venerdì 31 luglio 2020

Tutto il superfluo

la spiaggia di the beach

Non credevo di trovare così tanta gente al mio arrivo o forse sì. In realtà non sapevo bene cosa aspettarmi. È così che succede quando una spiaggia, per assurdo, diventa famosa con un film hollywoodiano. Io ero lì per trovare ispirazione, come se andare in giro per il globo potesse farmi superare quel blocco che avevo. Ero un illuso o… forse no. Era un contesto felice e triste al tempo stesso. Pensavo al libro che tanto avevo adorato e che avevo divorato in tre giorni e pensavo al film che in adolescenza mi aveva fatto sognare. L’arte serve anche a questo, a far sognare, ma a volte è come un ossimoro. In questo caso lo era certamente. La spiaggia di Garland non era un luogo reale in cui l’uomo avrebbe messo i suoi sporchi piedi; quella scelta per il film – invece – lo era eccome. Un locale mi disse che non era poi così affollata, che ero stato fortunato, ma si lamentava, preoccupatissimo per le sue sorti. Ora mi sentivo in colpa per esserci andato. Provai a distarmi leggendo un libro, poi mi immersi in quelle acque meravigliose. “Non dovevano farlo” – pensai sott'acqua – “e io non dovrei essere qui”. Scrivere un libro non danneggia un luogo incontaminato, girarci un film si. La cosa più assurda era che avevano scelto davvero un posto che prima non era in pericolo e che adesso, per colpa nostra, lo era. Morale, etica, falsa morale, falsa etica. Il regista era stato bravissimo, non c’è dubbio, anche se come spesso accade i film tratti da un libro non sono all’altezza degli stessi. Sono sincero, davvero, avevo amato quel film, ma adesso la consapevolezza era diversa. Lo era? Ero lì e non dovevo esserci. Era diversa, certo, ma non abbastanza. A mia difesa posso solo dire che volutamente non usai la crema solare, per non lasciare la mia putredine in acqua. Il risultato fu ovviamente una scottatura, ma mi stava bene. Non dovevo essere lì. Un’area protetta, lo è per un motivo. A pensare che un tempo tutta la terra era così incontaminata, il cuore mi si stringeva in una morsa. Mi sentivo troppo in colpa per restare oltre. Mi alzai dopo solo due ore dal mio arrivo e raccolsi le mie cianfrusaglie stando attento a non lasciare nulla di strano in giro. Tornai a Phuket e mi diressi verso la città vecchia, a Thalang Road. Gli edifici sino – portoghesi accompagnavano i miei dubbi: “Forse un’idea ce l’ho”, pensai. Mi sedetti per una pausa a bere qualcosa, in silenzio e solo come sempre. Pensavo a coloro che vedevano in me un maestro nonostante la relativamente giovane età. “Chissà perché…”, mi dicevo. Lei apparse all’improvviso, inaspettata come la forza dei miei sensi di colpa su quella spiaggia paradisiaca. Immaginai il blocco di marmo dal quale sarei partito e al tempo stesso cercai di fissare nella mia testa confusa ogni dettaglio del suo corpo, del suo viso, del suo vestito leggero. Si sedette al tavolino di fronte al mio, ordinò da bere facendosi aria con un volantino e notò che la stavo guardando. Mi sorrise, ma non ebbi il coraggio di rivolgerle la parola. Era troppo, troppo bella per me. Certamente non lo sarebbe stata per tutti, ma per me era incantevole, tanto da togliermi l’abilità della parola.

Tornato a Roma, nel caos, la prima cosa che feci fu cercarla. Andai nel mio laboratorio, scelsi il blocco di marmo migliore e cominciai a togliere tutto quel superfluo che la divideva da me. Vedevo nei miei occhi il colore dei suoi capelli, di un rosso che mi pareva non aver mai visto prima. Vedevo le sfumature delle sue labbra, carnose e dolci. Vedevo la fantasia del suo vestito estivo, blu con dei fiorellini bianchi e l’ambra dorata della sua pelle che al ricordo mi sembrava brillare. Percepivo a ogni colpo di scalpello l’adagio del tessuto sulla sua pelle e mi sembrò di baciarla quando delineato il suo naso imperfetto e grandioso, mi trovai a ripulire la polvere dal suo viso. Era perfetta, l’avevo trovata o… forse no.

sabato 18 luglio 2020

Jack Kerouac: perennemente "Sulla strada"


Jack Kerouac
Quando si parla di Beat Generation è impensabile non parlare di "On the road", titolo originale di "Sulla strada" di Jack Kerouac. Anche perché l'espressione Beat Generation l'ha creata proprio lui, che però la intendeva in modo molto diverso da come è stata poi sentita e vissuta dalla maggior parte degli scrittori del movimento. Per Kerouac "beat" era "beato", aveva un significato spirituale. Per molti degli altri invece era un termine politico, cosa che Kerouac non considerava minimamente. Quando lessi "Sulla strada" capii al volo perché mi era stato detto che una persona che scrive lo deve assolutamente leggere. Jack Kerouac ha messo a nudo parte di sé stesso con questo libro, portando i suoi personali viaggi, le sue avventure sulla strada e le sue emozioni, negli occhi e nelle dita dello scrittore Sal. Rilevante quanto il protagonista è anche Dean, il più folle della situazione. Sono bastate pochissime parole a Kerouac per far capire che tipo fosse il caro Dean, ma questo in realtà vale per qualsiasi altro personaggio. Poche parole, dicono tutto. Partendo dai suoi appunti di viaggio, Kerouac ha scritto quest'opera nel giro di tre settimane. Tre settimane per un capolavoro intramontabile. Dean, nella vita reale, era lo scrittore Neal Cassady che pubblicò nel 1971 il suo "The First Third", in cui racconta tutta la sua storia (la prima edizione italiana fu pubblicata nel 1980 con il titolo di "Vagabondo" e la successiva fu nel 1998 con il titolo modificato in "I Vagabondi", n.d.r.). Se rimarrete affascinati dal personaggio di Dean e volete saperne di più, vi basterà leggere tutta la sua storia in questo libro che Neal scrisse tra il '48 e il '54. Kerouac ha uno stile unico, inimitabile, Kerouac. "Kerouac" usato come aggettivo per definire lo stesso autore è il modo più semplice e vero di descriverlo. Dovete leggerlo se non lo avete fatto o non potrete capire cosa intendo. Aveva un viso da attore hollywoodiano Jack, uno sguardo parlante e un "je ne se quoi" che mostrava in sostanza quel che scorreva nelle sue vene. Un po' di Francia, un po' di Canada, un po' d'America, un po' di questo e quello: ingredienti mescolati a regola d'arte. Così come la bellezza di un'infanzia felice, trascorsa "correndo giorno e notte per i campi e lungo le banchine del fiume", mescolata alla tragedia della perdita prematura del fratello proprio negli anni della fanciullezza. Fu proprio Jack a parlare di questo ossimoro: un'infanzia serena, ma colpita a fondo da un dolore come pochi. A soli undici anni scrisse la sua prima opera e non si fermò più. Era brillante, ottimo anche negli sport tanto che grazie a questi ottenne anche una borsa di studio. Tra la crescita in un ambiente cattolico e le vicissitudini familiari (tra cui anche i problemi del padre e poi anche della madre con l'alcool), a un certo punto Jack riuscì a spiccare il volo incontrando persone che sarebbero state importanti per tutta la sua vita. Nel '43, dopo 10 giorni di partenza per il servizio militare, gli fu diagnosticata una forma di schizofrenia per la quale fu definito "non pericoloso" - né per sé né per gli altri - ma che di certo non lo aiutò, soprattutto quando iniziò a bere e a fare uso di droghe. Nel '44, con l'incontro tra Kerouac, William S. Burroughs e Allen Ginsberg, nacque la base del movimento della Beat Generation. Fu dopo la morte del fratello Leo e la conseguente ulteriore sofferenza che Jack incontrò il giovane Neal, nel 1946. Jack aveva già avuto le prime conseguenze dovute all'abuso di droghe, ma a quanto pare poco gli importava. Viaggiò con Neal a lungo, scrisse e pubblicò "La città e le metropoli", visse come un “hobe” (termine usato per definire coloro che viaggiavano volontariamente con uno stile di vita da senzatetto) e poi con molti altri, in un avanti e indietro continuo tra avventure ed eccessi. Nel '51, tornato a casa dalla moglie, Kerouac finì "Sulla strada", fino a quel momento solo abbozzato in una prima stesura iniziata nel '48. Nel tempo sopracitato, con quella che definì essere la sua "prosa spontanea", mise ordine ai suoi appunti e definì quello che al tempo non fu solo un capolavoro letterario, ma un vero pugno in faccia a coloro che non volevano ammettere quanto la realtà fosse diversa dal classico sogno americano propinato a tutti. Dopo due giorni mise fine al suo matrimonio, durato solo sei mesi e iniziato fondamentalmente perché lei era rimasta incinta e non perché fosse un grande amore. Continuò a viaggiare, sperimentare, esagerare, lavoricchiare e scrivere. Nel '52 nacque sua figlia Albany, ma a causa delle sue dipendenze non riuscì a garantirle sempre il mantenimento dovuto. Albany ebbe una vita davvero difficile e morì a 44 anni per abuso di stupefacenti. Dire che la vita di Kerouac è stata caotica e tormentata, è ancor poco e se volete saperne di più vi consiglio di approfondire. Pubblicò comunque altre opere ed ebbe un periodo sereno intorno al 1955, ma non durò molto e l'anno dopo già era ripiombato nell'abuso di alcool e sostanze. Anche l'arrivo del successo con la pubblicazione nel '57 di "On the road", non lo aiutò a smettere di autodistruggersi. Tra il 1944 e il 1966 si era già sposato tre volte. Dopo altre pubblicazioni, declini, tentativi di risalita e nuovi declini, l'avvicinamento al buddhismo, i periodi a casa con la madre, poi di nuovo da solo, il viaggio in Italia, il ritorno dalla terza moglie... accadde quell'ultimo fatto che lo distrusse definitivamente: la morte dell'amico Neal, nel 1968. Se prima di allora non aveva dato limiti alle sue dipendenze, da quel momento in poi si può tranquillamente dire che cercò la morte in tutti i modi. La morte lo accontentò il 20 ottobre del 1969, raggiungendolo in maniera cruda, sanguinosa, sofferente, come lo era stata la sua intera strada. Provate a immaginare, voi che ancora non l'avete letto, cosa può un autore di così tanto talento, un tale genio e un tale tormento vivente, aver trasmesso nella descrizione di quei viaggi e soprattutto in che modo può averlo fatto. È Kerouac, se non lo leggi non lo sai.

sabato 11 luglio 2020

Il racconto e i suoi segreti (parte prima)

scrittura, racconto

Non tutti si chiedono da dove derivi il termine "racconto". Facendo una veloce ricerca però, vi renderete conto che è facile capire da dove venga questa parola. Riassumendo l’interessantissimo contenuto proposto da “Una parola al giorno” (cliccate per approfondire, consiglio la lettura integrale dell'articolo), l’etimologia di questo termine è davvero particolare. “Raccónto” da “raccontare” contiene in sé “contare” nel senso di “narrare”, collegato a sua volta a “computare” (latino) e rafforzato dal prefisso -ra.

Questo “computare” significa “contare” e nella nostra concezione è una parola apparentemente lontana per significato dalla narrazione. In realtà, come vedrete dal sito sopracitato che ha fatto l’esempio perfetto per rendere il concetto (e lo riporto così com'è) se parliamo di un “contaballe” sappiamo che si intende una persona che racconta bugie e non che le conta. Il legame sta nel fatto che il racconto è una narrazione calcolata; in parole semplici potremmo dire “inventata e organizzata”. Lasciamo ora questo aspetto, ma ribadisco, leggete se potete l’intero testo pubblicato dal sito da “Una parola al giorno” (link home).

Il racconto è una forma letteraria fenomenale. Da molti sottovalutata, è in realtà un ottimo modo per allenarsi a scrivere e migliorare, fino a che magari – dopo diversi racconti – potreste riuscire a creare un libro che li raccolga o trasformare uno di questi racconti in un romanzo, perché no? In scrittura creativa esistono molti esercizi che puntano a far sviluppare aspetti necessari alla stesura di un racconto e dunque anche di un libro intero. In effetti, il racconto, ha tutte le caratteristiche di una narrazione più lunga. La differenza è che essendo necessariamente più breve è anche strutturalmente più semplice.

Rispetto al romanzo, il racconto avrà meno personaggi e forse solo uno, se non nessun personaggio secondario. Sarà concentrato su un evento in particolare e di conseguenza non avrà sottotrame interne (o sarebbe un gran casino per il lettore!) e anche a livello temporale e spaziale sarà più limitato: non possiamo scrivere un racconto che comprenda anni di storia (possono essere ore, giorni, pochi mesi) e non possiamo parlare di troppi luoghi diversi o confonderemo il lettore.

Certamente molto fa la lunghezza del racconto stesso che, a livello tecnico, ha una suddivisione di questo tipo:

  • “Flash story” o “racconto brevissimo”
  • “Racconto breve”
  • “Racconto"

Alcuni dicono che un racconto possa arrivare sino a 20.000 parole, altri che debba fermarsi sotto le 8.000. In realtà credo che al di là della suddivisione sacrosanta e generale, la lunghezza possa variare per il “racconto” anche di molto, ma ciò che lo rende un racconto è soprattutto la struttura, come è impostato, qual è il suo fine. Storicamente però, è bene approfondire – leggendo e studiando – i racconti dei più grandi scrittori (ne vedremo alcuni).

Tantissimi scrittori che conosciamo - di libri anche lunghissimi - hanno sperimentato per tanto tempo e iniziato la propria carriera con la stesura e pubblicazione di racconti. Un tempo, se avete studiato un po’ la storia della letteratura lo saprete già, esistevano anche i racconti lunghi o romanzi brevi “a puntate”, pubblicati su giornali quotidiani (non dunque su riviste specializzate). Che bei tempi, aggiungo. 

L.A. Editing&Digital Marketing

mercoledì 8 luglio 2020

Giornalismo e Web: i fondamentali per iniziare

giornalismo e giornalismo web

Scrivi da un po’ e hai sempre sognato di collaborare con giornali online? O semplicemente vuoi aprire o hai aperto un blog che tratta di attualità piuttosto che di uno specifico argomento? (cucina, moda, fotografia, tecnologia etc.) Allora dovresti iniziare a studiare prima di tutto alcuni aspetti del giornalismo stampato.

Comune a ogni tipologia di scrittura è l’importanza di farsi capire. A differenza delle epoche passate, il lettore è sempre al centro e nel giornalismo ancora di più. In ambito giornalistico bisogna lasciare da parte tutto ciò che è superfluo e concentrarsi sul dare al lettore le informazioni o le risposte che cercava quando ha iniziato a leggere un determinato articolo. Si dice che per scrivere da giornalista sia necessario fare una sorta di “Rivoluzione Copernicana” poiché, come sopra detto, il lettore è tutto: è il nucleo, il punto fermo per chi scrive. Inoltre, chi vuole scrivere da giornalista, deve essere a conoscenza delle dieci regole fondamentali riportate di seguito.

La concisione: non divagare, non distrarre il lettore dal fulcro dell’articolo, non dare spiegazioni superflue e non rievocare fatti e/o concetti non essenziali per la tematica centrale. Inoltre, importantissimo è non scrivere in 30 parole quello che puoi scrivere in 20 e una volta raggiunte le 20 parole tentare di ridurle a 15. I lettori cercano l’informazione immediata, sul web ancora più che sulla carta stampata.

La precisione: attenzione ad utilizzare le parole con il giusto significato. Capita a volte di usare una parola con la convinzione che il termine voglia dire una certa cosa, ma poi controllando, si scopre che quella parola potrebbe non essere la più adatta, dunque non è precisa. La precisione è poi naturalmente necessaria nelle informazioni che si stanno trasmettendo e ovviamente nella correttezza grammaticale e di sintassi.

La semplicità: è il punto d’arrivo per un buon articolo. Scrivere in modo definito, chiaro, netto, senza troppi incisi e rimandi. Evitare, come per ogni buon testo, le ripetizioni ed evitare tecnicismi e complicanze inutili.

L'originalità: di fondamentale importanza è anche la ricerca di un proprio elemento distintivo, di una propria caratterizzazione e dunque di una personalizzazione degli scritti. Questo vale anche per la rielaborazione di notizie (ad esempio pubblicate in precedenza da un’agenzia stampa).

L'ascolto: nel giornalismo, è sostanziale ascoltare. Ascoltare gli altri giornalisti e aspiranti tali, ascoltare e documentarsi riguardo a tutte le notizie e informazioni disponibili e, nel frattempo, se possibile confrontarsi con altre persone.

La correttezza: citare le fonti ed essere trasparenti.

Il coraggio: molto semplicemente, il coraggio di difendere le proprie idee e opinioni.

Il rispetto: per tutti, sempre.

L'onestà: onestà intellettuale e nei confronti delle persone con le quali ci si confronta ogni volta.

La tempestività: in un mondo che corre veloce, la tempestività è essenziale, ma attenzione: tempestività non significa scrivere un articolo con atteggiamento precipitoso, anche perché non avrebbe la qualità desiderata. 

L.A. Editing&Digital Marketing


lunedì 6 luglio 2020

"Una melodia nel silenzio" di Francesca Pala - 1a classificata al Concorso L.A. Editing

Aleksandr Ermakov


Non ho molto da dire riguardo a Francesca Pala, se non che la sua naturale semplicità e la sua innata capacità di emozionare hanno fatto la differenza. Credetemi, non è per nulla scontato avere queste caratteriste per natura. Di seguito "Una melodia nel silenzio".

Tommaso si accarezzò la barba leggermente lunga. Era seduto davanti a un pianoforte. La mano incerta, sui tasti bianchi e neri, sembrava chiedere a quel vecchio strumento cosa dovesse fare. Gli occhi infossati sembravano tristi e vuoti, come fantasmi di ciò che erano stati. Alcune dita della mano accarezzarono i tasti e, dopo qualche minuto, una bellissima melodia scacciò il silenzio della solitudine. Chiuse gli occhi e si lasciò trascinare nel mondo che quella musica gli ricordava. Un’unica flebile luce accanto a una vecchia poltrona donava un’atmosfera irreale a quella notte di pioggia. Aveva lasciato andare la donna che più al mondo l’aveva amato. L’aveva cacciata via dalla sua miserabile vita senza domani. Le sue mani si fermarono bruscamente e la stanza ripiombò nel silenzio. Un lampo illuminò tutto per un eterno secondo e poi, il boato del tuono riecheggiò tra gli alberi piegati dal vento. Tommaso si passò una mano sul viso stanco, si chiese cosa avrebbe fatto. Incerto si alzò, guardò oltre la pioggia, oltre gli alberi spogli e vide Laura nella sua mente: la vide danzare nel suo salotto. Appoggiò una mano sul freddo vetro della finestra e rabbrividì mentre quell'immagine di lei svaniva nella notte. Lei meritava un uomo che le stesse accanto, che la ricordasse ogni giorno e quell'uomo non poteva essere lui. A breve, pian piano, la sua memora se ne sarebbe andata e lui con lei. La malattia gli avrebbe rubato i ricordi. La malattia non perdona. Gli era capitato di lasciare il fuoco dei fornelli accesi. Quando se ne accorse si accasciò al suolo e si mise a piangere. Mentre piangeva, tremava al pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere, ma dopo un po' - come in una specie di atroce magia - si trovò a ridere vedendo davanti a sé un pagliaccio che non esisteva, se non nella sua mente. Nell’ultimo barlume di lucidità assunse una donna che fosse la sua memoria e lo proteggesse da sé stesso.  Col tempo iniziò a mettersi a sedere sempre sulla solita poltrona, per poi non spostarsi più da lì. Nei mesi successivi il suo salotto diventò ora una strada, ora un vecchio capanno in cui aveva giocato da piccolo. Le persone, così come i luoghi, svanivano e poi ricomparivano in una danza confusa tra realtà e immaginazione. Un giorno, per uno strano scherzo del destino, Laura seppe da un’amica che Tommaso aveva il morbo di Alzheimer e che non riconosceva più nessuno.  Capì che aveva voluto lasciarla libera, quella maledetta sera. Decise così di andare da lui, mentre le sue guance si coloravano di speranza e le mani sudate stringevano il volante. Bussò alla porta e attese che qualcuno aprisse. Una grassottella signora di mezza età la accolse, sorpresa da quell'inaspettata visita. Cosa avrebbe trovato? o meglio, chi avrebbe trovato? Il pianoforte era perfettamente pulito e chiuso: un tempo era stato sommerso di fogli, canzoni mai finite e vecchi spartiti. Guardò Tommaso seduto sulla poltrona: aveva un maglione azzurro e un vecchio paio di jeans. Sembrava sempre lui, con il suo solito buon profumo:

Ciao Tommy…
- Ci conosciamo? – chiese lui con i suoi soliti modi pacati.
Laura smise di respirare. Come poteva aver cancellato tutto? Era questo il dolore dal quale lui l’aveva protetta in quell'anno di silenzio?
- Sono Laura…
- Piacere di conoscerti Laura!
La sua calda voce accarezzò l’animo di lei. Forse Tommaso non era più lì dentro o forse era ingabbiato da quella malattia, legato, imbavagliato e nascosto in qualche posto lontano.
- Come stai? - chiese di nuovo la donna sedendosi.
Guarda, ormai non sopporto più quel cane che continua ad abbaiare per ore. Poi vorrei tanto tornare a casa mia.
Come a casa tua? – chiese Laura stupita.
Lui la guardò e Laura capii: “hai ragione Tommy, ti porto a casa io” pensò tra sé e sé.

Giusto. Andiamo? - lo rassicurò a voce alta.
Ma tu sai dove abito? - la voce di quell'uomo sembrava speranzosa. I suoi occhi la raggiunsero dritta in fondo all'anima. Lui era lì.
Certo, abiti là – affermò indicando lo studio. Lui si girò e sembrò sollevato nel vedere ciò che cercava. 
Esatto!  - sbottò raggiante.
- Si alzò, Laura gli prese la mano e insieme si diressero verso lo studio:
- Vuoi ballare? - invitò Tommaso guardandola negli occhi - Senti che bella musica…

Forse era una follia. Sicuramente era una follia, ma l’unico modo che aveva per ritrovarlo era vivere il suo mondo. Iniziarono a volteggiare nello studio sulle note di una canzone silenziosa. Una melodia che non si sentiva con le orecchie, ma solo con il cuore.

- Sai, conoscevo un uomo così folle che pensava di potermi mandare via.- Davvero? - Tommaso era incuriosito da ciò che quella donna aveva da dire.- Sì, davvero. Non sapeva che io sono più pazza di lui - sussurrò lei quasi fosse un segreto.
Lui rise, dopo tanti mesi di silenzi. Finalmente sentiva di avere qualcuno che lo capiva, che vedeva il suo mondo. Laura, in quel momento, decise che sarebbe stata accanto a lui sempre, pronta per vivere nuove avventure insieme, tra le pareti di casa.

lunedì 22 giugno 2020

"Alex" di Oscar Mariotti - 2° classificato al Concorso L.A. Editing

"Donna misteriosa" di Emil Berg

Oscar Mariotti, con “Alex”, è il secondo classificato del concorso di L.A. Editing. Lo stile di Oscar è definito, ma allo stesso tempo si percepisce - per un occhio esperto – la voglia di sperimentare. Ha iniziato a scrivere di recente, circa un paio d’anni fa e questo – visti i risultati – fa comprendere quanto a volte anche scoprire “tardi” una passione, non significhi aver “perso tempo”. Non sempre chi scrive e ha le abilità per farlo, come in questo caso, lo sa e lo fa fin dalla più giovane età. Ciò non toglie che questo percorso possa diventare di fondamentale importanza nella propria vita, che la scrittura possa divenire una necessità creativa di cui poi non puoi fare a meno, perché in fondo è sempre stata lì ad aspettarti. Ho avuto modo di leggere altre cose di Oscar Mariotti ultimamente e sono felice di dire che “è nato uno scrittore”. Non anticiperò nulla su questo racconto, vi lascerò godere di ogni scena. Si, ogni scena: perché Oscar racconta i passi delle sue storie come scene di un film.


Alex

Nel salotto buio, seduto sul vecchio divano, fissava lo schermo del computer. Fece scorrere immagine dopo immagine, posizione dopo posizione, la vita del signor Brunetti.

Lapo Brunetti, capo filiale di Cavriglia, era un mezzo uomo e mezzo marito di mezz'età. Dalle foto che stava guardando Alex, era evidente che non gli riuscisse bene nemmeno di tradire. La moglie era la brutta copia di una ragazza di campagna, sciatta nel vestire e con qualche chilo di troppo, con grandi occhi nocciola, onesti e speranzosi. La ragazza che era con lui nelle foto, rubate dalle finestre di un appartamento, era alta, bionda e magra. Molto, forse troppo, giovane e giocava con lui come il gatto con il topo. Rappresentava l’antitesi della moglie e non gli offriva certo amore, comprensione o una banale e tediosa quotidianità.

Alex guardò il soffitto, aspettandosi un po' di rumore. Arrivò il silenzio e scosse la testa: niente, totale immobilità, una quiete persistente. Prese uno Xanax dalla tasca, lo buttò giù con un sorso di rum e attese che facesse effetto. Lo schermo gli proponeva corpi nudi e tradimenti, lucide forme che si muovevano all'interno di appartamenti sporchi, grigi e senz’anima. Sorrise e pensò che quei luoghi, quelle camere da letto dalle lenzuola dozzinali, altro non rappresentassero se non l'essenza dei "gentiluomini" che le frequentavano.

Tornando a casa si era fermato alla Bottega e il ragazzo alla cassa aveva alzato la testa mostrando un sorrisone, per poi infilare le mani sotto il bancone e appoggiare una grossa busta gialla sul ripiano.

- Roba forte, Alex.
- Niente spoiler, Robi. Quanto ti devo? 
- Venticinque. Quel tipo se l'è proprio goduta.
- Già - gli dette i soldi e uscì per strada.

Tito, il gatto, si strusciò alla gamba e lo riporto alla realtà. Lo guardò severamente:

- Cosa vuoi? – gli chiese stranito.

Il gatto saltò sul divano e si mise accanto a lui. Guardava incuriosito le foto scorrere sullo schermo e con grazia e dignità si volse verso Alex:

- Non vi capirò mai, umano.

Alex rimase impietrito e cominciò a pensare di aver avuto un’allucinazione. Di sicuro lo Xanax stava facendo il proprio dovere e si rilassò. Sorrise e accarezzò Tito che cominciò a fare le fusa:

- Perché vi legate a una femmina per tutta la vita? – ora Tito lo fissava seriamente.
- Cosa diavolo succede? – gli domandò stupefatto Alex.
- Puoi anche rispondere… – commentò l’amico gatto.

Alex si alzò intontito e barcollò verso la cucina. Si versò un bicchier d'acqua e si appoggiò al tavolo.

- Mentre sei lì, potresti darmi da mangiare - aggiunse Tito con pigrizia.
- I gatti non parlano, Tito.
- Gli uomini non pensano, Alex - saltò sul tavolo e si sedette, poi continuò - perché vi dovete scegliere una compagna per la vita e poi vi dovete nascondere quando andate in cerca di altre femmine?
- È complicato – provò ad argomentare l’uomo.
- No, non lo è.
- Tito, ti ho visto più di una volta andare in cerca di gatte.
- Sono loro che mi vogliono, Alex.
- E sappiamo bene quanto sei orgoglioso di questo.
- Bisogna sempre conservare la propria indipendenza. Se lasci che ti piantino addosso le unghie, sei perduto.

Alex sentì la camera vorticargli intorno e si aggrappò al tavolo. Riuscì a trascinarsi fino al divano e chiuse gli occhi:

- Il cibo, Alex. - sentì il morbido pelo di Tito contro la propria guancia - Alex, che razza di nome è Tito? Ti voglio bene ma...

Il giorno dopo si svegliò depresso e dolorante. Si guardò in giro e non riuscì a scorgere Tito. Lo schermo era ancora acceso e lo fissava, in attesa di una sua decisione.

Si preparò il caffè e decise di parlare chiaramente con il signor Brunetti. In fin dei conti era stato assunto per scoprire una possibile tresca di sua moglie. La signora Brunetti era una donna trasparente, nessun vizio e soprattutto nessun amante. Suo marito invece era di tutt’altra pasta e gli stava antipatico. Avrebbe parlato con lui e dopo aver riscosso lo avrebbe mandato al diavolo. 

Prese il caffè e trovò Tito che dormiva nel suo letto: preferì non disturbarlo. Decise di farsi una doccia lunga e bollente e prima di uscire riempì la ciotola dell’amato gatto, per poi prendere il computer. Poche scale e si ritrovò in strada. Prese il cellulare e compose il numero:

- Carlo, hai da fare?
- Buongiorno a te Alex.
- Buongiorno. Hai da fare ora?
- Sono in studio, perché? - la sua voce risultava, come sempre, calma e profonda. Alex la odiava da sempre quella voce, fin da quando erano alle superiori.
- Mi è successa una cosa strana, ieri sera.
- Ho dieci minuti.
- Grazie.
- Dai, dimmi.
- Ho parlato con il gatto.
- Niente di strano. Anche io parlo con il mio gatto, - si schiarì la voce - il problema nasce se ti ha risposto.

Alex lo immaginò che sorrideva compiaciuto, seduto alla sua grande scrivania di legno scuro:

- Appunto, Carlo.
- Mi vuoi dire che Tito ti ha parlato?
- Esattamente.
- Cosa hai preso ieri sera?
- Niente di che. Giusto uno Xanax e un paio di bicchieri di rum. Il solito, Carlo.
- Solo? A me sembra abbastanza. Come ti senti?
- Disidratato e affamato di cervelli. Uno zombi, né più né meno.
- Me lo immagino. Ne riparliamo poi, è arrivata la paziente.
- Ciao, strizzacervelli.
- Vedi di non dare confidenza agli animali che non conosci, Alex. – e dopo quest’ultima affermazione beffeggiante, Carlo riattaccò. 

Ritrovandosi davanti al suo ufficio, Alex rifletteva sulla notte appena passata: una notte strana di certo, con allucinazioni e conversazioni inaspettate. Eppure non aveva bevuto abbastanza da intontirsi. Ora che ci pensava, mentre si dirigeva verso Bianca, non aveva ancora bevuto ed erano le nove del mattino. 

- Qual buon vento?

Bianca era una ventenne, senza grandi aspirazioni. Capelli rossi, occhi azzurri e lentiggini, magra e molto tatuata. Una modella che, parole sue, non aveva voluto posare nuda per cui si era dovuta trovare un altro lavoro. La sua più grande qualità era il fidanzato, carabiniere di stanza a Montevarchi e fonte inesauribile d’informazioni. Si avvicinò a lei, sfilò dal cappotto una busta e gliela porse. 

- Stipendio.
- Una busta paga con bonifico, no?
- Per chi mi hai preso, sono all’antica – sottolineò Alex.
- Come no! - Bianca contava i soldi senza alzare la testa. - C’è il signor Brunetti in ufficio.
- Mattiniero. Ha detto niente?
- Non mi piace. Mi ha spogliato con gli occhi.
- Mette i brividi, vero?

Bianca annuì e gli indicò la porta dell’ufficio, così Alex entrò togliendosi il cappotto. Si diresse alla scrivania con in mano due grandi buste gialle:

- Buongiorno Signor Brunetti, scusi l’attesa - posò gli involucri e si mise a sedere.
- È in ritardo signor…
- Alex, solo Alex.
- Bene Alex. Che cosa ha scoperto?
- È complicato signor Brunetti.
- In realtà è semplice Alex. Mia moglie mi tradisce, sono sicuro.
- In realtà ho le prove di un tradimento.
- Delle foto? - Alex toccò le buste e annuì serio.
- Conosce la parola Hybris, signor Brunetti?
- Arroganza, superbia. Giusto?
- In parte è corretto.
- Cosa c’entra con me?
- Nella legislazione della Grecia antica aveva un ulteriore significato.
- Me lo dica, così andiamo avanti - prese il libretto degli assegni e lo compilò lasciando in bianco l’importo.
- Bene, arriviamo al punto. - fece scivolare le buste verso il cliente - Hybris era un oltraggio compiuto verso una persona per sottoporla al disprezzo generale, farle perdere il suo onore e danneggiarne la reputazione.

Il cliente si fece cupo e aprì le buste. La prima risultò vuota, mentre il contenuto della seconda lo trasformò in una statua di sale: scorreva le prove fotografiche del suo stesso tradimento.

- Bene, signor Brunetti. 
- Come si permette!
- Sono cinquecento per aver dimostrato che sua moglie non l’ha tradita e altri mille per aver scoperto il suo tradimento.
- Questa è estorsione! Io la denuncio!
- Lei mi ha firmato il mandato. Ho fatto il mio lavoro – rimase ammutolito, così Alex proseguì - con fattura o senza?
- Lei, lei è… un farabutto!
- Forse. Assegno o contanti?
- Assegno. Voglio avere la certezza che nessuno venga a sapere del fatto - finì di compilarlo e glielo gettò sulla scrivania.
- Certamente, signor Brunetti. Spero che l’assegno sia coperto.
- Assolutamente. Addio, signor …
- Alex, solo Alex. Arrivederci signor Brunetti.

Il cliente si alzò e barcollò verso la porta, con le buste strette al petto. Infilò l’uscita senza voltarsi né chiudere.

- Che stronzo - commentò serafica Bianca.

Silenzio. In ufficio ora era solo e ripensava alla giornata appena passata, conclusa, morta. Aveva risolto il caso e scontentato il cliente e, non era sicuro di doverne andare fiero, aveva riscosso un bel po' di soldi. Sentì all’improvviso due colpi alla porta ravvicinati:

- Avanti - irritato, guardò l'orologio, la porta si aprì e lei entrò: fu incredibile, Alex rimase senza fiato. 

La donna sfilò verso di lui, sembrava fluttuare. Aveva un vestito leggero che la fasciava interamente, le sue forme morbide premevano sulle cuciture e il seno prorompente lo ipnotizzò. Tanta abbondanza lo aveva scosso, lui non amava particolarmente il seno, preferiva un bel didietro al resto, ma quella donna era perfetta su tutto.

- Prego – la esortò Alex mostrandole la sedia.

Si accomodò e probabilmente fu in quel preciso momento che s’innamorò di lei. Le sue labbra piene e carnose lo imbambolavano e i grossi occhiali neri vintage che le nascondevano il volto le davano un tocco di mistero. Un volto innocente e piacevole, accompagnato da due bellissime gambe incrociate che mostravano tutta la carne possibile, liscia e desiderabile.

- Mi dica, signora.
- Signorina.
- Scusi. Continui.
- Morelli, Tiziana Morelli.
- Bene, mi dica.
- Lei è un investigatore privato, giusto?
- Sì. Senta signorina Morelli…
- Tiziana.
- Tiziana, di cosa ha bisogno?
- Ho la necessità che lei mi trovi un oggetto che mi è stato rubato.
- Mi chiami pure Alex. Quale oggetto?
- Una pen drive Alex.

Le porse un foglio e una penna:

- Scriva il suo nome, telefono e indirizzo. Dove e quando le è stata sottratta la pen drive?
- A casa mia. Non so di preciso quando, forse due giorni fa.
- Sospetti?

Alex continuava a osservarla e lei arrossì. Le sorrise e notò un livido fresco vicino all'occhio.

- Qualcuno, le scrivo i possibili nomi.
- Deve fare qualcosa con le porte.
- Cosa?
- Sì, le porte. Se la porta dovesse continuare a battere contro il suo viso, mi chiami.
- È un regalino d'addio del mio ex ragazzo.
- Simpatico.
- Non proprio. Quanto mi verrà a costare Alex?
- La richiamo Tiziana. Faccio qualche ricerca e le dirò.

La cliente si alzò e ondeggiò a dieci centimetri da terra, verso l'uscita:

- A presto, Alex.
- A presto, Tiziana.

Scomparve dalla stanza e lo lasciò svuotato di ogni forza. Che donna che era. Si gettò sulla sedia e osservò i nomi che aveva scritto cominciando a pensare.

La notte sarebbe stata lunga, tra un appostamento e l’altro, a spiare le vite di perfetti sconosciuti. No, quella sera sarebbe andato dritto a casa da Tito e dal suo rum, nel tentativo di lasciarsi alle spalle tutto tranne lei. Non voleva rischiare di distorcere la sua immagine perfetta. L’avrebbe rivista di certo e quasi non aveva la pazienza di aspettare.

mercoledì 17 giugno 2020

"Vita di un respiro" - Gentili Emanuele - 3° classificato al Concorso L.A. Editing



Con grande gioia vi presento il racconto del terzo classificato al concorso letterario di L.A. Editing: “Vita di un respiro” di Emanuele Gentili. Emanuele è un poeta e nel suo racconto questo emerge, non c’è che dire. Il suo stile, la stesura del testo, la scelta del “come” trattare gli argomenti (più di uno e tutti certamente di peso), sono immagine perfetta del poeta che si ritrova a scrivere un racconto, nel senso più positivo che ci sia. Anele è protagonista, insieme ai genitori e in particolare al padre, di una storia attuale quanto storica (poiché sappiamo che la storia si ripete). Anele, nata in una zona del mondo in cui i sacrifici e il pericolo vengono ben presto a bussare alla porta, è respiro del padre. Un padre che tanto la ama da non esser più riuscito, per le preoccupazioni e il  timore di perderla, a emettere respiri pieni, tanto è preso dalla paura. Anele è però anche simbolo del suo respiro fisico: un respiro che gli viene a mancare per un ceppo di polmonite assai duro da superare, per il quale ci sono già state molte vittime. Mike si trova faccia a faccia con la morte e Lucia – la cara moglie – già teme il peggio e si domanda in qualche modo come potrebbe spiegarlo alla sua piccola. Anele però è forte: sia Anele come bambina e figlia che Anele come simbolo e realtà del respiro, portatore di vita. C’è tanto in questo racconto. Ci sono emozioni forti, realtà, riflessioni. La vita è respiro, il respiro è vita. I figli stessi sono respiro e i genitori lo sono per loro. Cosa accade a Mike, Anele e alla mamma Lucia? Leggete e gustatevi ogni frase. Complimenti a Emanuele per questo splendido racconto.

Vita di un respiro:

Anele è un respiro. È appena nata e non sa ancora di esserlo. Si scalda sotto il caldo africano, nella regione dello Zimbabwe, nei pressi di una diga alta 130 mt, a Kariba. Una diga che non è più sicura, ormai: comincia a dare dei segni di cedimento. Piccole crepe e improvvise fuoriuscite d’acqua potrebbero mostrarsi da un secondo con l’altro.

Anele è forte, la madre non ha dubbi. Queste cose si sanno, sono impostate di default dentro di noi. Non ci si inganna né si mente a noi stessi, riguardo a queste sensazioni. La sua preoccupazione, dopo il primo vagito, sembra svanire; compensata dalla consapevolezza che la piccola resisterà, fino al compimento del proprio dovere. Quello che però Kali non sa e non può immaginare è che la sua cucciola di respiro è destinata a grandi cose.

Tempo di un saluto, un bacio sulla fronte e la piccola è libera di spiegare le proprie ali: al di sotto di quella diga. Non vi è tempo per i romanticismi e per i saluti. Questo ogni madre lo sa. Una volta nato, il respiro appartiene al vento e, con lui, deve andare incontro al proprio destino. Anele, questo non può ancora saperlo.
È solo curiosa: come può esserlo chiunque veda il suolo della sua amata madre terra, dall’alto della propria vita: per questo in Africa si pensa che ogni respiro abbia due madri. È confortante, nascere respiro. Così piccolo, già con un dovere da compiere, ma con la sicurezza di avere un senso, uno scopo.

-      - Mamma, papà ha gli occhi ancora chiusi. Quanto sta dormendo?

La piccola Anele ripete la stessa domanda ogni cinque minuti, alla madre Lucia. La risposta che riceve non cambia, estratta come fosse una confessione sotto tortura:

     Lascialo riposare, è stanco.

Si gira Lucia, come se questa risposta la dovesse dare al vento o forse per non far vedere alla figlia le lacrime che da quindici giorni albergano su quegli zigomi scavati dalla paura.

Il padre fatica a respirare, tossisce. La febbre non si abbassa, se non di qualche grado. La sera sembra aver assorbito tutto il sole africano. Tosse da fumatore senza mai averne aspirata alcuna. Tosse che sembra voler sputare sul mondo il dolore che lo sta attanagliando da dentro.

I respiri non arrivano, se non forzati. Si scambiano come fossero a una partita di pallavolo. Prima la tosse, poi il respiro e così via, fino a… Un fisico robusto, bloccato da una banale influenza.

La madre ha spento da ieri la televisione. Notizie strane arrivano da paesi distanti pochi km da loro. Una nuova malattia, simile alla polmonite, sta contagiando molte persone e i morti aumentano. Lei non ha dubbi: si tratta dello stesso ceppo di influenza. Queste cose si sanno, sono impostate di default dentro di noi. Non ci si inganna né si mente a noi stessi, riguardo a queste sensazioni. 

Di guardare Anele negli occhi però non se ne parla:

- Ora andiamo a dormire, piccola. Vedrai che domani starà meglio.

Da madre non avrebbe mai pensato che sarebbe stata in grado di mentire come una professionista a sua figlia.

Il padre Mike, italo americano, si finge equilibrato. Simula respiri calmi. Asseconda la pancia con la mente - grazie alle poche lezioni di Yoga - prendendola per mano, come se dovessero attraversare una strada pericolosa.

Da cinque anni, età della figlia, teme il domani: è stato spavaldo sino ai quaranta, poi un nuovo orizzonte si è presentato davanti ai suoi occhi innamorati. Quel meraviglioso profumo d’abbracciare che ora pare essergli negato, chiuso come è nelle proprie paure. Già da allora gli manca il respiro pieno, completo. Lei nascendo se n’è preso un po’.

- Come mi sento, come mi sento, come mi sento? - continua a ripetersi, prima di coricarsi.

I brividi non lo hanno mai abbandonato: prima erano d’amore, di gioia. Erano brividi d’emozione pura, semplice e contagiosa. I brividi da bollicine, spumeggianti e color dell’oro. Luminosi, solari, africani.

Ora trema: è decisamente diverso. I tremori hanno incrementato la loro intensità, fino a divenire scosse, come fossero terremoti, veri e propri sussulti.

Oramai il suo corpo freme per la gran paura. Continua a mostrarsi distaccato, persino a sé stesso. Si osserva dall’alto della montagna e non si riconosce più. Sente freddo. La sua anima è oramai in cima, si guarda attorno. È sola là sulla vetta, almeno per il momento. Si vede così, mentre sente quella gran paura di perdere l’equilibrio, di soffiare fuori l’emozione per non farla morire di freddo. Ha paura persino di piangere: magari poi si ghiacciano, queste lacrime dimenticate. Si sbuccia l’anima, cadendo esausto per l’ennesima volta. Sangue nuovo viene dalla sua ferita e gli pare come se fosse stato lasciato custodito in fondo a un pensiero. Se non lo vedesse così lucente, rosso vivo, lo avrebbe dato per “morto”.

Anele vola veloce. Il vento da dietro le tiene i capelli con amore, vola verso il proprio destino. Scorge in lontananza la sua bella casetta e nota subito la finestra aperta, perché di solito a marzo è tutto chiuso. Lei non conosce le dinamiche però, non si pone domande. La casa prende aria, ricicla vita. Un cuore aperto non può permettersi porte chiuse. La speranza passa dalle crepe di un muro portante ed è proprio una crepa che segna la via ad Anele. È la strada più angusta, stretta e scomoda a fare da ponte tra la morte e la vita.

- Mamma, papà ha riaperto gli occhi!

Anele vede la sua vita in una pancia, quella che papà ritrova dopo anni svuotata completamente grazie a un respiro, finalmente pieno di vita.


Autore: Emanuele Gentili
Editing testo: L.A. Editing&Digital Marketing

mercoledì 27 maggio 2020

Concorso letterario L.A. Editing




Sezione: narrativa

Il concorso invita i partecipanti a scrivere un racconto a tema libero e senza restrizioni di genere. La lunghezza massima consentita è di tre cartelle (una cartella è costituita da 1800 caratteri spazi inclusi) e i risultati delle selezioni saranno pubblicati di volta in volta sulla pagina L.A. Editing.

Per partecipare inviare il proprio racconto alla mail lailcammino@gmail.com specificando in oggetto "Concorso L.A. Editing". Inviare il file in formato word o similari come allegato alla mail e scrivere nel testo della mail il proprio nome e cognome.

La scadenza entro la quale inviare gli scritti è il 6 giugno 2020.

La selezione avverrà secondo insindacabile giudizio di L.A. Editing. La partecipazione è totalmente gratuita.

Premi:

1° posto: una lezione di scrittura creativa di un'ora e l'invio di una breve guida per scrittori emergenti con suggerimenti utili al miglioramento del proprio modo di scrivere e accenni all'auto promozione.
2° posto: Invio della guida.
3° posto: Invio della guida.

Tutti e tre i racconti saranno pubblicati su "Il cammino" e condivisi sui social.

Evento Fb 

mercoledì 11 dicembre 2019

Il Trio Bobo: Faso, Meyer, Menconi



Il Trio Bobo è un’esplosione di energia, espressività, passione e livello musicale altissimo. Non a caso è composto da tre dei musicisti più bravi d’Italia, vale a dire Christian Meyer (batteria), Faso (basso) e Alessio Menconi (chitarra). Come già molti di voi sapranno si tratta della sezione ritmica di Elio e Le Storie Tese unita ad uno dei chitarristi più bravi del jazz italiano (e chitarrista di Paolo Conte). Vederli dal vivo è una goduria. Li vedi sorridenti, allegri, liberi e mi ricordano un po’ degli atleti che fanno numeri di grande difficoltà con il viso rilassato e gioioso, facendo comprendere che quel che fanno, pur se difficile, è per loro di una naturalezza infinita. È ovvio che quando si parla di musicisti di questo calibro si rimane a bocca aperta. Io in particolare ero allibita da Christian, avevo la mascella autonoma, viveva di vita propria. Naturalmente anche per Faso e Alessio, ma amando particolarmente lo strumento, vedere un batterista come Christian Meyer suonare a pochi metri e stare ad osservare, con una certa conoscenza dello strumento, quello che fa… non può che suscitare questo effetto. Faso e Alessio comunque, sono – come dire – "bestioline da palcoscenico" e chi li ha potuti ascoltare e vedere anche in altre occasioni lo sa, non c’è molto da spiegare. Questo Trio sta suscitando sempre più successo tra il pubblico e non è solo per la musica straordinaria, coinvolgente e originale che creano – anche se è fondamentale – ma anche, credo io, per la capacità che i tre hanno di coinvolgere ed interagire con le persone che hanno di fronte. È un continuo scambio, di musica, emozioni ed allegria e alla fine del concerto non si può fare a meno di acquistare almeno uno dei loro album. Per questa chiacchierata con loro, per la prima volta da quando esiste Il cammino, ho voluto coinvolgere anche i lettori e chi era interessato a fare domande ha mandato un messaggio privato sulla pagina Facebook, scoprendo in anteprima di chi si trattasse. Tra queste domande, le selezionate sono state inserite nell’intervista che potete leggere qui sotto.

Allora “gggiòvani”, raccontate a chi ancora non lo sapesse come è nato e cosa combina il Trio Bobo... aneddoti particolari da raccontare a riguardo?

Alessio: Il trio nasce 17 anni fa, quando ci siamo riuniti quasi per caso per fare due concerti nei quai abbiamo suonato cover jazz/rock. Da lì ci siamo trovati bene in tutti i sensi ed abbiamo deciso di proseguire scrivendo musica nostra.

Chris: Io pensavo che avremmo dovuto avere un nome tipo “Power Trio” e Faso ci ha convinti che Trio Bobo fosse il nome giusto. Aveva ragione Faso e ho dovuto rivedere tutte le mie convinzioni di titolista farlocco.   

Avete pubblicato tre album, accolti con grande energia da tutti, con live pieni di entusiasmo da parte del pubblico più svariato... e ora? state già lavorando a un nuovo album?

Faso: Abbiamo pubblicato “Trio Bobo” nel 2005, “Pepper Games” nel 2016 e “Sensurround” nel 2019. Il primo album però è poco noto perché ha avuto diffusione molto limitata.

Alessio: Magari al quarto ci lavoreremo il prossimo anno!

Chris: Fare un cd richiede molto tempo e oggi siamo schiacciati da un mondo veloce, perciò le due cose coincidono poco, ma noi teniamo duro!

Faso: Nel trio confluiscono i gusti musicali e le passioni di tutti e tre i componenti, che coprono uno specchio abbastanza ampio di generi musicali: rock, blues, jazz, progressive, dance ’70, pop, afro, musica brasiliana, soul. Va da sé che le nostre composizioni contengono tante spezie diverse e posso quindi incuriosire ed essere apprezzate da un pubblico eterogeneo.

Christian, come sai - visto l'amico/idolo in comune (Gianni Cazzola, re dello swing italiano, n.d.r.) - ho una predilezione per i batteristi anche se è ovvio che in quanto appassionata fino all'osso di musica amo ogni grande musicista, però cavolo, vederti suonare è praticamente un viaggio e sembra che il viaggio lo stia facendo anche tu. Mettendo la frase tra virgolette, "sei più tu a "tenere il controllo" - se così si può dire - su quello che fai o è più la musica che trascina te"? Un po' come dire... chi è che "comanda" di più?

Chris: Quando un batterista suona con dei bravi musicisti vi è una sorta di traino musicale che ti facilita il compito di sostenere il gruppo. Io tendenzialmente, sul palco entro in una fase molto selvaggia e libera. Naturalmente non spengo il cervello e cerco anche di non esagerare con imposizioni ritmiche, bensì di rispettare gli spazi degli altri musicisti. Sicuramente il batterista ha la potenzialità di rendere un gruppo più o meno interessante. Come? grazie alle dinamiche, alle pause o ai colori che decide di utilizzare. Il batterista può o non può suggerire scenari ritmici immediati e stimolanti.

Ora, per la prima volta nella storia del blog, vi riporto alcune domande da parte del pubblico. La prima domanda è di Arianna Capirossi che chiede: qual è la parte che preferite del vostro lavoro? la composizione, l'esibizione live, l'incisione…?

Alessio: Io preferisco suonare dal vivo.

Faso: Anche io preferisco suonare dal vivo, però non nascondo che lavorare sull’arrangiamento di un brano in studio non mi dispiace affatto.

Chris: Concordo con i miei amici musicisti. Dal vivo hai adrenalina e contatto con il pubblico, in studio puoi ragionare e divertirti in un altro modo.

La seconda è di Alain Morandi (un grande musicista tra l'altro, n.d.r.): qual è la scintilla che ha innescato la miccia per dar vita a questo trio? e a chi vi siete ispirati?

Alessio: Abbiamo diverse influenze, alcune in comune e altre no ed è forse per questo che nasce un sound particolare ed originale.

Faso: Concordo con Alessio e aggiungo solo una cosa: come ispirazione sull’approccio dal vivo di sicuro ci ispiriamo - con grande umiltà - ai Weather Report, che dicevano di essere “sempre in solo, mai in solo”, vale a dire “improvvisare si, ma in modo misurato”.

Chris: Concordo e aggiungo che suonare in trio ti permette di prendere direzioni musicali diverse mentre sei live sul palco. Il trio è un divertimento.

La terza e ultima domanda dei lettori è di Sergio Gritti, cantautore: quando si è musicisti affermati si ha la possibilità e la capacità di suonare un po' tutti i generi musicali, ma mi sembra che spesso capiti che alcuni musicisti suonino generi non proprio consoni ai loro gusti musicali, a volte per questioni di mercato, di richiesta. Che ne pensate?

Alessio: A volte non tutti hanno la possibilità di suonare la propria musica o semplicemente non hanno abbastanza “motivazione”, quindi molti musicisti si ritrovano a suonare musica che non amano semplicemente per lavoro.

Faso: Se di lavoro fai il musicista devi tenere conto che non sempre suonerai la musica che preferisci. Anche perché se fai troppo il difficile diventa complicato mantenersi! Mi reputo molto fortunato ad aver suonato per 30 anni con gli Elio e le Storie Tese e da oltre 15 anni con il Trio Bobo, non capita a tutti in Italia.  

Chris: Infatti noi siamo fortunati perché suoniamo la nostra musica. Ecco perché ci vedete sorridenti sul palco!!!

Chiudo io, con una mia domanda di rito. Di che colore è il Trio Bobo?

Alessio: Giallo.
Faso: Giallo limone. 
Chris: Giallo canarino.

Grazie ragazzi e voi che leggete, andate a sentirli da vivo!!!

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