. Al tempo soffrì spesso la fame: si manteneva solo con qualche lavoretto saltuario e con il sussidio di disoccupazione, ma la sua situazione economica era davvero disastrosa. Non riusciva a pagare le bollette e spesso, si trovava con gli ultimi beatnik per andare a rubare generi alimentari, motivo per il quale fu anche arrestata nel ’63. Poi successe qualcosa di buono. C’era un posto bizzarro, chiamato “Teatro Magico per Soli Folli”, in cui si radunava al tempo tutta quella che poi divenne la scena psichedelica, una cinquantina di persone in tutto, tra cui Janis. È da lì che cominciarono a girare le voci sul suo innato talento e fu da quel luogo che i discografici vennero a conoscenza della magia della sua voce, cominciando così a “darle la caccia”. La cercarono ovunque e nel ’65, dopo un periodo passato dai suoi genitori per riprendersi dai troppi eccessi, Travis Rivers, con il quale ebbe una storia, le disse che un bel gruppo, i Big Brothers, cercavano una cantante, così la coppia si mise in marcia attraversando il deserto del New Mexico. Nel frattempo, Chet aprì un locale che divenne poi leggendario, l’ “Avalon Ballroom”  e fu lì che Janis iniziò ad esibirsi con il suo primo vero gruppo, i Big Bother & The Holding Company, nel 1966. Chet si occupò del booking, si assicurò che la band percepisse sempre un caché decente, ma quando la band ingranò, Janis lo licenziò e anche se continuarono a suonare all’Avalon, si trovarono sempre più in difficoltà economiche, perché senza di lui non avevano mai la certezza di prendere qualche soldo, anche se la loro fama continuò ad aumentare, poiché ovunque andassero, il pubblico rimaneva abbagliato dalla voce della giovane artista. Nel ’67 infine ebbero la loro grande occasione. Si esibirono a un raduno di massa della controcultura chiamato “Be-In” e anche lì, di fronte a una folla che sembrava non avere fine, Janis ipnotizzò ogni singolo componente del pubblico. La scena del tempo divenne meravigliosa: le band erano un corpo e un’anima unica, si aiutavano reciprocamente e così era anche per i manager, che non si facevano la guerra, bensì collaboravano per fare in modo che ogni band avesse delle possibilità. C’era amicizia, un senso comunque di vero amore per la musica che dalla terra nasceva per arrivare in ogni dove. La band continuò però a restare in ristrettezze economiche e questo li portò a tornare in California, a Los Angeles. Continuarono a suonare il più possibile, fino a che una sera, si ritrovarono ad aprire un concerto al grande Chuck Berry, che rimase assolutamente impressionato dall’unicità di Janis Joplin. Da lì in poi le cose si misero davvero bene. La band iniziò ad avere enorme successo, partecipando al “Monterey Festival” che diede loro la reale celebrità. Per dirne una, nello stesso festival, ebbe la sua consacrazione americana anche Jimi Hendrix, al tempo conosciuto più che altro in Inghilterra. Nel 1968, a New York, i Big Brother trovarono un nuovo manager, Albert Grossman e iniziarono a lavorare al loro primo album “Cheap Thrills”, che in un breve lasso di tempo raggiunse un successo fenomenale. Persino Aretha Franklin si innamorò della voce di Janis, tanto da dichiarare che la Joplin era “la più potente cantante emersa dal rock bianco.” Il lavoro incessante e gli eccessi però, si fecero sentire e ad un certo punto Janis e The Big Brother, esausti, finirono per prendere strade diverse e lei decise di continuare come solista. Nel ’69 iniziò a suonare con una band di turnisti, la Kozmic Blues, ma il loro concerto a Memphis fu un flop, poiché il pubblico era composto perlopiù da un’esigente platea afroamericana che non rimase entusiasta della sua/loro performance. In quel momento, Janis Joplin ricevette l’ennesima bastonata, stavolta da parte della stampa. Furono in particolare due riviste ad attaccarla, vale a dire il Rolling Stone e Playboy. La criticarono pesantemente e l’insicurezza di Janis tornò a farsi sentire, nonostante tante altre testate avessero recensito l’evento positivamente. Si lasciò influenzare troppo dai media, cercò di compiacerli, proprio come faceva nei primi anni di liceo e questo ebbe un influsso negativo su di lei e anche a livello professionale. Era oramai una rock star, realizzata, senza più problemi economici, amata dal grande pubblico, ma c’era sempre qualcosa che sembrava per lei non essere abbastanza. Dava tutto, corpo ed anima, al palco, fino allo sfinimento. Non riuscì nemmeno ad avere una relazione stabile, perché era sempre, costantemente, a lavoro per dare di più, sempre di più, perché la sua fragilità la portò a pensare che doveva per forza piacere a tutti, che non poteva esserci critica, perché se non piaceva a qualcuno, per lei, c’era qualcosa di sbagliato in quel che faceva. Una cosa assurda naturalmente. Iniziò sempre più a distaccarsi dalla realtà. Voleva forse, con tutto quell’incessante lavoro, combattere anche quei brutti momenti del suo passato nei quali era stata demolita per anni. Anche se tanti la definivano l’artista che aveva dato nuova vita al blues, Janis non si sentì mai completamente soddisfatta. Nello stesso anno poi, l’evento epocale: Woodstock. Davanti a quattrocentomila persone, la sempre solare Janis era oramai distrutta dal troppo lavoro e dalle dipendenze e certamente non diede il meglio di se. Di ritorno a New York, partecipò all’Ed Sallivan Show e dopo la puntata, si diresse con i suoi musicisti allo storico Max’s Kansas City, un night club ristorante che all’epoca era punto di ritrovo per miriadi di artisti, tra i quali Salvador Dalì e Andy Warhol, con i quali si intratterrà. Quella sera conobbe anche la modella ed attrice Edie Sedwig, portata al successo proprio da Warhol e la loro cameriera, per quanto possa sembrare strano a dirsi, fu la futura Blondie, Debby Harry. La situazione sembrò risollevarsi un po’. Agli inizi degli anni ’70 Janis licenziò “i freddi” Kozmic Blues e ricominciò ad esibirsi con i Big Brother, che nonostante tutto la riaccolsero a braccia aperte. Vi fu un tour europeo a dir poco trionfale, ma in realtà Janis non aveva intenzione di rimettersi con la band, non ufficialmente. Proprio per questo i Big Brother continuarono a ragionare come band indipendente dalla Joplin e fecero un provino a un’altra cantante, scatenando un’ingiustificabile sfuriata di gelosia da parte sua. Alla fine di tutte queste peripezie, riuscì a mettere insieme una band eccezionale: la Full-Tilt Boogie Band. Fu con questi meravigliosi musicisti che prese vita “Pearl”. Kris Kristofferson (attore, cantante e musicista country), compose per loro l’immortale “Me and Bobby McGee”. Esordirono con la nuova formazione a una festa degli Hell’s Angels (un’associazione motociclistica diffusa tuttora in tutto il mondo, caratterizzata dall’amore per la Harley Davidson e considerata organizzazione criminale negli Stati Uniti). L’album venne prodotto da Paul Rothchild (lo stesso produttore del disco omonimo dei Doors) e fu registrato ai mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles. Per il compleanno di Jack Jackson, il proprietario del Threadgrill, in cui aveva iniziato la sua carriera ad Austin, Janis fece un concerto a sorpresa e Jackson notò subito quanto “la sua piccola” fosse cambiata. Dichiarò che nonostante avesse ancora una risata viscerale, non era più lo spirito inquieto e sempre di ottimo umore che conosceva. Era diventata quasi cinica, isolata da chi avrebbe potuto darle un aiuto, circondata solo da persone che le stavano accanto per comodo, persa nella frenesia e distaccata dalla realtà. Era terrorizzata, viveva per la musica e per il pubblico e temeva costantemente di perdere tutto. Arrivò a pensare addirittura di non saper cantare, un’idea completamente fuori di testa, senza senso. Il 12 agosto 1970, Janis Joplin tenne il suo ultimissimo concerto, all’Harvard Stadium. Fu proprio dopo quel concerto che si rintanò a Los Angeles per incidere la versione definitiva di “Pearl”, ma il 4 ottobre del ’70, Janis morì di overdose, a soli ventisette anni. “Pearl” uscì dopo la sua scomparsa, privo della parte vocale in uno dei brani, “Buried Alive”. Si, proprio “Buried Alive”, sepolto vivo; una coincidenza che non passò inosservata. Le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico, la sua musica, restò nell’eternità.

Ora, dopo avervi umilmente raccontato parte della storia di Janis, vorrei lanciare uno spunto di riflessione e il mio messaggio lo invio a tutti quei ragazzi e ragazze che si trovano a combattere l’isolamento, la calunnia, la cattiveria gratuita, la violenza fisica e psicologica. Ragazzi, Janis era un talento eccezionale, aveva una mente eccelsa e la sua musica è rimasta nella storia e nella storia resterà per sempre, eppure anche lei è stata presa di mira e massacrata. Non ha mai avuto la forza di reagire e nonostante la sua apparente forza e il suo essere ribelle, non ha saputo ribellarsi a quello che poi, infine, l’ha uccisa. Prendete l’esempio di questa donna e pensateci su. Se avesse reagito, se fosse riuscita a ribellarsi nel modo giusto, se non avesse imboccato la strada sbagliata, se non avesse voluto compiacere per forza gli altri sempre e comunque, se avesse incanalato la sua rabbia solo nella meravigliosa musica che faceva, trasformandola ancora di più in magia, senza devastarsi per incertezze assurde, per un buio dal quale non è mai uscita… ora sarebbe ancora qui probabilmente. Non permettete mai, a nessuno, di soffocare quello che siete. Non permettete al bullismo di rovinare voi e la vostra vita. Reagite, combattete la stupidità con la vostra vivacità, con la vitalità, con la forza delle persone che amate e che vi amano e con lo slancio del vostro sguardo verso il futuro, perché non dovete permettere che il futuro sia creato dai bulli. Il futuro lo devono creare le persone vere, quelle che hanno un’anima sul serio e possono arrivare a cambiare, ognuno con la propria goccia, quell’ancora – nonostante tutto - meraviglioso oceano chiamato mondo.


"E ogni volta ripetevo a me stessa che non potevo sopportare questa sofferenza Ma quando tu mi tieni fra le tue braccia, lo canto ancora una volta."


domenica 10 dicembre 2017

Bob Marley: prayers


Credo che tutti - o almeno me lo auguro - conoscano "Redemption Song" di Bob Marley. Questa poesia, questa canzone, questo inno alla libertà, si è fiondato nelle anime delle persone fin da subito e li è rimasto. È uno di quei capolavori immortali per i quali non ci sono "se" e non ci sono "ma", perché una persona può amare qualsiasi genere musicale, può essere aperta o meno ad altri generi, ma questo pezzo è intoccabile, indiscutibile, musicalmente ed umanamente elevato. Bob Marley la scrisse intorno al '79 e già da un po', purtroppo, gli era stato diagnosticato il cancro che lo portò poi a mancare. Soffriva già dei dolori legati alla malattia e in effetti, in tutto l'album ("Uprising", pubblicato nel 1980) il tema del dolore è sempre lì, ma al tempo stesso c'è speranza, c'è luce nel buio; come se ci fosse sempre, in ogni caso, un nuovo inizio. È un testamento spirituale ed artistico quello dell'ultimo album di Marley (e soprattutto lo è “Redemption Song”) ed è considerato tra l'altro uno dei tre più importanti nella sua carriera (con "Natty Dread", 1974 e "Exodus", 1977).  È evidente in "Comin in from the cold", in cui Bob afferma "In questa vita, dolce vita, noi veniamo dal freddo" ma continua dicendoci "È a te che sto parlando. Perché hai questo aspetto triste e desolato? [...] No, niente paura." Al di là di tutto, del sistema a cui fa riferimento, del caos, del suo stesso dolore, Bob ci dice di non avere paura, perché anche questo in qualche modo è un inno alla libertà, quando sottolinea - parlando del sistema e ponendo un quesito a chi ascolta senza mezzi termini - che siamo noi a decidere, che siamo noi a dover essere liberi, mentalmente e spiritualmente. Riflette Bob: "Bene, anche l'uomo più grande è stato un semplice bambino", un po' come ad esprimere il suo concentrato di emozioni di una vita che gli ripassa davanti, ma anche un modo per dire alle persone di ricordarsi di quell'innocenza, di quella libertà, del gioco, della creatività, che fanno parte dell’infanzia; consiglia di non perdersi e di mantenere sempre vivo quel bambino. Perché essere tristi? domanda Bob: "Non lo sai che quando una porta è chiusa molte altre sono aperte?". In "Real situation", invece, fa una purtroppo attualissima analisi sulla situazione globale, la guerra, i potenti, la tristezza di non riuscire a fermare la violenza diffusa. Di una cosa però si raccomanda. Una cosa che al giorno d'oggi è da ripetere e ribadire, forse ancor più che in passato: "Verifica la situazione reale", sii cosciente di quel che accade davvero e non limitarti alle primissime e più immediate fonti di informazione, perché lo sappiamo come funzionano. Anche qui però c'è una frase, quasi un outsider rispetto al resto del testo, che sembra essere un pensiero detto ad alta voce per caso, ma che ci riporta ancora all'importanza del bambino: "Una volta uomo e due volte bambino". Perché bambini si ritorna a un certo punto della vita, certo, ma - io credo - anche e soprattutto perché se abbiamo gli occhi, lo sguardo, l'ascolto, aperto al mondo con la curiosità e la forza di un bambino, forse qualcosa la possiamo cambiare. "Bad card" sottolinea ad esempio la sua voglia di vita, di musica, di alzare il volume, nonostante quello che gli stava accadendo e nonostante la situazione che vedeva, valutava, situazioni in parte personali e in parte globali. "We and Dem": "Noi sappiamo come siamo noi e come sono loro". Alla fine è questo che fa la differenza e chi sparge sangue pagherà. "Qualcuno dovrà pagare per il sangue innocente che loro versano ogni giorno, oh bambini, attenti alla mia parola. È quello che dice la Bibbia, noi sappiamo come siamo noi e come sono loro e potremo risolverla". Ancora, la speranza della pace e la fiducia nei bambini e in un futuro migliore. È un elenco della cruda realtà per cui l'uomo ha distrutto tutto, ha sbagliato tutto, ma c'è comunque la speranza di vedere tutto il male scomparire ed è anche il riconoscere, implicito, della presenza ancora viva di una Bellezza che volendo, potrebbe salvare l'umanità, divisa tra chi distrugge e chi crea. La frenesia è oggetto invece di "Work". Lavoro, lavoro e lavoro, ma anche qui Bob riconferma che uniti, possiamo farcela a cambiare tutto quello che non va.  Stupendo anche il testo di "Zion Train", che semplicemente vi inviterei a leggere tutto. È una preghiera, è un'incitazione, è uno sguardo attento alla luce e una presa di coscienza, così come un invito, perché "La saggezza è meglio dell'argento e dell'oro". “Pimper’s paradise”, un pezzo di denuncia nei confronti della prostituzione, della criminalità e direi anche contro la superficialità in tutte le sue forme. La track list continua con l’amatissima “Could you be loved”, che esorta le persone a pensare con la propria testa, a non farsi schiacciare, a pensare che ognuno di noi ha il diritto di vivere ed essere amato, perché “l’amore non ci lascerà mai soli” e anche quando le cose vanno male è fondamentale vivere e non sopravvivere. In “Forever loving Jah”, un testo spirituale, Bob innalza una preghiera, che come tale è piena di positività, perché non importa cosa succeda, lui e con lui quelli che hanno Amore resisteranno ed appunto, ameranno incondizionatamente. Ed eccoci al punto da cui siamo partiti: “Redemption Song”. Letteralmente “La canzone della redenzione”, è in realtà – fin dal titolo – molto di più. “Redemption” non significa infatti solo la redenzione nel senso di “purificazione spirituale attraverso una vita giusta”, bensì “liberazione” e “Song”, non significa solo “canzone”, bensì “Canto”, una preghiera collettiva. In “Redemption Song” ci sono riferimenti storici e biblici, che accompagnano il testo in un’auto crescita tale da renderla un vero canto oltre la storia ed oltre le epoche. È musicalmente diversa per Bob, non ha quasi niente a che vedere con il reggae e non penso proprio che la cosa fosse casuale. Bob voleva rendere “Redemption Song” un messaggio universale, che sarebbe arrivato a tutti, non solo a chi seguiva lui o il genere. E ci è riuscito. Eccome.

"Gli antichi pirati, si, mi hanno rapito,
venduto alle navi dei mercanti,
(pochi) minuti dopo avermi preso
dal pozzo senza fondo (in cui mi ero rintanato).
Ma la mia mano è diventata forte,
attraverso la mano dell’Onnipotente.
Andiamo avanti in questa generazione. Trionfalmente.
Non aiuteresti a cantare questa canzone,
questo canto di liberazione?
Perché tutto ciò che ho sempre avuto,
(sono questi) canti di redenzione.
Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale,
nessuno, se non noi, può liberare le nostre menti.
Non abbiate paura dell’energia atomica,
perché nessuno di loro può fermare il tempo.
Per quanto ancora dovranno uccidere i nostri profeti
mentre noi stiamo lì in piedi a guardare?
Qualcuno dice sia solo un assaggio.
Dobbiamo adempiere al Libro.
Non aiutereste a cantare questo canto,
questo canto di liberazione?
Perché tutto ciò che ho avuto,
sono questi canti di redenzione."



lunedì 26 giugno 2017

Flacopunx e i "Coleotteri" di Flaco


Fabrizio Castelli, per tutti Flaco. Per vent'anni ha contribuito a scrivere la storia del punk rock italiano con i Punkreas, con la sua inconfondibile chitarra, con la sua vena da cantautore (scrivendo alcuni dei pezzi più amati della band) ed anche come punto di riferimento, perché lo è sempre stato per tutti. Ora volta pagina e lo fa con il suo stile inconfondibile. Il nuovo progetto di Flaco, i Flacopunx, ha esordito con il primo album "Coleotteri" alla fine del 2016. Ad accompagnarlo in questa nuova avventura, naturalmente, ottimi musicisti (Checco Faini alla voce, Mattia Foglia al basso e ai cori, Matteo Campana alla chitarra, Dario Magri alla batteria e ovviamente il nostro Flaco, alla chitarra e cori. Ah, scusate, c'è un "sesto uomo", Carlo Tattoo, di cui parleremo poi...). Flaco è ancora lì, con la sua inseparabile chitarra, con i suoi fantastici testi, con la sua voglia di fare e con la grinta di chi ci crede fino al midollo. È un album in cui l'identità tutta di Flaco si vede, si sente, in una fusione nitida tra passato e presente, con uno sguardo alto verso il futuro e l'orizzonte. Flaco è un autore che ama le ispirazioni e le contaminazioni, che dice - con grande umiltà - di ritenersi fortunato quando riesce a distillare "una goccia di profumo" da quel che gli capita, dal caos attorno, dai libri che legge, dai film che vede, dalla vita, sua e del mondo. Quando lo guardi suonare vedi la stessa passione che aveva dieci anni fa, quindicianni fa... sapete, non è di quelli che dopo un bel po' di anni che suonano perdono il gusto perché "si abituano". No, Flaco non si abitua, si diverte, fa divertire ed è pieno di passione. Propone tematiche non da poco, il più delle volte, ma lo fa con ironia, vivacità, senza appesantire nulla. Gli è sempre piaciuta l'idea di portare testi da cantautore nel punk rock e ci è sempre riuscito. Se dovessi scegliere un brano che mi ha colpito più di tutti gli altri, in questo nuovo lavoro, è "Dodici ore". Il testo di "Dodici ore" è qualcosa che va al di là del punk, al di là del rock, al di là di tutto, perché è un brano che qualsiasi genitore può sentire suo ed è un brano che anche io che non sono genitore posso sentire mio. E mi commuove, perché i bambini, i ragazzi, sono il futuro e lo sappiamo. Anche chi non è genitore e semplicemente si guarda attorno, un po' di preoccupazioni le ha di certo e spera, pensa, vorrebbe trasmettere il meglio che ha a chi è più giovane, piccolo, bambino. Le tematiche più varie attraversano l'album in quella che Flaco stesso definisce una metamorfosi, personale e musicale, dunque a questo punto, direi di parlarne con lui...

Flaco, il coleottero è proprio un simbolo di trasformazione no? e se si pensa al testo della canzone che poi da il titolo all'album ("Coleotteri", appunto), è una sorta di presa di coscenza, di superamento di una fase di cambiamento, emozioni miste e probabilmente una messa a fuoco sul futuro...?

"Bhe, più del coleottero, che per me rappresenta il ricordo e il memento della mia animalità, è lo scarabeo egiziano a simboleggiare la rinascita e per questo l'ho scelto come simbolo. Caso ha voluto che mi trovassi ad affrontare un cambiamento personale importante (la fine del rapporto coi Punkreas) nello stesso periodo in cui meditavo sulla necesità di uscire dalla bolla ideologica tipica della guerra fredda. Ho cercato per quanto possibile di far coincidere le mie trascurabili vicende biografiche con più importanti cambiamenti geopolitici e storici."

I testi e la musica sono tutti tuoi, ma il sesto uomo, Carlo "Tattoo" Ferrè, mi dicevi che è stato fondamentale...

"Il mio vecchio amico Carlo ha anche fornito spunti importanti dal punto di vista musicale, suggerendo arrangiamenti e soluzioni a cui non avevo pensato. Tuttavia, per quanto mi riguarda, il suo massimo merito sta nell'avermi convinto che potevo scrivere qualcosa di nuovo e di valido e nell'aver sostenuto il mio sforzo in un momento in cui ero piuttosto sfiduciato. Non penso che ce l'avrei fatta senza il suo appoggio e la sua fiducia nelle mie qualità."

"Gorky". È ispirata al romanzo di Martin Cruz Smith?

"No, in realtà è più ispirata a un noto saggio di Hobsbawm intitolato "Il secolo breve", in cui lo storico britannico tratteggia i caratteri della società europea dal 1914 al 1991, mettendo bene in rilievo il potere evocativo della rivoluzione russa su tutta la produzione intellettuale e politica del '900. Solo che l'.U.R.S.S. non c'è più e prima o poi ce ne renderemo conto anche in Italia (mai disperare). Casualmente in quel periodo ho rivisto un mediocre film, penso tratto dal libro e intitolato "Gorky" ed ho pensato che il parco più famoso di Mosca fosse perfetto per il titolo."

Andando in ordine beh, che dire... "Codice rosso". Le tematiche sono tante. Cosa pensavi o cosa hai pensato mentre scrivevi il testo di questo pezzo?

"Ho pensato che non potevo sopportare che una cultura le cui ultime produzioni intellettuali degne di questo nome e libere dal controllo religioso risalgono al XII-XIII secolo d.C., venisse a infettarci con le sue fantasie teologiche. È stata dura "liberarsi della Chiesa": sono seviti Cartesio, Kant, gli Illuministi e poi Nietzsche, Marx, Freud. Tutto questo percorso di secolarizzazione e relativizzazione del sentimento religioso l'Islam non l'ha affrontato. Usano la tecnologia occidentale, le armi, i computer e le droghe occidentali, ma li innestano utilitaristicamente su una cultura ingenuamente religiosa con tratti di violenza per me inaccettabii. Non parlo solo dei cosiddetti martiri che ammazzano bimbe di otto anni ai concerti pop. Parlo anche di un sistema patriarcale che tiene le donne sotto il giogo maschile, impedendone l'emancipazione. Capisco che uno nato e cresciuto nell'insegnamento islamico non possa pensare altrimenti, ma è compito suo evolversi e io non gli devo nessuna particolare comprensione né tolleranza."

Come immagini il futuro? In tutti i sensi, per questo progetto e anche in generale...

"Quanto al progetto ovviamente aspiro al massimo di successo. Dirlo ora che non mi si fila nessuno fa un po' ridere, ma ho la convinzione di essere semplicemente in anticipo sui tempi e basterà avere la pazienza di aspettare per capire chi ha ragione. In generale, invece, penso che le differenze culturali e le rigidità che separano popoli e nazioni siano destinate all'estinzione, ma per questo temo che ci vorranno secoli. La tendenza è inarrestabile, ma le resistenze sono molto forti."

"La canzone di Adamo"? Mi chiedevo... a chi si rivolge (se si rivolge a qualcuno)?

"Adamo non è altri che Adam Smith, noto economista sostenitore del liberismo e dell'automatica capacità delle leggi di mercato di operare per il meglio (la cosiddetta "mano invisibile"). Si rivolge a tutti quelli che negli ultimi decenni hanno sostenuto i miracoli del libero mercato e spinto per privatizzazioni e deregulation. La verità è che il nostro sitema di produzione, se non controllato e direzionato verso un'equa distribuzione, tende naturalmente ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri. Fino al punto in cui i disagi dei poveri sono così forti da mettere a rischio il patto sociale. Ci stiamo avvicinando."

E poi c'è "Bubblegum". È una denuncia e questo è abbastanza evidente e forse c'è anche del timore per il futuro. Il messaggio è quello di non farsi prendere da tutto ciò che ci può in qualche modo togliere umanità e renderci solo... gomma da masticare?

"La tecnologia digitale e la biogenetica portano con sé minacce di una grave disumanizzazione. Non vedo soluzioni private efficaci. È un movimento storico e collettivo, perciò non basta "astenersi". Temo che tra qualche anno si passerà dalla miocentesi alla selezione preventiva del patrimonio genetico ai fini della riproduzione, che a quel punto non sarà nemmeno più una ripoduzione sessuale. Ci penserannno i medici a far incontrare ovuli e spermatozoi selezionati. Tecnicamente ci siamo già molto vicini. Penso che contro questa tecnicizzazione del bios, della vita, risorgeranno fanatismi religiosi e superstizioni violente. Al momento non trovo un posto confortevole né da una parte né dall'altra. Sono nato umano e credo che da umano morirò. Ci tengo."

Adesso la mia preferita. "Docici ore". Racconta tu, è tanto bella che preferisco sia solo tu a parlarne.

"Bhe, questa è proprio una canzone scritta per i figli. Innanzitutto i miei, ma poi per i figli in generale. Molti artisti a un certo punto della loro vita sentono il bisogno di lasciare un messaggio in bottiglia alle future generazioni. Questo è il messaggio che sento di poter lasciare io. In sintesi: non aspettarti che il passato e nemmeno il presente abbiano una particolare stabilità, soprattutto oggi. E non dimenticare che se il presente è sempre e comunque il frutto del passato (e per questo bisognerebbe studiare la storia prima e più di qualsiasi altra disciplina, scienza compresa), tuttavia il futuro è sempre aperto, "unwritten" come diceva Joe Strummer. Almeno finché resteremo "imprevedibili esemplari umani". Non ho - purtroppo o per fortuna - molte altre verità da consegnare ai miei figli."

Dici che 'siamo quasi fuori dalla "Zona d'influenza" ', quella che avrebbe portato all'americanizzazione generale e globale... come la intendi? Perché secondo te saremmo quasi fuori da questa zona d'influenza?

"Perché il secolo americano è finito. Oggi altri attori importanti si affacciano e prendono posto nelle dinamiche culturali, economiche, politiche. Cambiano i rapporti di forza e l'America, da Impero, sta lentamente - ma io penso inesorabilmente - trasformandosi in uno dei tanti centri di potere. L'elezione di Trump, ben lungi dall'essere un incidente di percorso, mi sembra il sigillo che gli americani stessi hanno messo sulla loro oscura consapevolezza di aver terminato la loro parabola imperiale iniziata con l'intervento durante la prima guerra mondiale. Ci vorrà ancora molto, sia chiaro. Dopotutto hanno qualcosa come quattordici portaerei e controllano tutti gli oceani, ma questa è la tendenza."

Fermiamoci un attimo. Se tu dovessi pensare a qual è la canzone che hai scritto alla quale sei più legato in assoluto... riesci a individuarne una sola?

"Sono particolarmente legato a "Cuore nero". Forse perché sia musicalmente che a livello di testo è un po' anomala. Sicuramente perché nel video la protagonista è mia figlia Melissa, all'età di otto anni, vestita di bianco e coi capelli al vento: quanto di più vicino alla pura innocenza e alla bellezza in sé, la bellezza in quanto tale. Scrivere, registrare e dare un'immagine a quella canzone è tata un'emozione unica e particolare."

In "Scura", oltre che parlare delle guerre, dei massacri, di tutta quella povera gente che scappa e non sa più da che parte andare... sembra tu abbia perso un po' la speranza che le cose possano migliorare in futuro. È un'impressione o è così...?

"No, non direi. Ho un rapporto problematico con quella canzone. Mi piace musicalmente – c'è anche lo zampino di Carlo – ma il testo è stato scritto sull'onda dell'emozione. L'emozione è importante, ma in politica serve a poco e anzi, rischia di essere dannosa. Sull'immigrazione va fatto un discorso non ideologico e non emotivo. Accogliere e respingere in blocco mi sembrano ambedue reazioni emotive poco sensate. Se dovessimo prendere decisioni in base alla pura emotività, le tragedie del mare ci porterebbero ad aprire tutte le frontiere senza distinguo, ma gli orribili attentati di cui si sono macchiati gli integralisti ci spingerebbero in un direzione opposta altrettanto irrealistica e insensata. Direi che l'emozione va bene per una canzone, ma è bene che resti confinata lì."

Quali sono i tuoi ascolti adesso e cos'è cambiato rispetto a vent'anni fa?

"Non molto a dire la verità. A parte il fatto che leggo sempre molto più di quanto ascolto, non mi sembra che negli ultimi dieci anni sia uscito qualcosa di indimenticabile. L'ultimo gruppo cui concederei lo statuto di "irrinunciabile" sono i RATM e il loro disco migliore è del 1992. In compenso sono costretto, sempre grazie ai miei figli, a spararmi pesanti dosi di rap italiano contemporaneo e a sentirmi questi ragazzini che si dipingono come pericolosi criminali perché hanno tre grammi di fumo in tasca. Sopporto e ogni tanto storco il naso, anche per dargli la soddisfazione di una disapprovazione. È importante che i figli si sentano sostenuti e compresi, ma è altrettanto importante che ogni tanto io dichiari la mia totale estraneità al loro mondo, musicale e non. Se no che ci sto a fare?"

"1861". È un anno in cui sono successe un sacco di cose storicamente parlando. Nel pezzo sembri fare riferimento più allo "spegnimento", come lo definisci tu, di tutte quelle comodità e dell' "agio", se così possiamo chiamarlo, derivato dal boom economico, dall'arrivo anche qui del consumismo di massa e così via. Tutto ciò a causa delle/ della crisi, nazionale e internazionale e forse da un decadimento che sembri, almeno dal testo, ritenere naturale perché... "la storia si ripete"? Sembri poi riportare il discorso proprio a quell'anno, il 1861, in cui c'erano i primi segni dell'unione d'Italia, in cui è stata coniata la Lira... e in America al tempo stesso si formavano pian piano gli Stati Uniti e arrivava Lincoln come 16° presidente americano. Che mi dici riguardo a tutto questo?

"Bhe, hai già detto molto tu. L'Italia è nata in condizioni molto particolari, ultima tra le principali nazioni europee e tramite la fusione di un Nord e un Sud molto diversi e piuttosto ostili l'uno all'altro. Dopo la prima e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale abbiamo goduto di una rendita di posizione (strategica) particolare. Da noi la guerra fredda è stata piuttosto "calda", se consideri il terrorismo e le stragi di stato. Tuttavia eravamo importanti per le grandi potenze che facevano arrivare i loro aiuti. Oggi non è più così. O (ri)scopriamo il senso di una politica e un interesse nazionali o finiremo frantumati."

"Testata nucleare". Non c'è molto altro da dire, nel senso che già il titolo è una denuncia verso i potenti che minacciandosi gli uni con gli altri per le loro smanie, se ne fregano altamente delle persone.

"Sai, a volte l'impressione è che ai grandi progressi in campi come la tecnologia militare non siano corrisposti da adeguati aggiustamenti antropologici. Siamo sempre delle vecchie scimmie litigiose, ma invece dei bastoni oggi abbiamo le atomiche. La cosa è un po' inquietante."

Stai già scrivendo altri pezzi?

"Comincio in questi giorni a lavorare su delle tracce accumulate negli ultimi mesi. Vorrei uscire con un paio di pezzi nuovi entro fine anno. Vedremo."

Cosa augureresti alle nuove generazioni di musicisti e cosa alle nuove generazioni in generale?

"Ai musicisti non saprei. Tendo a considerarli una razza in via di estinzione dal momento che il digitale ha reso la musica tanto disponibile quanto insignificante, se non come sottofondo sonoro. Restano giusto gli adolescenti a ritenerla una parte importante della loro esistenza. Per tutti gli altri, l'augurio è di studiare e conoscere abbastanza il passato per non ripeterne gli errori nel futuro. Non è vero che la storia non serve a nulla e che tutto si ripete uguale a se stesso. Diciamo che gli insegnamenti della storia sono un po' più complessi di quelli della matematica e non possono avvalersi della sperimentazione per fare le verifiche necessarie. Quelle arrivano dalla storia stessa, con calma e non si possono produrre in laboratorio."


This is Flaco!

Flacopunx
Link:



"Testata nucleare" e "Dodici Ore" - Flacopunx:

 

lunedì 19 giugno 2017

La storia del cinema (parte 6): dal muto al sonoro, con Ford e Hawks

Dopo il cinema dadaista degli anni Venti, le avanguardie sostanzialmente morirono. Con l'arrivo del sonoro, delle nuove tecniche e tecnologie e con i maggiorati costi di produzione, le sperimentazioni artistiche si ridussero notevolmente fino a scomparire del tutto negli anni Trenta. Il cinema sonoro nasce infatti proprio intorno alla crisi del '29 e non a caso inizia ad essere una sorta di antidoto alla difficile situazione della società americana e non solo. Il cinema, che già con il muto aveva conquistato il grande pubblico, si rafforzò ulteriormente. E' un momento di evasione dalla realtà, da una quotidianità sicuramente difficile per le persone ed è questo il suo grande punto di forza, come era accaduto in precedenza per il muto. Il primo film sonorizzato (e si parla ancora di musica, non di dialoghi tra attori), fu realizzato dalla Warner, che sperava di risollevarsi dalla crisi in cui si trovava proprio introducendo questa novità.

Nel 1926 dunque, la Warner lanciò il primo film in sonoro ("Don Giovanni e Lucrezia Borgia"), accolto dal pubblico con enorme entusiasmo e Il successo di questa prima realizzazione la portò inevitabilmente a proseguire in quella direzione, fino ad arrivare l'anno dopo alla produzione di film con musica, suoni e parlato. Tutte le case cinematografiche iniziarono perciò a seguire l'esempio della Warner, dall'America all'Europa, portando alla definitiva scomparsa del cinema muto a favore di sempre più numerose produzioni in sonoro. Il periodo Roosvelt, dunque, coincise con una grande ripresa dell'industria del cinema americano, che si impose sempre di più a livello globale. Lo stampo hollywoodiano, con i suoi generi e le sue caratteristiche, diventò il vero punto di riferimento del settore. E' in questo periodo che la figura del produttore cinematografico diviene essenziale, perché è lui, il produttore, ad essere realmente a capo di tutto. Per quanto riguarda il resto del mondo e l'Europa appunto, nonostante l'influenza americana sia la più imponente, si fa strada anche la completamente diversa idea di cinema del mondo sovietico. I sovietici non hanno ancora la tecnica già presente da anni negli Stati Uniti quando iniziano a produrre in sonoro, ma vi si interessano soprattutto perché credono che la nuova tecnologia sia impiegata dagli americani nel modo sbagliato. Per i sovietici, gli americani puntano solo al gradimento del pubblico, mentre per loro, il miglior modo di elevare questa nuova tecnologia è quello di rappresentare la realtà così com'è. In Italia, così come nel resto d'Europa, arrivano pian piano entrambe le influenze, anche se quella americana continua ad essere la più influente. Due registi fondamentali nella storia cinematografica americana, furono John Ford e Howard Hawks.

John Ford
Il primo, per tanti anni si occupò di western con grande successo (vista anche la sua personale interpretazione del genere, spesso presentato con un'impostazione ironica e un linguaggio povero ma mai scontato). In un secondo tempo però, decise di evadere dai cliché del genere, dimostrando così un talento ben superiore a quello mostrato in tutti gli anni precedenti. Si inoltrò in generi diversi, cercando ispirazione nella realtà d'ogni giorno, negli accadimenti storici, nei drammi – spesso – della società, della gente. I suoi personaggi erano caratteristici, complessi e mostrarono al pubblico, con le sue storie, la sua personale visione della realtà, della vita e delle casualità che la stessa a volte pone, in positivo e in negativo. Il suo modo di fare film rende le storie quasi senza tempo, anche se poi il cinema di Ford divenne negli anni un punto di riferimento e certamente lo specchio di un'intera epoca. Il tutto con una grande attenzione per i dettagli.

Howard Hawks
Hawks invece lavorò in modo differente. Rappresentò l'altra faccia dell'americanismo, fu l'esempio perfetto del regista hollywoodiano e fu egli stesso produttore. Hawks rappresentò i costumi e le ideologie americane dagli anni Trenta ai Sessanta, produsse molto e si concentrò sulle trasformazioni che la storia portava. Ciò che più lo interessava erano gli aspetti più strani, inusuali e a tavolta umoristici della realtà. Non gli importava molto degli ideali. I suoi personaggi erano coraggiosi ed eroici, ma apparentemente disinteressati e le sue ambientazioni non avevano nulla a che fare con la cura del dettaglio che oramai miriadi di registi ritenevano fondamentale. Hawks non credeva nel cinema – spettacolo, disprezzava la tecnica e non se ne interessava più di tanto. Il suo intento era quello di raccontare, narrare attaverso personaggi, resi liberi di agire come meglio credevano. Nonostante questa "non curanza" per la spettacolarità e il dettaglio, il risultato è lo stesso. I suoi film sono comunque perfetti e raggiungono sempre il successo popolare, come se dietro ci fosse stato un lavoro preciso e paziente. E a quanto pare fu proprio questo il suo punto di forza.

Dopo aver realizzato nel 1928 il suo primo successo "Barbablù", la sua carriera trovò grande possibilità nella realizzazione di "Scarface", prodotto nel 1930/1931 ed uscito nel 1932. Molti non sapranno in effetti che il gigantesco "Scarface" di Brian De Palma del 1983, interpretato dal'unico e inimitabile Al Pacino, è stato tratto liberamente proprio da questa prima versione di Hawks. L'abilità di Hawks stava nel riuscire a produrre con successo film d'ogni genere, dal noir alla commedia sino al musical. E' lui, in effetti, a dirigere - ad esempio - film quali "Gli uomini preferiscono le bionde" con l'intramontabile Marilyn Monroe. Dagli anni '50 in poi invece, Kawks si dedicò soprattutto al western, esaltando temi a lui cari quali il coragggio e l'amicizia virile.